di Daria Settineri
Per tutta la vita Ivo aveva sognato di attraversare il mare che, da Tunisi, lo avrebbe condotto a Trapani da dove pensava di raggiungere Marsala, il paese natio del padre. La Sicilia della provincia di Trapani, da cui il genitore, ancor prima che lui nascesse, era fuggito nella speranza di un futuro più florido per lui e per la famiglia che voleva costruire con la sposa toscana, aveva per Ivo dei tratti mitici. Un infarto, però, nel 2007 stroncò la sua esistenza prima che fosse riuscito a coronare il sogno di aver da parte il denaro necessario per portare almeno in vacanza la moglie tunisina e il figlio di dieci anni nell’amata Marsala. Al di là del mare di Sicilia dove si trovava la sua casa, infatti, per Ivo la Tunisia rappresentava un luogo di transizione: se non gli era stato possibile nascere a Marsala, almeno là avrebbe voluto invecchiare, morire ed essere sepolto. Così non fu. Lo conobbi nella primavera del 2005 nella sua bottega di falegnameria, una stanza da cui si accedeva per mezzo di un vecchio portone di legno dipinto di blu, in rue Kouttab Ouazir, la strada della Medina che si imbocca da rue Al Djazira all’altezza della piazza da cui partono i louage per la Libia, quasi di fronte all’entrata laterale della sede della “fondazione Orestiadii”, un istituto di cultura la cui sede madre si trova a Gibellina (Trapani), dove allora lavoravo. Aveva circa cinquant’anni: i capelli bianchissimi lo facevano sembrare più vecchio, ma il vivido colore ceruleo dei suoi occhi rivelava la sua giovinezza. Nell’attesa di realizzare il viaggio in Sicilia, mi chiedeva di portargli, ogni qual volta vi facessi ritorno io, i cannoli che un tempo un altro siciliano emigrato preparava in una pasticceria proprio a lato della sua bottega. Ivo si definiva siciliano ma contemporaneamente arabo e infatti parlava siciliano e tunisino anche se non sapeva scrivere l’arabo. Non lavorava il venerdì per rispettare il giorno festivo musulmano, il sabato per rispettare quello ebraico e la domenica in onore del dio cristiano. Spesso non apriva la bottega neanche il lunedì, «per riposarmi dalle feste» era solito dire sorridendo sornione. In realtà Ivo, mai completamente presente nello spazio in cui ha vissuto, ha esperito la drammaticità di coloro che non sono riusciti a ricomporre la scelta di emigrare a favore di una ricollocazione che non fosse marginale.
Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento come il padre di Ivo, nella speranza di trovare fortuna in terra d’Africa, partirono moltissime persone da Marsala, dalla provincia di Trapani in generale ma anche da altri luoghi della Sicilia, oggi approdi per il triste ritorno dei maghrebini che, dalle nostre coste, iniziano la propria ricerca dell’Eldorado dell’Occidente.
