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Miniere canadesi: strategie d’impresa e percezione dei dipendenti indigeni

 

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Indigenous Entrepreneurship

di Linda Armano

Il concetto di imprenditoria è uno dei temi cardini e basilari dell’economia. Fino agli anni Ottanta, l’imprenditoria era considerata quasi esclusivamente come la forza principale in grado di guidare il benessere economico di un Paese. La letteratura esistente sosteneva che, attraverso la concorrenza, l’imprenditoria fosse il più grande mezzo per incrementare gli standard di vita dei cittadini di una nazione (Blawatt, 1998). Oltre ad aver inglobato numerosi altri temi (come per esempio le questioni relative alla sostenibilità ambientale o all’eticità nei confronti dei diritti umani), negli ultimi venti anni alcuni studiosi hanno aggiunto, all’interno delle ricerche di imprenditoria, anche un nuovo filone di studi chiamato Indigenous Entrepreneurship (IE).

All’interno di questo settore, la letteratura esistente pubblicata in questi anni evidenzia due principali obiettivi di ricerca: lo studio del bisogno generale, da parte delle popolazioni aborigene in varie parti del mondo, di conciliare la loro vita tradizionale con elementi economici, politici e socioculturali provenienti dall’esterno; la comprensione di come la visione del mondo delle comunità indigene, di volta in volta indagate, orienta forme di imprenditoria diverse (Lansdowne, College 2005). La maggior parte degli studi esistenti intendono altresì rispondere alle seguenti domande: quali sono i contorni teorici che definiscono la IE? E quali sono i tratti essenziali di un’organizzazione economica fondata da gruppi indigeni?

In generale, ricerche effettuate in molte nazioni o aree geografiche (Australia, Canada, USA, Paesi africani e sudamericani ecc.), caratterizzate dalla presenza di comunità aborigene sottoposte a tensioni nei confronti del sistema politico-economico vigente, hanno mostrato come i sistemi di welfare abbiano marginalmente interessato queste fasce della popolazione all’interno dei loro confini nazionali. Le comunità indigene occupano spesso le fasce più povere e svantaggiate, in termini di misure socio-politiche ed economiche, di una nazione (Peredo 2001; Anderson 2004a, 2004b). Alcuni studiosi (per es. Pearson, 1999; Berkes, Adhikari 2005) hanno quindi sostenuto che la IE è diretta conseguenza di un tentativo di riparazione dei danni subìti da politiche coloniali e dall’introduzione di sistemi industriali e finanziari che sono tipici del potere delle classi dominanti. Notano infatti Galbraith et al. (2006) che le attività della IE sono spesso classificate come «the second wave of economic development» (Galbraith et al. 2006:3), mentre le «first waves» sono caratterizzate da tipi di imprenditoria che godono del supporto politico del governo. In questo modo, la Indigenous Entrepreneurship sembra essere una forma di conciliazione e adattamento tra le forme di potere politico-economico coloniale e il mantenimento della vita tradizionale delle comunità indigene. In tal modo, queste ultime, attraverso forme di imprenditoria ibrida (industriale-tradizionale), possono sperare di diventare agenti attivi inserendosi in un contesto globale dominato da logiche finanziarie e capitalistiche.

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Canada, protesta dei nativi indigeni

Alcuni studiosi (Borzaga 2001; Patittingi 2017) hanno relazionato la IE con la Social Entrepreneurship (SE), mostrando come in essa venga dato ampio eco a comportamenti virtuosi la cui mission è creare valori sociali per raggiungere opportunità lavorative, di sostegno economico o psicologico ecc. a beneficio di molte persone (Corbridge 1989). Certe ricerche (Lansdowne, College 2005; Seton 1999; Hindle, Rushworth 2001) affermano però la necessità di definizioni più dettagliate del concetto di “indigenous” applicato alla IE (Jongen et al. 2019). La maggior parte degli studi, classificando gli indigeni come una sub-popolazione rispetto al resto della società di cui fanno parte, concordano sul fatto che, nonostante le diversità storico-culturali ed economico-politiche, gli indigeni di tutto il mondo condividano tra loro un aspetto comune messo in luce con il concetto di “indigenousness” (Tylor et al. 2020; Hunter 2015).

