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Millenarie sonorità come patrimoni culturali della biodiversità

 

20220822_074938di Mario Sarica

Immersi dentro una biosfera in sofferenza, dove lo sconvolgimento dei delicati equilibri degli ecosistemi prodotto dall’uomo nella sua forsennata corsa a saccheggiare le risorse naturali, ovvero le cosiddette materie prime, necessarie per alimentare quella spirale mortale, di produzione e consumo, che ci avvolge, con effetti collaterali devastanti, ci aggrappiamo come naufraghi alla deriva in un mare sempre più tenebroso, alle forme culturali, tentando di recuperare i frammenti di un’armonia perduta fra terra e cielo. Una scelta necessaria, quella di tentare, per quanto possibile, di ridisegnare un orizzonte di vita, di relazione e di produzione di beni, inscritto dentro il perimetro della cultura del territorio, inteso come sistema fortemente interrelato, secondo il credo salvifico di sviluppo sostenibile – dicono i più – di transizione ecologica e di energie rinnovabili, e dunque di abbandono degli inquinanti fossili, e di conversione sistemica al digitale.

Una missione quasi impossibile, visti i danni irreversibili procurati al malconcio pianeta, nel giro di poco più di due secoli, dalla fatale rivoluzione industriale e dalla crescita demografica planetaria esponenziale.

Una sfida comunque da affrontare a viso aperto, con le migliori energie ed intelligenze, anche artificiali, che chiama a raccolta le nuove generazioni per un futuro di radicale rinascita e profondi cambiamenti negli stili di vita. Il genere homo sapiens, d’altra parte, rispetto a tutti gli esseri viventi del pianeta, è stato un “alieno” perché non è stato codificato biologicamente da Madre Natura in maniera rigida e irreversibile riguardo gli istinti e i suoi bisogni primari, perché per natura inadatto all’ambiente naturale e alle sue insidie. E se non fosse stato aiutato dall’invenzione della tecnica, per adattarsi a terre e climi ostili, sarebbe già scomparso da milioni di anni dalla faccia della terra. In tal senso, possiamo collocare la nascita dell’umanità in epoca protostorica nel momento in cui il primo antropoide ha alzato un bastone per prendere un frutto.

La componente tecnica, assieme alla scoperta del fuoco, della rivoluzione agricola del Neolitico, e ancora del linguaggio, della scrittura, dei simboli e dei segni del suo abitare il mondo, sono stati il segreto della longevità dell’uomo sulla terra.  Protesi necessarie, sempre più evolute, per il “salto di specie” dell’uomo nella storia, per affrancarsi dalla sua condizione biologica di inferiorità, rivendicando con presunzione ed arroganza la sua piena libertà d’azione e il dominio sui suoi simili e sul Creato.

Flutist Silje Hegg playing the villow flute (@Norvegian crafts Institute)

Flutist Silje Hegg playing the villow flute (@Norvegian crafts Institute)

Questo lungo prologo di rapide annotazioni sul lungo periodo storico che ci porta sulla scena della nostra inquieta contemporaneità, è apparentemente lontano da quanto mi accingo a raccontare a proposito di “uomini e suoni” e del vasto movimento transcontinentale, che, sul tema della salvaguardia e rigenerazione  delle pratiche d’uso degli strumenti musicali etnici, a rischio di estinzione – al pari degli ecosistemi, delle specie animali, delle deforestazione,  del consumo del suolo, degli sconvolgimenti climatici, del mare e dei pesci agonizzanti – esprime con forza una consapevolezza nuova, in grado di riconoscere planetariamente agli strumenti un primato unico, condiviso da tutte le società.

Queste strane protesi sonore sono infatti tratti distintivi delle culture più antiche, anche quelle prive di scrittura, oltre di quelle canonicamente intese di tradizione orale. L’invenzione degli strumenti prima da suono e poi musicali, ad imitazione delle sonorità naturali, ora terrificanti ora melodiose, per esorcizzare la paura e l’angoscia esistenziale, si perde dunque nella notte dei tempi, rispondendo a bisogni profondi, primigenei, che hanno a che fare con la stessa misteriosa essenza spirituale del mondo, cui l’uomo da sempre è stato attratto. Una protesi, quella dello strumento musicale, per dare corpo al pensiero simbolico ed astratto e guardare oltre lo schermo della realtà tangibile, per oltrepassarla e comunicare con entità soprannaturali o richiamare le anime dei morti, affacciandosi così sulla soglia del mistero e della vita e della morte.