Da a un censimento del 1906 si apprende che la Tunisia contava circa 400.000 abitanti di cui 18.000 francesi, 5.000 maltesi e 52.000 italiani (Bonura 1929). Con il “trattato di Aix-la Chappelle” del 1818 che sancì la fine dell’attività corsara, infatti, tra la penisola italica e la Tunisia si erano intensificati sia gli scambi commerciali sia le attività imprenditoriali e, di conseguenza, erano divenute più significative le ondate migratorie. Con il “trattato de la Goulette” del 1868, inoltre, si garantì agli italiani residenti in Tunisia il mantenimento della nazionalità, la libertà di commercio e di possedimento di beni immobiliari, oltre che il beneficio dell’immunità poiché l’amministrazione della giustizia dipendeva dal consolato. Le favorevoli congiunture verificatesi dopo il “trattato de la Goulette” permisero che in Tunisia si fondassero, negli anni, una “Camera di commercio”, la “Banca Siciliana”, il quotidiano Tunis Socialiste, “L’Unione”, la testata Simpaticuni (Brondino 1998) e vari enti culturali e assistenziali dedicati agli italiani fra cui teatri, cinema, scuole, ospedali. Sono anni in cui il numero di immigrati italiani crebbe esponenzialmente. Dal 1881, con dell’avvento del protettorato francese, fino agli anni Trenta del secolo scorso, la presenza degli italiani superò largamente quella dei francesi. Ma, anche se con gli “accordi di Parigi” firmati il 28 settembre 1896 si consentì agli italiani di mantenere la propria nazionalità e di trasmetterla di padre in figlio, il fatto che il numero degli italiani fosse di molto superiore a quello dei francesi rappresentava un problema da arginare definito péril italien. Si cominciò, allora, nel 1913, a escludere gli italiani dalla partecipazione a gare d’appalto statali; nel 1923 fu varata, poi, una legge per cui gli stranieri nati in Tunisia da genitori anch’essi nati in Tunisia venivano automaticamente naturalizzati. Questo procedimento inizialmente non riguardò gli italiani, ma una serie di agevolazioni che ne conseguirono spinsero molti italiani a chiedere la naturalizzazione francese; nel 1930 venne emanato un decreto che autorizzò l’ingresso soltanto a stranieri immigrati in possesso di un contratto di lavoro (Melfa 2008). In tal modo, dalla seconda metà degli anni Trenta i dati si modificarono sensibilmente fino alla fine della Seconda Guerra mondiale quando, stante alle stime del censimento del 1946, la situazione si invertì e il numero di italiani si attestò su 84.935 mentre quello dei francesi giunse a 143.977. Ovviamente il fenomeno della naturalizzazione per cui nel 1936 si contarono complessivamente 30.000 francesi di lingua italiana fu molto più marginale nelle campagne o fra i minatori sardi, che vivevano chiusi nelle proprie comunità, scarsamente motivati a un cambiamento di statuto e più legati alle loro origini tanto da definire canni vinnuta (carne venduta) i naturalizzati (Bonura 1929). Più vantaggio ne ebbe chi aspirava a posti statali e parastatali poiché l’essere francesi divenne presto conditio sine qua non per poter accedervi.. Con la fine del protettorato francese, furono varate leggi che impedivano che tutta una serie di lavori dipendenti potessero essere di competenza dei non tunisini e anche per quanto riguarda i lavori autonomi furono varate restrizioni, non concessioni di licenze, espropri, che convinsero molti italiani, soprattutto quelli che avevano investito capitali o avevano da investirne, a ripiegare per un ritorno in Italia o in Francia in particolare, ma anche a intraprendere nuove strade (Manduchi 2002 e Davì 1996).
Ma chi sono, da dove, e quando giungono questi italiani in Tunisia? Tralasciando quanti vi arrivarono come schiavi nei secoli precedenti (Bono 1989), si possono individuare, nella migrazione storica da tutta la penisola, tre fasi principali di questi processi migratori. Il primo ciclo comprese in grande maggioranza la piccola e media borghesia imprenditoriale della penisola centro-settentrionale; il secondo per lo più esuli politici degli anni Venti e Trenta del secolo scorso; il terzo si estese dagli anni Venti alla fine degli anni Quaranta e incluse in larga scala le migrazioni prima stagionali e poi permanenti delle persone più povere dell’Italia meridionale e insulare che si stabilirono alla Medina, dove sorse la petit Calabria, e a la Goulette dove sorse la petit Sicilia (Del Piano 1964). Quartieri siciliani si formarono anche in altre città della Tunisia. A Sousse, per esempio, si insediò, nella zona costiera, Capaci piccola, abitata fondamentalmente da pescatori e, successivamente, Capaci grande nella zona alta della città abitata da piccoli commercianti (Capaci è un piccolo paese in provincia di Palermo). A queste tre fasi storiche si aggiunga l’ondata migratoria di quanti, nel decennio precedente agli avvenimenti del 2011, avevano spostato in Tunisia le sedi delle proprie attività imprenditoriali e di coloro che, sopraffatti dal carovita in Italia, avevano deciso, raggiunta la pensione, di trasferirsi nella costa sud del Mediterraneo, anche avviando nuove attività imprenditoriali, per assicurarsi quel tenore di vita che, altrimenti, sarebbe stato loro negato.