Le definizioni più semplicistiche di tale concetto si riferiscono a gruppi nativi che proclamano una forte auto identificazione con la propria tradizione culturale (Hindle, Lansdowne 2005). Foley (2003) espande il concetto di «accepted self-identification» per considerare anche la stretta relazione che molte popolazioni aborigene hanno con il territorio in cui hanno vissuto da secoli. Legandosi a questa definizione, Lindsay (2005) sostiene che una persona indigena è chi è sia originario di un paese sia discendente da comunità indigene che si sono indentificate come native di un luogo. Dana (2006a, 2006b), applicando il concetto di «ancient connection», afferma che i gruppi indigeni comprendono soggetti i cui antenati vivevano in un territorio prima che esso venisse colonizzato. Altri approcci forniscono ulteriori dettagli al concetto di “indigenousness”. Bernard Neitschmann (1994) lega, per esempio, tale concetto con quello di nazione:

«A nation is a cultural territory made up of communities of individuals who see themselves as “one people” on the basis of common ancestry, history, society, institutions, ideology, language, territory, and often, religion. A person is born into a specific nation. A State is a centralized political system within international legal boundaries recognized by other states. Further, it uses a civilian-military bureaucracy to establish one government and to enforce one set of institutions and laws. It typically has one language, one economy, one claim over all resources, one currency, one flag, and sometimes one religion. Withing a State can coexist other groups acknowledged as aboriginal» (Neitschmann 1994: 226).

Peredo et al. (2004), sulla scia di Neitschmann, mettendo assieme varie definizioni enunciate da altri autori (Foley 2003; Corbridge 1989; Borzaga 2001), affermano che “indigenousness” è contemporaneamente l’insieme di persone che vivono nel loro territorio e che discendono da antenati che vivevano nello stesso territorio prima dell’arrivo dei colonizzatori. A queste due caratteristiche, gli autori sottolineano l’importanza di mettere in luce altri tratti principali propri del concetto di “indigenousness” tra cui: il mantenimento di valori culturali, di norme, di istituzioni ecc. che differiscono rispetto al colonizzatore; il particolare attaccamento ancestrale alle loro terre attraverso vari mezzi (per es. tramite il racconto di storie orali legate a particolari aree del territorio); la permanenza di attività economiche tradizionali (utilizzando metodi tradizionali come l’uso di trappole o altre modalità tecniche di caccia); la salvaguardia, l’insegnamento e la trasmissione, di generazione in generazione, della lingua originaria. Avvertono gli studiosi come non tutti gli elementi da loro elencati sono presenti in ugual misura nei vari gruppi che si auto percepiscono come indigeni, nonostante in molti casi essi siano comunque tutt’ora vigenti. Ciononostante, Peredo et al. (2004) affermano che la definizione dei tratti essenziali che caratterizzano il concetto di “indigenousness” serve da frame per comprendere, sempre più in profondità, le componenti essenziali che definiscono un gruppo aborigeno.

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Danze aborigene come forma di indigenousness

Nella letteratura esistente emergono ulteriori caratteristiche comuni in riferimento alle definizioni di “indigenousness”. Una di esse è la tendenza di molti gruppi indigeni (per esempio del continente americano, ma anche popolazioni australiane ecc.) a ridistribuire collettivamente le risorse. Dana (1995, 1996a, 2015) infatti, illustrando la situazione degli Inuit canadesi, sostiene come essi preferiscano un sistema organizzativo di ridistribuzione dei beni all’interno della comunità. Lo studioso scrive: «the traditional values of these people, working collectively and sharing collectively, while disliking the concept of competition» (Dana 1996: 78). Allo stesso modo, Bewayo (1999) riferisce di una cultura comunitaria anche presso molte comunità africane, mentre Peredo e Chrisman (2006), utilizzando il concetto di “community orientation”, descrivono l’organizzazione socio-economica di molti gruppi andini:

«The more ‘community-oriented’ a society is, the more its members experience their membership as resembling the life of parts of an organism; the more they will feel their status and well-being is a function of the reciprocated contributions they make to their community» (Peredo & Chrisman, 2006: 11).

