di Stefano Montes
16.30. Sferraglia, sferraglia, il treno, mentre il mio ‘io’ sprofonda sempre più giù sul sedile marrone, comodo e accogliente, risucchiato come una ponderosa, nera calamita verso il centro del mondo apparente in movimento sotto i miei piedi ignari e saldi sul pavimento solido. Il verde della campagna rutilante mi distrae a tratti. Solo a tratti. Il panino al salmone rosa alla mia destra sembra strizzarmi l’occhio. Non più di tanto. Non ho ancora fame. Non mangerò comunque. Non posso però fare a meno di pensare, ogni qualvolta io mangi del salmone, ai Kwakiutl: al loro modo di vedere il mondo, la vita e la morte attraverso le metafore della bocca e dello stomaco. Per i Kwakiutl la fame è un bisogno che va controllato socialmente perché potrebbe, altrimenti, portare all’accumulazione di anime e bloccare il ciclo di reincarnazioni. Nella loro cultura la generosità è un tratto essenziale. E i pasti sono, dal loro punto di vista, «cerimonie nel ciclo della reincarnazione. Dal momento che gli animali sono bare per le anime degli umani, contenitori dello spirito, l’uccisione di un animale implica anche la separazione dell’anima umana dalla carne dell’animale. I pasti quindi agiscono al pari di funerali sia per gli animali sia per le anime degli umani contenute al loro interno, i quali devono trovare nuovi corpi dove reincarnarsi. La struttura di un pasto, indipendentemente dal fatto che riguardi soltanto due persone o tutte le tribù, è la stessa. Tutti i pasti e tutte le feste sono funerali; tutti i funerali sono feste» (Walens 1981: 86).
Penso ai Kwakiutl, il panino mi guarda, il treno sferraglia, il mio ‘io’ precipita. Risucchiato in basso e scagliato in avanti, sollecitato dal movimento e ancorato sulle gambe, con il corpo soggiogato dal farsi strada delle sensazioni, rimango in attesa, attento alle mille sensazioni che il treno contribuisce a produrre, mentre mi dissocio dalla mia mente rivolgendo lo sguardo altrove, oltre il finestrino, verso il paesaggio in moto continuo. Su o giù, in avanti o all’indietro, lento dondolio o assordante sferragliamento? Cedo infine ai colori, al rosa e al nero, all’arancione e al verde del paesaggio.
16.35. Cedo per cercare di distrarmi. Adatto il «divenire non-umano dell’uomo» alle mie sragioni (Deleuze, Guattari 1991: 163), cerco di addurre motivi pratici al mio graduale divenire inondazione di immagini fantasmagoriche e confuse provenienti dal finestrino. Sono tutt’uno con le immagini, cerco di smorzare l’impassibilità del mondo. Zio Vanja sta morendo a Palermo. Come la fiamma di una candela, a poco a poco, ma senza speranza alcuna di salvezza. Leucemia. Nessuna via d’uscita. Pochi giorni di vita. Ne ha ancora per poco. Non ne ha per molto ancora. Non reggerà a lungo alla malattia. L’azione perfettiva della morte porrà fine all’imperfettività dell’esistenza. Non lo sopporterei per me, non lo tollero per lui. Resisterei se fossi al posto suo? Mi lascerei venire meno rassegnato? Vorrei almeno potere comunicare e lui non può: non riesce a parlare. Non parla, ma pensa. Come pensa? E a cosa pensa? Lui è in un letto di morte prossima e incombente con scarsi mezzi di comunicazione, impedito nella parola. Io, in treno, torno a Palermo dopo qualche giorno di assenza, assediato dal discorrere, assalito dai pensieri e dalle immagini: in fuga da me stesso, come sempre, ogni qualvolta qualcuno di caro nella mia vita dà segni di cedimento, viene meno, se ne va, si spegne, manca. In treno, per un paio d’ore soltanto, sì sono in treno per un breve lasso di tempo, incollato al finestrino, sì vado verso Palermo, dopo un seminario di qualche giorno, fuori sede, sul non-umano, gli animali, le piante, la natura, i miti e i riti, nostri e altrui. Me ne importava così tanto? Ero fuori di me, in transito, all’incirca, pressappoco, tutto alla rovescia, sottosopra, dimezzato e incazzato, dentro e fuori, con la pulsazione all’alluce e il pizzico al gomito. Ero e sono arrabbiato con me stesso e il mondo intero. Ero e sono toccato sul vivo, punto e appuntito direbbe Barthes, come se una scossa ottusa avesse attraversato a singhiozzi il mio corpo ovvio, assorto, imbalsamato, intorpidito.
