La riflessione intorno allo statuto dell’ “Altro”, del “diverso”, parte spesso da una polarizzazione Noi/Voi che per gli studiosi occidentali ha trovato in passato grande fortuna e valore scientifico in tutti i campi del sapere. Se tale suddivisione è stata prevalentemente criticata in ambito antropologico [1], essa incontra, ancora tutt’oggi, consenso in altre branche di studio, troppo spesso appiattite ad una cultura occidentale che non fa emergere le possibili divergenze e differenze presenti in altre culture, spesso viste attraverso le lenti distorte dei pregiudizi e ritenute così inferiori e non allineabili o comparabili a quella occidentale predominante nella società globale.
Il rischio sembra poi decisamente aumentare qualora si prenda in considerazione la psicoterapia ed in generale la psicologia in tutte le sue forme: essa appare, nell’immaginario collettivo, come disciplina utile esclusivamente per uomini e donne “occidentali”, vittime delle crisi dell’Io analizzate da Freud nella prima metà del secolo scorso. Tuttavia, è evidente che, sebbene tali saperi siano considerati come discipline sviluppatesi nel mondo occidentale, la psicologia e la psicoterapia hanno il loro valore euristico e scientifico anche nelle società “altre”, in quanto i disturbi della mente travalicano qualsiasi confine geografico imposto dall’uomo. Occorre tuttavia fare attenzione ad un’ingenuità che potrebbe risultare deleteria per il lavoro dello psicoterapeuta e del counselor, ovvero la pretesa di poter applicare in maniera meccanica concetti, teorie e pratiche della psicoterapia a pazienti e utenti non occidentali.
Prendendo come punto di riferimento il mondo arabo-musulmano, l’errore di ritenere la società araba come terreno privo di insidie e asperità, totalmente passivo e accomodante nella ricezione di elementi “occidentali”, ha spesso portato a crisi di identità, sfociate anche, in determinati casi, nel rigetto in toto dei valori e delle proposte occidentali: chiaro esempio di questa problematicità è riscontrabile anche nella storia dei Paesi arabi della metà del Novecento, costretti a fare i conti con la modernità e tuttavia non disposti ad accettare concetti, come ad esempio il nazionalismo ed il socialismo [2], spesso avulsi dalla realtà sociale quotidianamente vissuta dall’uomo arabo.
Allo stesso modo dei concetti politici, la persona arabo-musulmana potrebbe fraintendere e rifiutare una terapia formulata da specialisti occidentali e elaborata prevalentemente per un pubblico proveniente dalla stessa società dell’esperto. Da queste premesse, si rivela dunque necessario uno sforzo intellettuale e professionale che possa portare anche nel campo della psicoterapia un’indagine critica delle modalità con cui affrontare i disagi e i disturbi psichici dell’uomo arabo-musulmano. Adeguata e efficace risposta a queste istanze viene data da Marwan Dwairy, psicologo clinico operante nell’area di Nazareth, nel suo testo Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani. Un approccio culturalmente sensibile (FrancoAngeli ed., 2015, cura e attenta traduzione di Alfredo Ancora), la cui lettura apre interessanti proposte di lavoro ed innovative strategie per la psicoterapia destinati a clienti arabo-musulmani.
La psicoterapia come evento transculturale
L’esperienza di psicoterapia “sul campo” è più che ventennale nel caso di Dwairy; tuttavia, è lui stesso a mostrare come, nei suoi primi anni di attività, la conduzione della professione avesse incontrato non pochi ostacoli, dettati prevalentemente da uno iato profondo tra le teorie studiate sui testi degli specialisti e la pratica di ogni giorno:
«La principale esperienza che ricordo del mio primo anno di lavoro a Nazareth è stata il fatto che i miei clienti sembravano diversi da quelli descritti nel contesto delle teorie psicologiche. Reagivano in modo diverso ai miei interventi diagnostici e terapeutici. Tendevano a concentrarsi sulle condizioni esterne e non erano in grado di affrontare questioni intime e personali. Termini come se stesso, realizzazione di sé, Io e sentimenti personali erano loro estranei (…). Questa esperienza è stata molto deludente, anche gravosa, per uno psicologo inesperto ed entusiasta che credeva che la psicologia appresa fosse universale e che quindi dovesse funzionare con gli arabi palestinesi altrettanto bene che con qualsiasi altro popolo» (Dwairy, 2015: 9).