A questo punto quindi, che cosa indica il termine “imprenditoria” applicato al concetto di “indigenousness”? Non sorprende che, anche in questo caso, esistano numerose definizioni che spiegano tale rapporto. Una delle versioni più basilari è per esempio quella di Hindle e Lansdowne (2005) che definiscono la IE come «the creation, management and development of new ventures by indigenous people» (2005: 133). In generale però la letteratura esistente tende a seguire due grandi linee di ricerca in questo settore. Da un lato alcuni studiosi (per es. Hunter 2015) analizzano i diritti dei lavoratori in riferimento a persone indigene assunte da multinazionali (come per esempio per lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili). Galbraith e Stiles (2003) evidenziano invece l’importanza di forme di business quali start-ups create da aborigeni. Altre ricerche sostengono inoltre che la IE sia generalmente calata in un determinato territorio o contesto storico-culturale che dà forma e scopo all’organizzazione stessa. Peredo et al. (2004), focalizzandosi sulla relazione tra elementi socio-culturali e forme di imprenditoria, affermano che la IE incorpori, in alcuni casi, anche il simbolismo che gli indigeni conferiscono al territorio in cui vivono:

«Thus, indigenous entrepreneurs may or may not be located in native homelands—many have been displaced or relocated. But they are situated in communities of indigenous people with the shared social, economic and cultural patterns that qualify them as indigenous populations» (Peredo et al., 2004: 12).

Un altro studio interessante all’interno di questa linea di ricerca è quello di Hunter (2015). Lo studioso, consapevole delle lacune nelle ricerche economiche sulle relazioni instaurate tra lavoratori aborigeni e datori di lavoro, esplora la capacità di imprenditori indigeni nel guidare la manodopera nativa all’interno del mondo aziendale. Egli, focalizzandosi su alcune popolazioni australiane, fa rilevare come gli studi esistenti si concentrino essenzialmente sull’analisi dei lavoratori indigeni in cerca di lavoro (Stephens 2010). Denuncia però Hunter la mancanza di studi, e di conseguenza di dati, su larga scala capaci di fornire informazioni sui rapporti tra lavoratori indigeni e non-indigeni in ambiente di lavoro. Inoltre, sottolinea l’autore, la maggior parte degli studi esistenti tendono ad indagare il lavoro autonomo di persone indigene trascurando invece la loro partecipazione nel mondo delle imprese come lavoratori dipendenti.

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Indigeni canadesi

I lavoratori autonomi indigeni sono, di fatto, imprenditori e quindi devono accollarsi il rischio di un possibile fallimento della loro azienda. Afferma Hunter che in Australia, nonostante negli ultimi trent’anni il numero di imprenditori indigeni sia aumentato notevolmente passando, nel periodo di massima espansione tra il 1990 e il 2011, da 4600 a 12.500, il numero di lavoratori autonomi aborigeni resta ancora una componente relativamente minoritaria sia dell’occupazione generale della nazione, sia all’interno della popolazione indigena. Solo il 3% di persone in età lavorativa appartenenti a gruppi nativi sono infatti lavoratori autonomi.

Il secondo approccio presente nella letteratura esistente si focalizza, oltre che sugli obiettivi e sulla mission della IE, anche sulla relazione tra imprenditoria, cultura nativa e strategie di decolonizzazione. Lindsay (2005) afferma infatti che lo scopo principale della IE sia non solo quello di creare benefici socio-economici per la popolazione indigena, ma anche quello di costruire uno strumento politico per raggiungere un’autodeterminazione nei confronti del potere centrale.

Dopo aver passato in rassegna la letteratura sul tema della IE, il presente contributo intende fornire un esempio concreto di IE nel contesto canadese dei Territori del Nord Ovest. In particolare, ci si concentra sulla relazione imprenditoriale, instauratasi a seguito della messa in produzione delle miniere diamantifere nella regione, tra le multinazionali estrattive e le comunità aborigene. Se esistono molti studi sulle piccole imprese indigene che forniscono servizi collaterali alle grandi società, costruendo per esempio parti di macchinari utili per l’estrazione dei minerali, oppure servizi di pulitura dei diamanti (Ellis 2004; Dana 2015), poco si sa invece della percezione dei dipendenti indigeni riguardo alle strategie per il reclutamento di manodopera utilizzate dalle multinazionali minerarie. Questo articolo ha quindi lo scopo di esplorare tali percezioni contribuendo a colmare, almeno in parte, il gap esistente nelle ricerche sulla IE.