16.45. Durante il seminario, parlavo, parlavo a più non posso, discettavo e rilanciavo ipotesi a iosa, ammettevo e mostravo titubanza, rimuginavo e speculavo. A viva voce. So che «non possiamo, parlando, fare a meno di pensare, di tenere in sospeso le parole. Il pensiero è la pendenza della voce nel linguaggio» (Agamben 1982: 137). Ma c’è altro. Facevo tutto il possibile per rabbonirmi e riportare a unità ciò che d’intesa non voleva saperne: il mio ‘io’ con quella parte di ‘me stesso’ fuor di pensiero; il senso della vita con l’ineluttabile assurdità della morte; l’imperterrito movimento in avanti del treno con l’andare a ritroso dei miei pensieri. Ricomporsi. Tendere all’unità. È mai possibile? Non è forse vano? E così, durante il seminario fuori sede, mi occupavo, mi riempivo di riflessioni, davo libero sfogo alle parole, prestavo orecchio attento ai miei colleghi, mi lasciavo invadere dall’azione in essere in contemporanea con la situazione e gli eventi mentre un piccolo residuo del mio ‘io’ teneva duro e mi ricordava che niente vale a niente contro la morte. Che altro potevo fare? Mi lasciavo invadere come le immagini che irrompono, adesso, dal finestrino e reagivo suggerendo linee di fuga possibili e impossibili. Più spesso, la resistenza si trasformava ostinatamente – si trasforma – in aperta ribellione, presa di posizione incontrollata contro l’intorpidimento del quotidiano. Osavo. Pensavo. Con il baricentro basso. Come un giapponese sul tatami. In quattro tempi, per addomesticare con la musica gli eventi. E tutto questo perché l’approssimarsi della morte scuote: non solo perché «la morte fa emergere retroattivamente il senso della vita», ma anche perché «risveglia di colpo tra chi sopravvive capacità di stupirsi intorpidite, addormentate dalla ninnananna della continuazione quotidiana: gettando un dubbio sulla ragion d’essere radicale di questa continuazione, essa ci costringe a scuotere il nostro torpore continuazionista» (Jankélévitch 2009: 450-451). A ogni morte in famiglia, il mio ‘io’ si ritrova mancante, tuttavia meno anchilosato, meno radicato nella lentezza fluida di un quotidiano da accettare tale e quale. Mi viene a mancare un pezzo di me stesso e la mia identità si rinviene sbilenca. Ma all’aumento di vulnerabilità, fa da contrappeso l’incremento di resistenza alle avversità, il contrapporsi alla banalità del vivere irriflesso. Penso egoisticamente: il quotidiano abbisogna di fratture per rivalorizzarsi, ma preferirei nondimeno che a morire non fossero amici e parenti.
17.00. E adesso, per tutta risposta, sul treno, mi gratto la schiena con forza, mi slaccio di una tacca la cintura dei pantaloni, mi tolgo una scarpa da ginnastica gialla. È tutto ciò che mi resta e c’è, per di più, una ragione antropologica. Sono tutte azioni puntuali che tentano, nel loro insieme, di opporsi al divenire incombente e di riportarlo all’ordine, andando oltre la loro stessa aspettualizzazione puntuale: il perfettivo tenta di allearsi vanamente all’imperfettivo per addomesticarlo e dislocare il vero momento di rottura, nell’aleggiare della morte. Mi gratto come un matto, mi gratto dappertutto, mi gratto a piene mani. Ma non ho prurito. Non ne ho. Il rituale inizia, prima ancora che l’evento stesso abbia luogo, somaticamente, rivoltando parti del mio corpo contro me stesso: i «rituali veicolano processi che si realizzano sia prima che dopo la durata della loro esecuzione» (Rosaldo 1989: 60). Mi rendo adesso conto veramente, con il corpo e con la mente, che lo zio Vanja sta per morire e io comincio già, prima che accada il peggio, a mettere in atto un minuzioso micro-processo rituale in cui corpo e mente sono coinvolti pienamente, persino nelle azioni più inconsulte e sregolate. Rosaldo non ha tutti i torti: i rituali, soprattutto quelli relativi al morire, non possono essere ridotti alla loro fase puntuale, più manifestamente trasformativa. Per quanto mi riguarda, persino le sollecitazioni del treno hanno avuto un effetto sul soma: il mio. E io? Ne sono parte integrante? Ne ho piena consapevolezza? Il dito parte da sé, senza che io me ne renda effettivamente conto, seguito dalla mano destra e poi dalla sinistra: sulla schiena, sui pantaloni e sulla scarpa. L’aria non ne risente, un ricordo lontano invade i miei pensieri.