Per quanto riguarda, in particolare, i flussi migratori dalla Sicilia e dalla provincia di Trapani nello specifico, possiamo registrare quattro fasi storiche dalle peculiarità differenti: la prima, che comprese gli anni dal 1876 al 1883, fu motivata da una marcata tendenza al trasferimento volontario di attività produttive e di forza lavoro verso il nord Africa e in particolare verso la Tunisia a causa del forte sviluppo urbano della capitale maghrebina. La seconda fase, caratterizzante gli anni dal 1884 al 1901, registrò un calo generale del fenomeno perché i Paesi costieri riuscirono ad arginare il grande flusso dei migranti dall’entroterra grazie al felice momento di sviluppo che stavano attraversando. Nella terza fase, compresa tra gli anni 1902 e 1925, invece, si censì un nuovo picco di migrazioni verso il nord Africa a causa dell’avvento della fillossera che distrusse i vigneti creando improvvisamente un surplus di contadini e braccianti agricoli ingestibile da parte dei paesi costieri (Costanza 2005). A questo fenomeno si aggiunse quello verificatosi nelle saline che, sotto la pressione della concorrenza spagnola e nord-africana, persero progressivamente importanza all’interno del mercato, e quello dovuto alla minore quantità di tonni pescati nelle tonnare delle Egadi che produsse un forte calo occupazionale tra i pescatori. Negli anni Quaranta, infine, si collocò la quarta fase storica. In questo periodo i migranti siciliani batterono nuove strade, fra cui l’Australia, ma ne ripercorsero anche di vecchie. Per buona parte degli abitanti della provincia di Trapani la Tunisia divenne nuovamente la terra della speranza..
Durante gli anni trascorsi in Tunisia avevo conosciuto, oltre Ivo, tanti figli, nipoti e pronipoti di migranti siciliani arrivati bambini o nati lì nei primi quaranta anni del Novecento. Uomini e donne, dunque, che avevano una fascia d’età compresa tra i cinquanta e i settantacinque anni. Avevo anche conosciuto tanti siciliani trasferitisi intorno agli anni 2001/2002 la cui età oscillava tra i quarantacinque e i sessanta anni. Comunità di siciliani provenienti dalla Tunisia, inoltre, si trovano ancora oggi non solo in Tunisia, ma anche in Francia, in America e in Sicilia nei pochi casi in cui tali persone hanno fatto ritorno al proprio paese d’origine. Inoltre, la migrazione forzata verso nuovi luoghi di molti siciliani negli anni Sessanta, i numerosi decessi, l’inasprirsi del conflitto tra “Oriente” e “Occidente” degli ultimi anni che aveva portato alla diminuzione dei matrimoni misti avevano di molto cambiato la compagine dei siciliani storicamente residenti in Tunisia.
Una distinzione fondamentale, però, consiste nella differenza tra quel che io definisco il percepirsi siciliani a Tunisi e il percepirsi siciliani di Tunisi. La differente preposizione è la discriminante fondamentale per comprendere i termini entro cui avveniva la costruzione del sé in queste due categorie. Mi rendo conto che una costruzione dicotomica di tal tipo può lasciare perplessi perché non tiene conto dei coni d’ombra, delle situazioni di fluidità e di rinegoziazione continua con cui ogni attore costruisce e ricostruisce il proprio posizionamento nel mondo, ma è sottinteso che ogni tipo di comprensione è esclusiva nel senso che non tiene di conto gli elementi non funzionali.