Comunità indigene e multinazionali minerarie nei Territori del Nord Ovest: il caso della miniera diamantifera di Diavik

Riferendosi al contesto canadese, Léo-Paul Dana scrive:

«Indigenous entrepreneurship in Canada is among the youngest fields of academic research, revealing that some cultural values are incompatible with the basic assumptions of mainstream theories of entrepreneurship. Social organization among Canadian indigenous peoples is often based on kinship ties, not necessarily created in response to market needs. In contrast to Western-style capitalism, some indigenous economies display elements of egalitarianism, sharing and communal activity. Indigenous entrepreneurship often relies on immediately available resources, and consequently, work in indigenous communities may be less regular than is the case among mainstream societies. Much entrepreneurial activity among indigenous people involves internal economic activity with no transaction, while transactions often take place in the bazaar and in the informal sector, where enterprises often have limited inventory» (Dana 2015: 158).
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Miniera di Diavik nel territori de Nord Ovest

Il Canada ha costruito la sua ricchezza essenzialmente su alcuni determinati fattori tra cui: l’industria edilizia e quella manifatturiera relativa alle costruzioni, supporti finanziari e servizi di settore, trasporti e comunicazioni in grado di coprire vaste aree, relazioni commerciali con altre nazioni e, soprattutto nelle regioni più settentrionali, lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili (gas, petrolio, minerali e metalli).

A partire dagli ultimi quarant’anni, in Canada vengono estratti più di sessanta qualità diverse di minerali e metalli, tra cui oro, uranio, platino, nickel, zinco, titanio e, dagli anni Novanta, diamanti. Le risorse naturali in Canada relative all’industria mineraria non solo includono lo sfruttamento estrattivo in sé, ma danno luogo a finanziamenti di innumerevoli altri lavori collaterali che vanno dalle esplorazioni geologiche alla valutazione dei minerali, alla pulitura, ai trasporti ecc. Attualmente il settore delle risorse minerarie annovera, in Canada, il 12% della produzione nazionale, con 150miliardi di dollari in esportazioni (Dana 2015). 

La miniera di Ekati, scoperta nel 1991 e aperta nel 1998, fu la prima miniera diamantifera canadese situata nei Territori del Nord Ovest. Nel 2003 venne messa in produzione anche Diavik, la seconda miniera di diamanti del Paese. Entrambe si trovano al centro del Lac de Gras e sono raggiungibili via aereo oppure tramite una ice-road nei mesi più freddi dell’anno (gennaio e febbraio) quando le temperature medie scendono a circa -40°C. Le due miniere, subito dopo la loro apertura, produssero assieme più di 10,8 carati di diamanti valutati circa 1,6 miliardi di dollari. Grazie alle due miniere quindi il Canada, già nel primo decennio di produzione, mise in commercio il 15% del totale di diamanti, diventando in questo modo il terzo Paese al mondo produttore di diamanti.

Nel corso degli ultimi anni vennero aperte altre miniere d’oro e diamantifere nel Canada settentrionale arrivando a 129 unità estrattive sparse tra le regioni dell’Alberta, Saskatchewan, Ontario, Manitoba e Labrador. Ad esse si aggiunse, nel 2004 fino al 2015, anche la miniera diamantifera di Snap Lake nei Territori del Nord Ovest, di proprietà della De Beers che creò, in questo modo, il suo primo progetto minerario in Canada (Dana 2015).

La miniera di Diavik è invece di proprietà, per il 60%, della Diavik Diamond Mines Inc., sussidiaria della Rio Tinto, e della Dominion Diamond Mine per il rimanente 40%. Diavik Diamond Mines Inc. ha la sua sede a Yellowknife, la capitale dei Territori del Nord Ovest. Il condotto kimberlitico di Diavik, in cui si trovano i diamanti, sembra più piccolo rispetto ad altre miniere diamantifere in altre parti del mondo (come per esempio in Sud Africa), ma è molto ricco di minerali di altissima qualità, tanto che già dai primi anni 2000, la Tiffany & Co acquistò una quota del 14.3% nel settore della lucidatura dei diamanti grezzi estratti a Diavik.