Il treno va, niente lezzi. Non sferraglia, non proprio, lo so bene, non sferraglia il treno, ma mi piace pensarlo così, mentre il leggero dondolio che invade il mio corpo mi ricorda i treni che prendevo, ogni due o tre mesi, da studente, per andare in Belgio, dall’altra parte dell’Europa, verso il nord. È un ricordo fuori tema? Quasi due giorni di viaggio, interminabili, estenuanti, costretto, per timidezza o gentilezza, a chiacchierare con chiunque attaccasse bottone, sospeso nel tempo del viaggio, in due franto, con il senno rimasto ancora indietro a Palermo, il senso già smanioso di rivedere gli amici belgi sul posto, insomma smezzato in due come un mazzo di carte nuove che non vuole saperne di passare da una mano all’altra. Allora, come adesso, ero preso tra i due diversi fronti avversi: lasciarmi andare all’ineluttabile e guardare con fiducia al passato per ritrovare il senso quieto delle cose; ribellarmi ostinatamente contro il mondo intero e proiettarmi nel futuro col vigore della furia. No, il Belgio e il viaggio non sono fuori tema, non lo sono. I ricordi irrompono oltre gli argini che mi ero prefissato. Mio malgrado. L’approssimarsi di un evento luttuoso richiede un ‘richiamo rituale’ che ne consente l’elaborazione grazie anche a una simmetrica immersione nei ricordi luttuosi e meno luttuosi. L’andirivieni frenetico di ricordi fa parte integrante del rituale: che siano inconsapevolmente riportati alla luce in un singolo individuo durante un viaggio in treno o che siano il tramite attraverso cui i parenti ricreano legami di solidarietà nella stanza antistante la camera del morto, i ricordi svolgono un ruolo di primo piano nel processo rituale. Nel suo elogio a Halbwachs, Connerton ammette che «pur collocando il concetto di memoria collettiva al centro della sua ricerca, [Halbwachs] non vede che le immagini del passato, e della conoscenza del passato legata al ricordo, vengono trasmesse e alimentate da atti (più o meno rituali)»(Connerton 1999: 45). Più o meno rituali? Più? Oppure meno? La differenza non è irrilevante.
17.18. Mi sembra un’eternità, ma sono passati solo pochi minuti dall’ultima volta che ho dato un’occhiata all’orologio. Che sia anche questa un’azione rituale? Sicuramente dà un ritmo ai miei pensieri grazie allo sguardo che ricade continuamente verso l’orologio e, poi, si leva verso la luce che mi inonda dall’esterno. Il ritmo della vita. Dal finestrino le immagini scorrono a una velocità tale che la testa si apparenta a un mulino olandese battuto dal soffice vento mattutino. Maciniamo chilometri. Torno a Palermo. Lo zio Vanja soffre? Schizza nella mia mente la brevissima poesia di Éluard il cui senso mi fa sentire sospeso tra il tempo e lo spazio, il senso di finalità di un’esistenza e il valore ossimorico della misura: «Chilometri di secondi/Per ricercare la morte esatta» (Éluard 1974: 135). Mi lascio trasportare, mi lascio andare, lascio che sia. E sia pure. Caoticamente. Questo disorientamento non mi spiace; perfino mi rassicura, mi riempie di forza, mi dà sollievo. Così, mentre guardo dal finestrino e le immagini si catapultano su di me, una dopo l’altra, come frecce della natura coalizzatasi contro di me, mi piace pensare questo viaggio odierno proiettandomi nel passato, nella sicurezza del tempo trascorso che ognuno di noi pensa, ignaro, di potere ancora controllare sul momento. Il pensiero volto al passato talvolta rassicura. Tuttavia, la disponibilità del pensiero a pensare se stesso in un modo o nell’altro, ci fa credere padroni del nostro destino. Lui si pensa, ci pensa e noi ci crediamo: più che farci da schermo, l’intelletto raziocinante ci assorbe nell’identità che siamo convinti d’incarnare.