Da queste esperienze negative, Dwairy comprese la necessità, per il suo lavoro di psicologo, di approntare una strategia differente per poter agire in maniera efficace con i clienti arabo-musulmani. Evitando l’altro estremo (costruire teorie ad hoc per le persone arabo-musulmane), Dwairy si pose dunque l’obiettivo di creare un ponte che potesse collegare la cultura occidentale con quella orientale, nella consapevolezza che questo esercizio transculturale permette alla psicoterapia di allargare il suo impiego anche in una società differente da quella occidentale.
«Ho cercato di scoprire − scrive Dwairy − dove gli approcci occidentali alla psicologia si adattano e dove non si adattano alla cultura araba o musulmana, tentando di individuare come icounselor possano avvalersi dei valori, dei costumi e delle norme arabo-musulmane nel counseling e nella terapia» (Dwairy, 2015:10).
Le dimensioni dell’individualismo e del collettivismo
Fissato l’obiettivo dell’indagine, Dwairy focalizza l’attenzione verso una distinzione netta tra la cultura occidentale e quella mediorientale. Muovendosi con accortezza, l’autore invita il lettore a sfuggire ai pregiudizi di superiorità di una cultura rispetto all’altra, rifiutando tuttavia allo stesso modo la visione opposta, che pretende di scavalcare le differenze culturali trincerandosi dietro al facile ritornello “siamo tutti esseri umani”; entrambe le opinioni sono difatti pericolose per ogni esercizio che voglia definirsi transculturale. Dwairy pone dunque una distinzione di rilievo (individualismo-collettivismo) sui cui binari si muoverà poi la sua indagine e che dunque deve necessariamente essere ben definita per comprendere tutto il ragionamento dello psicologo laureato all’università di Haifa.
L’Individualismo è la dimensione collegata prevalentemente al mondo occidentale. In un modello di società legato a questa dimensione, l’individuo è visto come un unicum, una persona sufficiente a se stessa e slegata dal suo contesto familiare e sociale. Inoltre, gli obiettivi personali, le proprie ambizioni hanno valore superiore a tutte le altre esigenze della collettività.
Il Collettivismo è il modello sociale legato alla dimensione della collettività ed è in larga misura attestato nel mondo arabo-musulmano e in altre società extra-occidentali. L’individuo, in questo modello, risulta inglobato in un sistema sociale più grande, sia esso rappresentato da una tribù, dalla famiglia, dalla nazione; i suoi bisogni non divergono da quelli della collettività e ogni ambizione personale viene sempre relegata in secondo piano rispetto al bene comune e alle norme di comportamento dettate dalla collettività [3].
La divisione di queste dimensioni deve però essere giustificata per evitare di ricadere in un deleterio orientalismo. Dwairy dimostra quindi la sua radicale convinzione intorno alle differenze tra il modello occidentale e quello orientale (arabo-musulmano, nella fattispecie) attraverso una spiegazione di tipo economico-sociale:
«Nel mondo arabo e islamico, tuttavia, non si sono verificati i cambiamenti sociali, politici ed economici che hanno avuto luogo in Occidente e quindi gli Stati arabi e islamici non si sono assunti la responsabilità di provvedere a tutte le necessità dei propri cittadini. In questi Paesi le persone hanno mantenuto relazioni di interdipendenza con la famiglia (…). In altre parole, il collettivismo è negativamente correlato al prodotto nazionale lordo pro-capite (PNL)» (Dwairy, 2015: 36).
Sebbene Dwairy si appresti a chiarire che comunque «l’economia non può spiegare tutta la variabilità della dimensione collettivista nei diversi Paesi, in quanto anche il patrimonio culturale ha una sua influenza», è evidente la sua convinzione che il mondo dell’economia abbia un peso preponderante nel definire una società come collettivista o individualista. Il punto di vista dell’autore potrebbe, tuttavia, essere integrato con una riflessione sullo statuto della religione islamica, din wa dawla, che per sua stessa essenza non autorizza distinzione tra società laica e religione; l’Islam riguarda ogni aspetto della vita del musulmano, che costantemente deve far riferimento al Libro sacro e alla Sunna per orientarsi al meglio nella sua vita di musulmano, di credente [4]. Questa concezione totale della religione manca nel Cristianesimo e ciò potrebbe aver facilitato quella separazione netta tra religione e mondo laico che si registra nell’Occidente contemporaneo.