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Tundra, territori del Nord Ovest (ph. Linda Armano)

Nel 2001 la Diavik Diamond Mines Inc. completò la negoziazione degli accordi di partnership con cinque comunità indigene (o First Nations) dei Territori del Nord Ovest, ossia con i Dogrib, Yellowknives Dene, Lutsel K’e Dene Band, i North Slave Me´tis Alliance, e Kitikmeot Inuit Association. L’accordo prevedeva la cooperazione tra la multinazionale diamantifera e ciascun gruppo, attraverso l’organizzazione di training per la formazione di futuri lavoratori indigeni in miniera ed altre opportunità di business per i cinque gruppi nativi coinvolti. Al fine di facilitare il raggiungimento degli obiettivi stipulati nell’accordo, le First Nations diedero la disponibilità del loro territorio per l’apertura di Diavik, in cambio però di una serie di misure atte a mitigare gli impatti ambientali causati dalla miniera e della garanzia di assunzione di un certo numero di uomini indigeni come minatori, pulitori di diamanti o trasportatori di minerale come stipulato nel Socio-Economic Monitoring Agreement (SEMA).

Tramite tali accordi le comunità indigene interpellate diedero via libera alla costruzione e allo sfruttamento minerario determinando però, nel corso degli anni, l’inevitabile progressivo degrado ambientale, la riduzione di animali indispensabili per le attività e per le cerimonialità tradizionali indigene (come il caribù), lo spostamento delle rotte migratorie di molti animali e lo sconvolgimento, come evidenziano molti elders, dello stile di vita comunitario a causa dell’assorbimento di giovani uomini in miniera.

Nel corso degli anni le First Nations coinvolte dalle multinazionali diamantifere, fondarono la Communities Advisory Board (CAB). Essa, tutt’ora esistente, ha l’obiettivo di monitorare, oltre che gli impatti ambientali, anche lo stravolgimento delle attività tradizionali indigene a causa dell’industria diamantifera. Essa fornisce anche raccomandazioni alle multinazionali per supplire a tali danni ricorrendo pure alle conoscenze tradizionali utile a leggere il territorio, non solo in cui sono presenti le miniere, ma anche in quelle particolari aree che fornirono sostentamento alle comunità native per secoli.

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Lago di Gras, dove sorge Diavik (ph. Linda Armano)

Uno dei più importanti accordi negoziati tra le Firts Nations e le multinazionali estrattive è il reclutamento diretto di giovani lavoratori indigeni. Già nella fase di costruzione della miniera, l’accordo prevedeva l’assunzione di lavoratori provenienti soprattutto dal nord del Paese (estendendo quindi la richiesta di manodopera non solo all’interno dei confini dei Territori del Nord Ovest, ma richiamando persone anche dal Nunavut). Inoltre, negli accordi, era stato stipulato che il 40% della forza lavoro in miniera doveva essere indigena. Alcuni studi mettono però in luce come, soprattutto quest’ultimo accordo, non fu rispettato nel corso degli anni (Caron et al. 2020). Alcuni autori (per es. Dana 2015) sostengono l’importanza dei training per la formazione di minatori aborigeni e, in generale, per i residenti del nord. Questi training iniziarono sin dalle primissime fasi di costruzione della miniera. Organizzati all’interno dei confini regionali consentivano, in questo modo, agli indigeni come ad altri residenti, di frequentare tali corsi non lontano da casa.

Gli obiettivi generali della formazione di lavoratori non si focalizzano solo nel fornire conoscenza in materia mineraria, ma offrono anche strumenti pratici e conoscitivi per costruire infrastrutture che collegano i vari paesi a ridosso del Polo Nord con la capitale Yellowknife. Con lo scopo inoltre di promuovere opportunità di lavoro per la popolazione del nord, Diavik Diamond Mine Inc. fondò, nel 2005, anche Aboriginal Leadership Program (ALP) che è tutt’ora attivo. Attraverso le sue politiche a sostegno di nuove forme di business, la miniera di Diavik ebbe quindi, sin da subito, un notevole impatto sull’economia generale della regione.