Un accostamento, quello proposto, dunque, che potrebbe sembrare in prima approssimazione alquanto eccentrico. Eppure nelle antiche cosmogonie questo legame sonoro con l’indicibile e l’inesprimibile corrisponde, grazie alla protesi sonoro- musicale dello strumento – un tutt’uno con lo “strumento voce” e la fonazione primaria, una sorta di “espansione della parola” – trova la sua radice in quella forza cosmica che, quale prima manifestazione di un pensiero, creò il mondo.

Ghewar Khan Manganiyar of Hamira Village (Jaisalmer) playng Kamaicha (@Contact base)

Ghewar Khan Manganiyar of Hamira Village (Jaisalmer) playing Kamaicha (@Contact base)

La musica dunque in ogni luogo e in ogni tempo attiva un codice di comunicazione necessario alla rappresentazione di sé, del mondo e dell’ultraterreno, funzionale a contesti cerimoniali e rituali, con risposte plurime individuali e collettive, entro un ampio spettro semantico e di produzione di senso.

E sulla potenza di questo pensiero mitico creativo, che riconosce al suono il principio di energia che produce ogni forma di vita, ora giunge perfettamente consonante il pensiero scientifico che riconosce al fondo dell’essere “vibrazioni sonore regolari” e perfino note musicali, riferite a tutti gli organismi, a partire dalle onde cosmiche gravitazionali. «Il mondo – scrive Vito Mancuso – è come una grande ed eterna sinfonia. L’essere è energia e non sostanza, perché non è mai fermo, e si costituisce come il risultato di una rete di vibrazioni».

Entro questo perimetro di riflessioni, ecco che lo strumento musicale, a qualunque latitudine culturale, acquista una centralità, come dire, ontologica che trascende il carattere distintivo organologico e di repertori musicali tipici di ogni società etnica o di tradizione orale, consegnandoci uno straordinario testo culturale che si offre ad un approccio interpretativo interdisciplinare.

Tanti anni fa il padre della etnorganologia italiana Roberto Leydi, a cui molto dobbiamo sul tema coniugato alle tante realtà della penisola italiana, si chiedeva, rifacendosi alle residue comunità di tradizione, anche a quelle etniche extraeuropee,  «Quale spinta conduca uomini che quotidianamente lottano in condizioni durissime, ai quali sono negati spazi di ricreazione e di consumo, ad impiegare tempo e fatica, sapere ed esperienza per dar vita ad un oggetto che non pare nulla garantire a migliori condizioni di vita, che nulla sembra aggiungere alle possibilità di sopravvivenza del singolo o della comunità.  Un oggetto non lo si dimentichi, che richiede per esistere, una trasmissione rigorosa e attentissima di informazioni, non soltanto al basso livello della tecnica costruttiva, e un riscontro costante con le richieste, più o meno stabili, della fruizione individuale e collettiva. Eppure, questo oggetto ‘strano’ e portatore di una simile contraddizione è presente ovunque, nello spazio e nel tempo, ovunque gli uomini abbiano organizzato in un loro ordine l’esistenza».

Kohomba Traore troup (@Sabari Christian Dao)

Kohomba Traore troup (@Sabari Christian Dao)

E a confermare quanto lo strumento musicale sia un ‘oggetto indispensabile’, in grado di raccontarci ancora oggi – sebbene stretti dalla spirale liquida digitale, pervasiva in ogni nostra forma di comunicazione, di relazione interpersonale, e di fruizione e consumo culturale e nella fattispecie musicale – storie culturali millenarie fondative per ogni società, ecco un prezioso contributo di ricerca sul campo, ovvero il volume Traditional Musical Instruments. Sharing Experiences from the Field, edito per la collana Living Heritage Series, a cura dell’Ichcap, soggetto istituzionale espressione dell’UNESCO, reso possibile grazie anche alla collaborazione delle # HeritageAlive e ICHNGO FORUM.