Il counseling e la psicoterapia nella società collettivista
Durante i suoi anni di lavoro nell’area mediorientale, Dwairy ha potuto constatare molteplici difficoltà nell’esercizio della sua professione. Queste problematiche lasciano emergere la necessità di ripensare l’attività del counseling e della psicoterapia all’interno della cultura del cliente, creando dunque quel ponte transculturale precedentemente indicato come possibile soluzione alla distanza tra mondo collettivista e mondo individualizzato. Sembra quindi opportuno rivedere alcuni dei punti principali che Dwairy propone nel suo testo, come suggerimento per una nuova psicoterapia attenta alle necessità del cliente arabo-musulmano:
1) Il counselor non deve andare contro la cultura del cliente. Un errore assolutamente da evitare per il counselor è quello di assumere un atteggiamento di superiorità nei confronti della cultura del cliente. Tentare di “salvare” il cliente dalla cultura in cui è in ogni caso nato e cresciuto porta quasi necessariamente a risultati deludenti, in quanto difficilmente egli può accettare che il mondo di valori in cui è vissuto sia messo in discussione radicalmente. Occorre dunque lavorare all’interno della cultura del cliente e non rendere l’attività di psicoterapia un’arena di battaglia tra diverse culture:
«Lo scontro con la cultura è una battaglia persa e può causare l’abbandono della terapia da parte del cliente. Nell’incontro tra terapeuta e cultura, i terapeuti dovrebbero rendersi conto del loro potere limitato ed evitare di oltrepassarne il limite» (Dwairy, 2015: 146).
2) Il counselor deve conoscere la cultura del cliente, il quale è immerso in un mondo di credenze, di valori che da sempre influenzano la sua vita, in maniera più o meno consapevole. Conoscere questa cultura rappresenta per il counselor un grande punto di forza che gli permette di utilizzare gli strumenti adatti per raggiungere il fine principale del suo lavoro, che è sempre quello di migliorare le condizioni psico-fisiche ed i disagi sociali del cliente. Un interessante esempio è costituito dallo statuto dell’analogia (qiyas): sfruttando questo strumento ampiamente utilizzato nella Tradizione islamica [5], il counselor può spingere il cliente a risolvere i propri conflitti attraverso l’applicazione dell’analogia. In questo modo, il musulmano è portato a riflettere in un modo a lui familiare e congeniale, accettato e promosso dalla sua cultura di riferimento.
3) L’attenzione verso gli strumenti di valutazione è un ulteriore punto che vale la pena approfondire; riguarda l’impiego dei diversi strumenti di valutazione utilizzati dallo psicologo per la sua diagnosi e terapia del paziente. In effetti, ciò che emerge dalle ricerche di Dwairy, è un invito a prestare la massima attenzione ai test proposti al cliente, in quanto, anche se in maniera del tutto involontaria, possono causare una crisi del rapporto con lo psicologo e interrompere la terapia:
«Alcune delle attività richieste nei test sono viste come infantili da molti clienti arabo-musulmani, i quali quindi mostrano segni di rifiuto o d’umiliazione. Questi segni possono comparire quando sono poste al cliente le domande facili in un test di intelligenza o quando gli viene chiesto di eseguire compiti normalmente chiesti a bambini (…). Alcuni clienti si esprimono dicendo: “Io non sono un bambino” o “Pensa che io sia pazzo?”. Quando questi compiti sono fraintesi dal cliente, il rapporto con il counselor e la fiducia in lui possono essere messi in pericolo» (Dwairy, 2015: 113).
Oltre ad un problema di fiducia, emerge la difficoltà legata alla lettura dei test. Essendo quest’ultimi spesso pensati ed utilizzati da un pubblico occidentale, al momento in cui sono proposti ad un cliente arabo-musulmano possono portare a dei risultati distanti da quelli attesi. Tale difficoltà va superata leggendo gli esiti attraverso le lenti della cultura del cliente, evitando così il rischio di ritenere affetto da patologie un comportamento in realtà conseguente e corretto in una diversa cultura.