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Wellowknife, territori del Nord-Ovest (ph. Linda Armano)

Strategie politiche e percezione dei dipendenti indigeni

Questo contributo si basa su una ricerca etnografica tutt’ora in corso nei Territori del Nord Ovest del Canada. Le informazioni per il presente articolo sono ricavate da una ventina di interviste effettuate a lavoratori assunti nella miniera di Diavik, sia indigeni che non-indigeni. L’obiettivo principale di tali interviste è stato quello di catturare le loro percezioni sulle strategie di reclutamento da parte della multinazionale, sostenute anche dal governo regionale. Inoltre, anche sulla scorta agli studi condotti da Caron et al. (2019, 2020), le percezioni raccolte grazie ai colloqui con gli interlocutori, sono state comparate con gli atteggiamenti e i comportamenti dei datori di lavoro messi in luce dagli studiosi.

Per facilitare il confronto con i risultati dello studio di Caron et al. (2019, 2020), per ogni intervista si è cercato di mantenere la seguente metodologia e indagare quindi, in ogni colloquio, le seguenti specifiche tematiche: temi sociali (che includevano la comprensione dello status socio-economico dell’informatore); organizzativi (riguardanti le politiche e le procedure di gestione della diversità etnica in ambiente lavorativo); relazionali rispetto ai gruppi di lavoro (ossia sulle modalità di inclusione sociale e sulle capacità di leadership dei supervisori); motivazionali a livello personale (connesse alle scelte di lavoro, alla determinazione se continuare o meno a lavorare per l’industria estrattiva, alla capacità di conciliare famiglia e lavoro).

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Yellowknife (ph. Linda Armano)

Dalle interviste è emerso che, sebbene molte persone appartenenti alle comunità indigene siano disponibili a partecipare, come manodopera, al lavoro in miniera, esse sono consapevoli delle innumerevoli difficoltà che devono affrontare nel contesto lavorativo. Con Caron et al. (2020), possiamo affermare che questi ostacoli sono frutto delle politiche coloniali e dell’egemonia del modello di sviluppo capitalistico destinate a coinvolgere inevitabilmente anche i sistemi economici tradizionali (Brereton, Parmenter 2008). A conferma di quanto evidenziato da altri autori nei loro studi (Brereton, Parmenter 2008), dalle interviste effettuate sono emerse, in riferimento alle questioni di reclutamento, problematiche connesse al fatto che molti indigeni non hanno familiarità con il mondo industriale, hanno difficoltà a raggiungere il posto di lavoro per la distanza che separa le miniere dalle loro comunità e una diffusa riluttanza a rinunciare alle attività tradizionali come invece richiederebbero i datori di lavoro.

Queste criticità emergerebbero da aspetti molto pratici in quanto, trovandosi la miniera al centro del Lac de Gras, i lavoratori devono permanere nel villaggio minerario adiacente agli scavi per due settimane consecutive al mese, affrontando turni di dodici ore al giorno (Caron et al. 2019). Nel periodo in cui essi permangono lontani da casa, i lavoratori indigeni devono anche fare i conti con le difficoltà a vedere riconosciute progressioni di carriera o di mansioni e l’incapacità da parte dei datori di lavoro di comprendere e affrontare in modo specifico i bisogni e le preoccupazioni dei lavoratori aborigeni (Caron et al. 2019, 2020; Pearson, Daff 2013).

Alcuni minatori indigeni, per supplire a tali difficoltà, hanno affermato la necessità di creare più possibilità di partnership tra comunità native e multinazionali. In questo modo, secondo loro, migliorerebbero le condizioni socio-economiche di molte comunità indigene sfuggendo alla morsa di povertà che ha interessato la regione prima dell’apertura delle miniere di diamanti. Tra gli intervistati alcuni hanno inoltre rivelato l’esistenza di rivalità tra comunità indigene per accedere a posizioni lavorative nelle società minerarie. Altri vedevano l’industria mineraria come una soluzione ai problemi socio-economici per le loro comunità, molti hanno invece sostenuto che gli sforzi dell’industria estrattiva non sono producono di fatto posti di lavoro sufficienti ai nativi all’interno della regione. Alcuni si sono infatti chiesti il motivo per cui le multinazionali si ostinino a richiamare manodopera professionale dall’estero, piuttosto che formare personale indigeno residente nei Territori del Nord Ovest. Certi lavoratori a contratto o in lista d’attesa hanno anche denunciato che i loro pagamenti per l’assistenza sociale sono stati ritirati quando sono entrati nel mercato del lavoro anche semplicemente per un breve periodo (ad esempio, una settimana) e che il rinnovo dei pagamenti richiedeva, per contro, lunghe procedure amministrative.