Yevhen Makotsiuba playing on bandura (@Yevhen-Makotsiuba-with-permission)

Yevhen Makotsiuba playing on bandura (@Yevhen Makotsiuba with permission)

Un corposa e preziosa raccolta di testimonianze sulle esperienze e pratiche di recupero funzionale degli strumenti musicali a rischio di estinzione, patrimoni immateriali fortemente identitari alla ricerca di una nuova vita, dopo il genocidio culturale  perpetrato dal delirio della globalizzazione ed omogenizzazione, con azzeramento delle diversità, vera e propria  ricchezza del mondo: dai prodotti enogastronomici alla pratica strumentale musicale, ai sistemi cerimoniali e festivi  alle forme di rappresentazione, alle danze,  riconosciuti beni culturali intangibili, dunque quelli più bisognosi di cure, perché facilmente più deperibili.

Un bel viaggio attorno al mondo alla riscoperta dei suoni perduti, quello proposto dal volume che si aggiunge, come scrive nella prefazione Keum Gi Hyung, direttore generale dell’ICHCAP, ad altri quattro titoli incentrati sui patrimoni immateriali delle culture di tradizione, dedicati rispettivamente alla medicina tradizionale, ai rituali e i giochi di tiro, al cibo tradizionale e alle arti marziali. Uno sforzo editoriale dunque che unisce il mondo scrive Hyung, che incarna in pieno lo spirito della Convenzione del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale promossa dall’UNESCO.

Nangyarkoothu performance with Mizhavu percussion (@Prajith Trikaripur)

Nangyarkoothu performance with Mizhavu percussion (@Prajith Trikaripur)

Esemplare testimonianza dell’impegno sul campo del Centro Internazionale di informazione e networking per il patrimonio culturale immateriale  della Regione Asia-Pacifico, che raccoglie le esperienze di salvaguardia delle forme di cultura identitarie di ben quarantotto Stati membri dell’UNESCO ICHCAP, il volume ci guida in un universo sonoro cangiante di colori ed emozioni, riflesso di una matura e condivisa consapevolezza che ridare voce agli strumenti musicali di tradizione, non è un esercizio nostalgico, ma un riconoscere le radici culturali più profonde di ogni territorio.

E fa bene Hyung a ricordare che gli strumenti musicali fanno parte integrante dell’avventura umana sul pianeta terra, a partire dal primo flauto in osso ritrovato che risale a ben quarantamila anni fa. La speranza, scrive ancora Hyung, che la pubblicazione, frutto di un lavoro di squadra di musicisti e ricercatori, lontani geograficamente fra di loro, ma mossi dagli stessi sentimenti e passioni, possa ridare valore e dignità ad un patrimonio quello etnorganologico fragile e vulnerabile per natura culturale. In più a questo titolo sonoro della serie Living Heritage si unisce una playlist on line con documento video sulle singolari esperienze di rigenerazione e recupero funzionale di tante famiglie etnorganologiche, ormai orfane dei contesti cerimoniali e rituali di cui erano espressione.

Ed ora entriamo dentro questi veri laboratori di rigenerazione degli strumenti musicali di tradizione sparsi per il mondo, raccontati con taglio di scrittura agile, affidato anche ad un ricco apparato fotografico. Dopo l’ampia, puntuale e documentata introduzione a firma di Emily Drani all’opera editoriale, entriamo nelle fascinose quindici “scene musicali” in cui si sviluppa il bel catalogo.

Il sentiero sonoro si avvia con il flauto lungo di salice norvegese, che come scrive Elvind Falk dell’Istituto norvegese di artigianato, per tradizione secolare rinasce ogni anno in primavera, perché è proprio in questa stagione che il tenero salice si offre per diventare strumento a fiato che va dai quaranta agli ottanta centimetri, con un’ampia tessitura musicale. Manon Dumas ci accompagna invece nel Quebec alla scoperta della piccola fisarmonica affidata alle amorevoli cure di Raynald Quellet, tesoro vivente musicale che offre il respiro mozzafiato dell’aerofono e dei tanti saperi alle nuove generazioni. A far riemergere dalla Colombia il Furruco e la Cirrampla dalla memoria musicale perduta c’è invece Hermes Romero, che ha risvegliato l’interesse su questi strumenti sul piano performativo e sulle loro funzioni cerimoniali, entrando a pieno titolo anche nelle aule universitarie.