Guardo dal finestrino e sono trafitto dalle immagini scomposte, dalle linee irregolari, dalle forme colorate. Mi immagino bersaglio paziente. Come fosse una cura sciamanica, mi sento scorrere dentro e fuori con la frequenza delle immagini. A ogni piccola ferita – pur sempre – immaginaria, si dissolve un dolore, fa seguito una chiazza di colore. Mi ravvivo. Mi gratto. Elimino le scorie. Metto in allerta l’epidermide. Lo sguardo ha, nel frattempo, da parte sua, un gran da fare nel cercare di cogliere l’alterità, proposta sotto forma di immagini, del mondo esterno e di integrarla alle esigenze della mia epidermide. Saetta nella mia mente la conclusione di Sontag al suo saggio sulla fotografia: «Se potrà esserci un modo migliore per permettere al mondo reale di includere in sé quello delle immagini, esso richiederà un’ecologia non soltanto delle cose reali ma anche delle immagini stesse» (Sontag 1978: 156). Ecologia delle immagini e ecologia delle cose reali? Secondo quale equilibrio? Ho l’impressione che, in questo momento, le parti si siano capovolte e che sia il mondo delle immagini a dover includere quello reale, integrandolo e instaurandolo: in altri termini, penso a un’ecologia del divenire immagini del mondo che dà il via a un’ecologia del divenire mondo del mondo stesso.
17.25. Intanto, le immagini corrono sul finestrino, le frecce scoccano, i pensieri si scuotono, mi scuotono. Non è poco. Al sopraggiungere di un guizzo più audace, mi viene in mente, su due piedi, dal nulla più azzerato, un tratto del rituale, sottolineato da Nathan, da me sepolto nelle ceneri del tempo dei ricordi. Le ceneri, per quanto disseminate, lasciano il segno. Secondo Nathan, «si tratta di una caratteristica essenziale del rituale: creare uno schermo sul quale si proietta la presunta problematica del soggetto» (Nathan 1988: 8). Lui parla dei guayaki, se non ricordo male, e del loro rituale endocannibalico: i parenti stretti del morto non possono mangiare la carne del defunto e devono ‘accontentarsi’ di guardare lo svolgimento del pasto al quale possono invece prendere parte gli altri guayaki. Devono. Altrimenti non sarebbe un rituale: il dominio della regola lo regge, come è pure nel campo della parentela, della sessualità o della cura. Ai parenti stretti non rimane dunque che assistere con i loro occhi al rituale, a una sorta di proiezione sulla quale si susseguono immagini e la loro stessa proiezione di soggetti in lutto trasformati in osservatori parzialmente inattivi. Intanto, come le frecce, le immagini si inseguono nel treno proponendo pezzi di letture diversissime e rattoppate, appartenenti al mio passato di accanito lettore di testi vari, toccando i miei programmatici intenti d’oggi in cui semiotica e antropologia si stiracchiano reciprocamente. Morte di un parente caro? Che significato dargli? E, soprattutto, quale spazio configurativo mi assegna il lento morire di un parente inteso come processo?
Più che rassegnarmi passivamente al dispositivo rituale, subendolo, nel mio caso si tratta di riflettere attivamente sulle inserzioni e il funzionamento del mio essere soggetto-oggetto partecipe e osservatore: a volte più soggetto, a volte più oggetto; inevitabilmente partecipe, più spesso osservatore inconsapevole. E questo perché il soggetto (e l’osservatore), più che un’origine data per sé è, esso stesso, un processo di soggettivazione (e, simmetricamente, di oggettivazione). A questa asserzione – suppongo, nello sforzo di oggettivare azioni e sensazioni, snodo di arrivo relativamente involontario di un mio ragionare per correlazioni – qualcosa affiora nella mia mente, forse per riportare a bilancio l’essenziale e l’inessenziale. Sì, lo ricordo bene, adesso che ci penso meglio, Sacks lamenta la perdita di una zia: ne parla come del venir meno di «una presenza costante nella [sua] vita» (Sacks 2015: 21). Ne parla come «semplicemente zia Birdie, una componente essenziale della famiglia» (Sacks, ibidem). Cosa è veramente essenziale e cosa non lo è? Perché diamo per scontate le presenze costanti nella nostra vita, finché un evento irrompe nella continuità del vivere? La morte ce lo ricorda.