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Comunità Dogrib, territori del Nord Ovest

Selezione e reclutamento

Come hanno spiegato molti informatori intervistati, alcuni manager delle compagnie minerarie per selezionare e reclutare lavoratori indigeni fanno visita alle comunità indigene sparse all’interno dei confini regionali. Durante l’arco dell’anno le multinazionali organizzano, a Yellowknife, anche fiere del lavoro oltre che pubblicare annunci online. Sono frequenti pubblicità via radio, per televisione o nei social media, nonché comunicati stampa nelle varie comunità. Tutti i lavoratori indigeni intervistati hanno pure ribadito l’obbligo di seguire un programma di preparazione al lavoro che è parte integrante del processo di selezione e reclutamento. Alcuni hanno sottolineato come la società estrattiva sia solita dare la precedenza ai membri delle comunità con cui hanno stipulato accordi, seguiti dai rappresentanti delle comunità circostanti con cui ancora non hanno firmato alcun agreement. In questo modo si creerebbe una sgradevole concorrenza tra comunità per avere la possibilità di frequentare i training e avere la speranza di essere assunti.

La misura di reclutamento meno efficace secondo gli intervistati sarebbe l’applicazione online a causa soprattutto di difficoltà nei collegamenti ad internet. Alcuni indigeni hanno inoltre sostenuto come alcuni posti vengano dati a persone specifiche scelte ad hoc. Nonostante ci sia una scelta a monte, le società pubblicano il documento ufficiale di assunzione come se la selezione del preselezionato fosse passata attraverso prove di selezione meritocratica. L’importanza di conoscere le persone giuste per entrare nella forza lavoro mineraria, soprattutto nelle posizioni più alte all’interno della gerarchia, è stata denunciata da molti intervistati. Un minatore ha infatti affermato che: «I attended [a job fair], I gave my name. It’s annoying because you go to these things, they say “yes, yes, come, apply!”. But nothing happens after. If you don’t belong to the clique, you have nothing» (intervista a J.).

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Minatori della miniera di Diavik

Le misure di reclutamento percepite come efficienti dagli intervistati sono quelle che prevedono un contatto umano diretto e continuo, per esempio attraverso l’organizzazione di incontri con i rappresentanti del settore. I social media sono invece ritenuti da molti interessanti nel fornire informazioni sulla tipologia del lavoro da svolgere. Anche il coinvolgimento delle compagnie minerarie nella sensibilizzazione dei giovani alle opportunità di lavoro, in particolare attraverso le visite scolastiche, è apprezzato o auspicato da parecchi. Tutti gli indigeni coinvolti hanno però denunciato il lungo tempo di attesa tra la formazione e l’assunzione delle persone.

La maggior parte degli intervistati ha affermato che la propria integrazione nel sito minerario è stata positiva. Appena assunti viene organizzata per loro una presentazione generale delle politiche aziendali, incontri con i supervisori e i colleghi, la visita del sito e delle strutture, nonché una formazione sul funzionamento dei macchinari, sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro. Alcuni degli intervistati hanno sottolineato però la necessità di offrire anche una formazione generale a tutti i dipendenti relativamente alla diversità culturale tra gli indigeni e i non-indigeni, al fine di favorire l’integrazione dei primi nell’ambiente lavorativo (Caron et al. 2019, 2020).