Relegati spesso ai margini sia dalla società di approdo sia da quella stessa di provenienza, molti siciliani di Tunisia si erano convertiti all’Islam per sposare donne tunisine con cui, insieme alle loro famiglie musulmane, avevano celebrato il Ramadan e la festa di San Giuseppe come si svolgeva nei primi anni del Novecento a Milazzo; avevano commemorato il sacrificio di Isacco e la festa dell’Ascensione; avevano portato in processione il simulacro della Madonna di Trapani per le vie de la Goulette e nelle loro barche o nelle loro botteghe avevano tenuto, contro il malocchio, le code di pesce e la mano di Fatima; avevano donato immagini della Madonna di Trapani perché proteggesse i loro familiari e amici musulmani. Tutto questo, durante la mia permanenza a Tunisi, stava scomparendo: riti che non rappresentavano più l’universo simbolico dei fruitori sono caduti in disuso, ricette di pasta al forno condite con gli ingredienti del Tajinne non erano più cucinate, l’origine di tante parole erano dimenticate. In quanto patrimonio di tutti i tunisini, di Sicilia e di Tunisi, però alcuni termini fanno parte del dialetto di molte zone. Tra questi: mischino (poveretto), balata (lastra di marmo), cartuna (grande scatola), babbusci (lumache); sono rimasti anche idiomi quali fari una kifa per dire “togliersi un piacere” (kifa significa “piacere”), o l’espressione m’assicutano (mi inseguono) i francesi che significa “avere molta fame”, sottintendendo che i francesi erano nemici talmente battaglieri che non davano neanche il tempo di mangiare; in realtà a molti siciliani di Tunisi, oltre al tempo mancava, anche negli anni della mia ricerca, il denaro per mangiare. Nel febbraio del 2005, mentre lavoravo alla sede di Tunisi della fondazione Orestiadi, Mario, un siciliano residente a Bab Mnara, una delle zone economicamente più depresse della Medina, aveva bussato alla mia porta. Appreso in giro che ero siciliana e che lavoravo a Tunisi, era venuto a chiedere un lavoro anche per lui. All’epoca Mario aveva circa sessant’anni e saltuariamente svolgeva qualche piccola mansione. Abbronzato, i tratti del viso marcati, mi aveva raccontato di essere il minore di otto fratelli sparsi per il mondo. I genitori erano originari del marsalese ed erano migrati in Tunisia per sfuggire la miseria. Lui, nato a Tunisi, a Tunisi era rimasto per amore di una tunisina, che però non aveva mai sposato, anche dopo la partenza dei fratelli. Mario viveva solo e di sé mi disse: «ormai sono arabo: i miei amici, sono quasi tutti tunisini. Passo le serate a fumare il narghilè al caffé». Era ospite quasi ogni giorno alla mensa del 21 di rue de Maroc dove i volontari gli offrivano gratuitamente cibo. Non aveva potuto ottenere una pensione d’assistenza perché italiano nato in Tunisia sotto il protettorato francese. A chi chiederla dunque? Di se stesso mi disse: «nessuno mi riconosce come connazionale». Maddalena, invece abitava a la Goulette ed è morta qualche anno fa. Sapeva tutto della Sicilia ma, nata in Tunisia, non era mai riuscita ad andarvi. Mi raccontò che, sino agli anni Novanta, la mattina del 15 agosto anche le famiglie musulmane ed ebree mandavano in chiesa ceri devozionali in segno di rispetto. Dopo la sosta in chiesa, tutti gli abitanti del borgo de la Goulette seguivano la processione salutando la Madonna con gli youyous berberi. Infine si ritrovavano in piazza dove si accendevano falò per aiutare, con il vapore, la Vergine ad innalzarsi al cielo e si mangiavano cous-cous e gelati; a Nabeul, dove da tempo vivono tunisini, ebrei e siciliani di Tunisi che giunsero dalla provincia di Palermo, si preparano ancora i pupi di zucchero di tradizione siciliana che si vendono al mercato in tre occasioni: per la celebrazione della festa dei morti cristiana, dell’Aïd musulmano, del Capodanno ebraico. Oggi i personaggi rappresentati dai pupi appartengono al mondo delle favole e della televisione, di al Jazira e di Mediaset.