La Culturanalysis: una terapia nella cultura
I tre punti analizzati nel precedente paragrafo convergono in una felice espressione di Dwairy, la “cultura- nalysis”. Lo psicologo e il counselor non devono porsi in contrasto con la cultura del cliente, accentuandone in modo irrimediabile le differenze culturali, ma entrare nella sua weltanschauung, nel suo sistema di valori, comprendendolo senza giudicare. Come ben specificato dall’autore:
«Il terapeuta dovrebbe individuare le sottili contraddizioni all’interno del sistema di credenze del cliente ed utilizzare gli aspetti culturali che possano facilitare un cambiamento (…). Un culturanalyst analizza il sistema di credenze del cliente e lo rende consapevole di aspetti contrastanti al fine di attivare una revisione di atteggiamenti e comportamenti» (Dwairy, 2015: 150).
Il culturanalyst diviene quindi figura di estrema importanza, rispettosa della cultura altrui e disposta ad entrare nel suo sistema di valori, allo scopo di trovare elementi culturali che possano prestarsi al miglioramento delle condizioni del paziente; quest’ultimo sarà ben più disposto ad accettare un cambiamento permesso dalla sua cultura rispetto ad uno imposto dalla cultura occidentale dello psicologo e la terapia potrà dunque indirizzarsi verso un risultato positivo e soddisfacente per il cliente.
Un esempio di questo agire all’interno della cultura stessa è rappresentato dall’utilizzo del Corano per risolvere conflitti interfamiliari, materia complessa nel mondo arabo-musulmano in quanto la famiglia costituisce il fulcro della società collettivista. L’autorità famigliare, spesso oppressiva e restia ad ogni cambiamento che possa mettere in cattiva luce la famiglia stessa, può invece accettare un cambiamento se questo viene giustificato con versi tratti dal Corano o con hadith del Profeta. Alcuni esempi tratti dal testo di Dwairy chiariscono al meglio questa strategia di azione:
«A un genitore negligente e violento, un terapeuta può citare il versetto “Il bene e i figli sono il decoro della vita presente” (Al-Kafh #46). Per incoraggiare i clienti a controllare la rabbia, i terapeuti possono citare versi come “…un paradiso ampio come il cielo e la terra è preparato per i devoti. Quelli che… controllano la propria rabbia e perdonano le persone (Al-ʽUmran # 133, 134). Per favorire il dialogo in una famiglia o per convincere clienti caparbi ad ascoltare, i terapeuti possono citare il principio islamico di ricevere consigli, shura (Shura #38) »(Dwairy, 2015: 155).
Conclusioni e rilevanza dell’opera di Dwairy
Il testo di Dwairy è innovativo per molti motivi e la sua lettura permette al lettore, sia esso specialista o semplicemente interessato alla psico- terapia, di comprendere che il tentativo di far rientrare ogni praxis, caso particolare, all’interno di una teoria, di uno schema ben definito, impedisce una corretta visione del problema e, ben più gravemente, protrae nel tempo pregiudizi e concetti di stampo orientalista, completamente inadatti a indagare una realtà complessa come quella arabo-musulmana. Dwairy ha il merito dell’originalità del lavoro, che nasce da una situazione problematica (la disillusione di poter applicare ai clienti arabo-musulmani teorie occidentali) e si risolve nella sfida di una psicologia, di una terapia che deve rimettere in gioco tutte le sue conquiste e convinzioni per poter entrare efficacemente in campo orientale, campo in cui bisogna entrare con rispetto e volontà di comprendere una cultura differente, senza ignorarla o assumerla ad ostacolo lungo il percorso terapeutico.
Lo sforzo dell’autore, del mondo del counseling e della psicoterapia, è in questo caso parallelo a quello di altre scienze: uno sforzo di non conformarsi al “già detto”, di insistere sul riconoscimento plurale e democratico di diverse culture e società, impendendo così la prevaricazione di una cultura occidentale dominante, spesso ricevuta come allogena e fonte di inevitabili conflitti con culture altre. Per tali motivazioni, occorre far nostro l’invito di Dwairy a conclusione del suo testo:
«Un approccio culturalmente sensibile in psicologia è molto importante in questo periodo di globalizzazione, in cui la cultura occidentale è spesso presentata come la scelta definitiva di tutti i popoli, a prescindere dal loro patrimonio o cultura. Coloro che lavorano nel campo della salute mentale hanno una grande conoscenza da condividere; il loro contributo può aiutare a sviluppare una maggiore comprensione e empatia per le culture degli altri e promuovere il pluralismo all’interno della globalizzazione» (Dwairy, 2015: 189).