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Scavi a Diavik

Durante le interviste c’è chi ha suggerito approcci aggiuntivi o complementari per garantire il successo dell’integrazione. Alcuni per esempio hanno sostenuto l’importanza di una cena di benvenuto, durante la quale i supervisori potrebbero presentare i nuovi dipendenti aborigeni. Questo suggerimento è molto interessante in quanto proviene dall’uso generale degli indigeni canadesi di offrire cibi, preparati secondo la loro tradizione, a persone appena conosciute.

Tra le maggiori difficoltà enunciate dai minatori nativi vi è la necessità di abituarsi all’ambiente produttivo minerario, alle politiche e alle procedure in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ai lunghi turni, all’ambiente buio per chi lavora sottoterra e ai turni notturni. Questi aspetti farebbero quindi emergere una sorta di shock culturale, in quanto molti indigeni dovrebbero velocemente adattarsi alla realtà e al ritmo industriale. Per alcuni questo adattamento ha richiesto un radicale cambiamento di mentalità, nonostante la costante puntualizzazione della mancanza di un’atmosfera familiare come quella che invece vivono all’interno delle loro comunità native. Un informatore ha infatti affermato come: «Whites are more “go-go, we have to produce!”. There are some [Indigenous workers] who are not able to take pressure like that».

In caso di conflitto tra dipendenti durante gli orari di lavoro è solitamente responsabilità del supervisore risolvere la situazione. Qualora non si arrivasse ad una conclusione, i dipendenti coinvolti nella vertenza devono incontrarsi con il responsabile delle risorse umane per discutere la situazione e trovare un terreno d’incontro. 

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Lavoratori indigeni della miniera di Diavik

Conclusioni

Le opinioni dei lavoratori indigeni intervistati in questo studio confrontate con le interviste svolte da Caron et al. (2019, 2020) ai datori di lavoro delle miniere diamantifere nei Territori del Nord Ovest, mostrano l’aspettativa comune intorno alla necessità di una stretta collaborazione tra comunità, governi, consigli scolastici e società minerarie per implementare programmi di occupabilità. Alle insicurezze percepite da parte dei lavoratori indigeni davanti a mansioni svolte soprattutto per la prima volta, corrisponde l’opinione dei datori di lavoro di un’insufficienza di formazione generalizzata all’interno della forza lavoro aborigena (Caron et al. 2020). Tale aspetto sarebbe riconosciuto come una delle principali barriere all’occupazione indigena (Caron et al. 2019, 2020). È interessante notare inoltre come, mentre molti dipendenti indigeni intervistati hanno evidenziato ingiustizie nel reclutamento di lavoratori già prescelti, i datori di lavoro intervistati da Caron et al. (2020) menzionano invece un’accanita competizione tra i membri appartenenti a comunità aborigene diverse. Questa apparente contraddizione può essere spiegata dal fatto che la maggior parte dei lavoratori indigeni sono poco qualificati e competono per posizioni di basso livello, mentre le aziende ricercano e assumono i pochi lavoratori indigeni qualificati per posizioni di più alto livello. Inoltre, i miglioramenti tecnologici riducono il numero di posti di lavoro disponibili per le popolazioni indigene poco qualificate. Questo fa parte di una tendenza generale verso l’automazione nell’industria mineraria (Borenstein 2011) a scapito di lavori manuali e/o meno specializzati.

Come si è visto da questa analisi quindi le popolazioni indigene intendono migliorare sia le condizioni socio-economiche sia quelle della loro comunità. Per questo motivo, molti nativi vogliono partecipare ai progetti minerari all’interno della regione. Tuttavia, persistono oggettive e persistenti barriere all’occupazione e raramente si ottengono i risultati occupazionali desiderati. Nonostante in questo contributo siano stati analizzati dati facenti parte di una ricerca molto più ampia nei Territori del Nord Ovest (la quale rappresenta anche uno dei primi tentativi per esaminare la percezione dei dipendenti indigeni riguardo alle strategie utilizzate dai datori di lavoro minerari canadesi, per promuovere il reclutamento, l’integrazione e la fidelizzazione), esso è in tutta evidenza parziale e abbisogna di ulteriori approfondimenti  nella conoscenza dell’ambiente lavorativo dal punto di vista più strettamente ecologico, al fine di mettere in luce anche le necessità di possibili migliorie in materia di salute e di sicurezza.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Riferimenti bibliografici
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.

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