Giorgio era l’emblema di quanti, figli di immigrati, riuscendo ad entrare in contatto con l’élite dalla comunità italiana della Tunisia, si autorappresentavano come siciliani a Tunisi. La sua condizione economica e il fatto di avere un lavoro istituzionale gli permettevano di trascorrere le sue vacanze in Sicilia dove, per quindici giorni l’anno, si sentiva finalmente a casa. La convinzione di chi si percepiva come siciliano a Tunisi era che la comunità italiana in generale, a cui egli si sentiva di appartenere «ha fatto tutto. Siamo noi che abbiamo impiantato qua la cultura». Un’altra siciliana con cui ebbi modo di conversare mi disse «abbiamo portato noi la pittura e il teatro con l’opera dei pupi». Non mi dilungo ulteriormente sugli esempi perché credo che questo excursus sia sufficiente a delineare la differenza tra coloro che si percepivano siciliani di Tunisi e siciliani a Tunisi. A quest’ultimo universo di significato si rifacevano anche la più parte degli emigrati degli ultimi anni. Una differenza sostanziale consisteva, però, nel fatto che – mentre molti dei primi sono sposati con uomini e donne tunisine e che, è qui solo il caso di menzionarlo, intorno all’anno 2000 le donne hanno fondato il Comitato delle Donne Italiane Sposate con Tunisini volto a salvaguardare i loro diritti – i nuovi migranti non convolavano quasi mai a nozze con i tunisini. Generalmente quando a migrare erano soltanto gli uomini, sposati o meno in Sicilia, la motivazione è da cercarsi nel fatto che in Tunisia la forza-lavoro aveva un costo più basso e la vicinanza permette frequenti rientri a casa. Spesso, in questo caso, gli imprenditori hanno aperto filiali di aziende siciliane o off-shore. L’istituzione di Casa Sicilia (novembre 2004), finanziata dalla Presidenza della Regione Sicilia durante la giunta Cuffaro, era motivata anche dallo scopo di aiutare gli imprenditori siciliani all’estero. Normalmente questa categoria di migranti aveva una relazione di tipo sessuale con una donna tunisina, spesso divorziata, cui faceva regali quali abiti e cene in ristoranti lussuosi. È da sottolineare che una cena in uno dei più lussuosi ristoranti tunisini ha lo stesso costo di una cena in una trattoria italiana. Gli uomini non sposati, spesso baby pensionati delle precedenti nostre legislature sulle pensioni, che erano migrati in Tunisia per mantenere un tenore di vita altrimenti in Italia negato dall’avvento dell’euro, spesso erano omosessuali. C’era un locale, in avenue Bourghiba, in cui ci si ritrovava all’ora dell’aperitivo per tessere nuovi incontri. Numerosi erano gli avventori italiani e siciliani e numerosi i ragazzi tunisini anche eterosessuali che speravano di diventare gli amanti dei frequentatori del locale nella speranza di ricevere in cambio favori di tipo economico e lavorativo. In effetti così era stato per il giovanissimo amante di Pietro che, alla fine della loro relazione, aveva continuato ad averne l’appoggio economico. Appoggio che gli permise di completare gli studi, di trovare un lavoro e di celebrare un matrimonio, etero naturalmente, in grande stile. Capitava spesso ai turisti italiani, a testimonianza di questa abitudine, di sentirsi apostrofati con l’osservazione «italien? Ah… gay». Le donne siciliane che avevano deciso di trasferirsi da sole a Tunisi non erano molto numerose. La maggior parte di loro era pensionata e divorziata. La motivazione era esclusivamente di tipo economico: l’ammontare delle loro pensioni, anche se di professioniste, non sarebbe stato tale da garantire in Italia il tipo di vita che avrebbero potuto svolgere a Tunisi. Amavano frequentare corsi di ginnastica e ballo, corsi di lingua e di pittura offerti dai vari Istituti di Cultura e cimentarsi in attività