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2019
Note
[1] Il riferimento più immediato va al classico di Said E. W., Orientalism, Pantheon Books, New York 1995 (tr. it. Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2008). Più recentemente, può essere preso in considerazione l’interessante testo di D. Copertino, Antropologia politica dell’Islam. Daʻwa e Jihad in Tunisia e nel Medio Oriente contemporaneo, Edizioni Di pagina, Bari 201: 13: «La distinzione Noi/Loro, nel nostro contesto, appare polarizzata tra un termine (Noi) la cui definizione è molto vaga e non univoca (noi popoli europei o occidentali? Noi cristiani o moderni o secolarizzati?) e un altro termine (Loro), che ingloba un’entità indistinta in cui si appiattiscono una serie di definizioni (il mondo islamico, gli arabi, i musulmani, gli “islamici” o islamisti) che hanno in realtà significati complessi e declinazioni emiche ed etiche molteplici».
[2] L’entrata della modernità nel mondo islamico, spesso indicata dagli studiosi nel 1798, data dell’invasione napoleonica dell’Egitto, sconquassa un mondo arabo fino a quel momento statico, se comparato al mondo occidentale. Su questo tema, cfr. M. Campanini, Islam e politica, Il Mulino, Bologna 2003, p. 169: «La dialettica modernismo-Islam che si produsse soprattutto nel XIX e nei primi decenni del XX secolo fu la dialettica appunto del confronto, o meglio sarebbe dire, dello scontro tra una società tradizionale, quella islamica, che aveva perso il bandolo della matassa del futuro, e una società moderna, tecnologicamente avanzata, quella occidentale-europea».
[3] «Le persone inserite in questa cultura tendono a vivere vicino ai genitori e il loro comportamento è regolato da norme collettive che sono più importanti delle attitudini individuali. Il sé è definito come un appendice della collettività e l’identità di un individuo è associata all’appartenenza sociale a una famiglia o a una tribù, piuttosto che alle qualità personali o agli obiettivi raggiunti» (Dwairy, 2015: 35).
[4] Cfr. su questa tematica, la voce religione nel Dizionario dell’Islam, a cura di M. Campanini, Rizzoli, Milano, 2005: 261: «L’Islam è religione che integra l’aspetto esteriore con l’aspetto interiore, il corpo con l’anima. Essa non dice dunque soltanto come adorare Dio e rapportarsi a lui, ma suggerisce come e cosa mangiare e bere, come vestirsi e cosa indossare (…). La formula che l’Islam è religione e mondo è perciò accettata da quasi tutti i musulmani e studiosi di questa fede. La formula non significa necessariamente che la religione abbia una dimensione politica; significa però che tutti gli aspetti quotidiani della vita devono essere ispirati da un afflato religioso e che la religione non è semplicemente qualcosa che riguardi lo spirito, ma anche la realtà corporea e, in senso lato, sociale».
[5] Sull’analogia, cfr. S. Mervin, Histoire de l’’Islam. Fondaments et doctrines (ed.it. L’islam. Fondamenti e dottrine, a cura di Bruna Soravia, Mondadori, Milano 2001: 52: «Il qiyas, o ragionamento per analogia, consente al giurista di pronunciarsi su un caso particolare non menzionato nei testi sacri, basandosi su un caso base noto. Il metodo consiste nel far emergere da questo una “causa” o principio esplicativo, da cui si potrà dedurre la norma da applicare al caso derivato».
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Roberto Cascio, laurea magistrale in Scienze Filosofiche conseguita presso l’Università degli Studi di Palermo, con una tesi dal titolo Le Pietre Miliari di Sayyd Qutb. L’Islam tra fondamento e fondamentalismo. Ha collaborato con la rivista Mediterranean Society Sights, il suo campo di ricerca è l’islamismo radicale nel Paesi arabi, con particolare riferimento all’Egitto.
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