Timbica Ta maziveca ensemble performing in a traditiona detimony, at Chissibuca locality, Zavara, 2018 (@Gianira Ferrara)

Timbica Ta maziveca ensemble performing in a traditional cerimony, at Chissibuca locality, Zavara, 2018 (@Gianira Ferrara)

Lasciato il territorio latino americano, eccoci in un remoto villaggio del deserto del Thar nel Rajasthan occidentale nella remota India, per ascoltare da un vero e proprio clan di musicisti di Madhura Dutta. Avvolti ancora dal fascino arcaico degli strumenti musicali indiani, fonte sorgiva di ogni produttore di suono, eccoci nella martoriata Ucrsina che vanta un singolare strumento musicale, orgoglio nazionale, ovvero la Bandura, custode di tanti esclusivi saperi organologici e musicali.

Lasciata la vecchia e malmessa Europa, eccoci in Africa ad ascoltare il balafon espressione musicale tipica delle comunità del Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio. Restando nell’immenso continente nero, andiamo ad incontrare l’etnia Basoga dell’Uganda, orgogliosa di farci ascoltare la Bigwala una singolare tromba di zucca.

Going from house to Christmaas Novena iuseppe Parente

Going from house to Christmas Novena prayers (@Giuseppe Parente)

Ed ora mettiamo piede nella nostra penisola, lasciandoci guidare da Antonietta Caccia, figura carismatica per la salvaguardia e valorizzazione della zampogna italiana, ormai prossima a diventare patrimonio immateriale con l’imprimatur dell’UNESCO. Dal suo regno di Scapoli, l’infaticabile Antonietta ci racconta l’affabulante storia della zampogna italiana, fra tradizione e innovazione o meglio della numerosa famiglia di aerofoni a sacco, che caratterizza da sempre le diverse culturali agropastorali dell’Italia centro meridionale, compresa ovviamente la Sicilia.

Altra esemplare storia di rigenerazione di strumenti musicali di tradizione perduti giunge dalla Lettonia, con la famiglia dei Kokle multicorda. In questo lungo peregrinare nel mondo guidati dai suoni del mondo, ora approdiamo nel Madagascar, lasciandoci sedurre dal Valiha, una cetra tubolare ricavata dal bambù, le cui corde vengono pizzicate dalle dita. Ed ora immergiamoci nel mondo sonoro del Mozambico con le orchestre timbila destinate ad accompagnare la danza cerimoniali.

Ad attestare la perduta sacralità degli strumenti musicali dell’origine ecco il sacro strumento a percussione di Kutiyattam Mizhavu, manco a dirlo indiano, connesso alle forme di teatro classico, entrato a pieno titolo all’università di Kerala.

Sul ruolo centrale svolto dai musei per la conoscenza e la trasmissione dei saperi antichi connessi agli strumenti scrive invece Yeongjin Lee. Altro focus di grande interesse offerto dal volume la salvaguardia della cultura tradizionale attraverso la musica, con l’emblematico studio all’interno del Kalimantan, ovvero la comunità di musica etnica di Taliwangsa. Altre significative riflessioni sul tema: “La storia della strumentologia etnica lituana: influenza sul movimento di rinascita degli strumenti musicali etnici e della musica strumentale del XX secolo”.

L’epilogo dell’affabulante opera sonora porta la firma del vicedirettore generale  dell’ICHCAP  Parco Seong-Yong, che richiama l’attenzione sul legame fra musica e sistema cerebrale, soffermandosi in particolare sull’influenza delle risorse neurali della musica sul linguaggio, dischiudendo così nuove ed affascinanti territori di ricerca, fra passato e presente, tradizione e innovazione, nel segno della scienza che indaghi più a fondo sui profondi, misteriosi e irrisolti legami fra gli uomini e i suoni, anima segreta dell’essenza del mondo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Riferimenti bibliografici
Vito Mancuso, Il bisogno di pensare, Garzanti Milano 2917 
Roberto Leydi, Uomini e suoni, La casa Usher, Firenze, 1985

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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).

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