lavorative creative. Spesso queste donne intrattenevano rapporti di amicizia con una o due tunisine appartenenti all’élite del paese. Molte, affascinate dalla spiccata “mediterraneità” degli uomini arabi, avevano con questi storie esclusivamente di tipo sessuale. Nella maggior parte dei casi i loro amanti tunisini erano molto giovani e avevano un netto scarto economico, sociale e culturale con esse. Quando a trasferirsi erano interi nuclei familiari, le motivazioni venivano dettate dal fatto che le mogli, con figli a seguito, avevano seguito gli spostamenti del marito imprenditore o impiegato al Ministero degli esteri. Più raramente, e solo nel caso di impiegati dell’ambasciata, avveniva il contrario. Spesso i consorti avevano ottenuto, in Italia, un periodo di astensione dal lavoro. In questa circostanza i rapporti con la comunità tunisina erano nulli. Le famiglie siciliane e italiane in genere abitavano negli stessi luoghi, frequentavano gli stessi posti, mandavano i figli alla scuola italiana e gli unici rapporti che intrattenevano con i tunisini riguardavano i loro lavoratori subalterni, impiegati nelle fabbriche e domestici. A questo proposito, con toni aspri e polemici, mi era stato rivelato da Luca, un membro del Circolo italiano, una specie di decalogo che veniva raccomandato ai nuovi arrivati e che comprendeva, fra l’altro, il rapporto da instaurare con i propri dipendenti. Con operai e operaie bisognava avere un rapporto di tipo padrone-servo perché altrimenti questi non avrebbero lavorato sufficientemente data l’indole pigra. Per quanto riguardava il lavoro domestico veniva consigliato sempre di non cercare una ragazza di Tunisi, ma di un paese di montagna, di età compresa tra i sedici e i diciassette anni, cosicché non avrebbe avuto l’esigenza di uscire al pomeriggio o di ritornare a casa la sera.
I percorsi migratori seguono frequentemente strade differenti rispetto alle fantasie progettuali che li accompagnano e le condizioni di partenza, nonché le motivazioni che stanno alla base delle scelte, spesso sono determinanti nel definire le traiettorie di vita; ovviamente un ruolo fondamentale è ricoperto anche dalle strategie che si mettono in atto nel luogo d’approdo. Come si evince da quanto detto sin qui, inoltre, le migrazioni verso il Sud del mondo hanno corrisposto a logiche profondamente diverse, storicamente determinate e spesso colonialiste (o neo colonialiste) anche quando dettate da forti necessità economiche. La sintesi di tutti questi aspetti ha permesso di leggere la migrazione siciliana in Tunisia articolando le varie fasi e i vari tempi in cui si è svolta secondo alcuni paradigmi precisi che non hanno pretesa alcuna di esaustività. Con un ossimoro si potrebbe dire che, nelle scienze umane, i paradigmi debbono avere un carattere“imperfetto” poiché la complessità delle azioni umane è tale che non può essere imbrigliata perfettamente in discorsi precostituiti. A esempio di quanto detto, la storia di Federico e Bruna, profondamente diversa da quelle raccolte sin qui a proposito degli immigrati degli ultimi anni. Conosciutisi a Tunisi poiché, studenti universitari di due differenti città italiane, avevano frequentato il medesimo corso di arabo, non si sono mai più lasciati e, nel 2008, quando a Federico fu data l’opportunità di dirigere la sede tunisina della fondazione Orestiadi, decisero di trasferirsi in pianta stabile a Tunisi, di farvi nascere il loro primogenito e di restare, partecipando attivamente, anche durante il difficile periodo della caduta del regime di Ben Alì e nella fase successiva, ancora drammaticamente in corso.
Dialoghi Mediterranei, n.3, agosto 2013
Riferimenti bibliografici
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