18.30. Mia moglie viene a prendermi alla stazione. Il treno mi sorprende con il suo arrivo dolce e inaspettato. Chi lo avrebbe detto? Io sono perso nel mio pensiero acre, poco mite. Sono stato fuori città per appena un paio di giorni. Sono ancora un’onda sotto l’influsso delle immagini sfreccianti. Non spiace la sensazione del ritorno a casa. No, non spiace: ha quasi un sapore sacro. Sono lontani i tempi di Tallinn, le partenze per lunghi mesi, l’alternarsi del caldo soffocante sulla pelle e del freddo appiccicato sul naso gocciolante. L’aria è piacevolmente tiepida oggi. I passeggeri si riversano intanto sul molo a frotte, si proiettano fuori dalle vetture come sciami d’api in cerca di polline assente nell’aria smorta del centro storico. Io esito un po’ finché dò un’occhiata dal finestrino alla folla in fermento. Poi, mi alzo di scatto, con un fremito, afferro la valigetta e mi lancio fuori anch’io come uno sputo sfatto sul molo schifato. Che mi è preso? Figurandomi spiaccicato per terra, con la prospettiva dal basso, ritrovo un barlume di speranza. Nell’esitazione, colgo pure, in una frazione di secondo, un qualche vago senso dell’esistere: gli intervalli hanno il loro valore per chi sa apprezzarli. Oscillano e l’essere ondeggia. So già, però, che le notizie non saranno buone. Lo zio Vanja è agli sgoccioli.
Vado verso mia moglie e, nel frattempo, rimando a mente – non potrei dire esattamente perché, probabilmente come atto scaramantico – una poesia di Montale: «Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me, con un terrore di ubriaco./Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto/alberi case colli per l’inganno consueto./Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto/tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto» (Montale 1984: 51). Delle due, mi basterebbe una immagine: o il miracolo di cogliere il vuoto del nulla o la ricomparsa ingannevole del mondo materiale. Insieme, nella sintassi proposta dal poeta, esse rappresentano la disillusione del vivere come ricerca dell’assoluto. Rimando dunque a mente la poesia e mi allontano dal mio vagone. La canticchio sommessamente. Mi destreggio tra la folla e mi chiedo sbigottito: c’è un qualche collegamento con lo schermo di cui parla Nathan? Lo schermo di cui parla Montale rappresenta l’illusione del vero e la fragile inconsistenza delle cose, in fondo vana e ingannevole; lo schermo di cui parla Nathan consentirebbe invece una presa di distanza da se stessi e la trasformazione del soggetto del fare in soggetto del vedere che, così, può sottoporsi al rituale. Tiro oltre per non riflettere sullo schermo immaginario e reale che si era creato – io mi ero creato – attraverso la finestra del treno, nel treno.
Fantasticavo? C’entra in qualche modo? Evito qualche passeggero, evito di pensarci ancora. Inciampo in una valigia. Scavalco un cagnolino. Salto il guinzaglio. Ho una fitta al polpaccio. Arresto un secondo il fluire dell’azione e tergiverso nelle mie risoluzioni: mi blocco fisicamente e proietto su uno schermo ideale il da farsi futuro. Imminente. Immagino di scrivere quello che sto vivendo. Come potrei veicolare il senso del morire di un parente che intacca il mio senso intimo del vivere? Come potrei separare l’essenziale dall’inessenziale? Dovrei? Non potrei certamente scrivere con la solita calma, godendomi lo sperimentalismo camuffato dalla leggerezza delle parole, i passaggi autoriflessivi che recuperano l’emergere del soggetto in transito. Quale schermo dovrei approntare per ‘mettere in esecuzione’ una breve etnografia di questo genere? Dovrei concepirla, alla maniera di T. S. Eliot, come una rapsodia temporale e musicale i cui i correlativi oggettivi mi aiuterebbero a dare espressione ai miei sentimenti mortificati, malamente formulati (Eliot 1920). In fondo, da un punto di vista contenutistico, potrebbe essere un inno alla vita, a vivere meglio, come d’altronde afferma uno dei fondatori della tanatologia: «Conoscere meglio la morte vuol dire ammettere la sua necessità per il rinnovamento della vita» (Thomas 1976: 567). “Ci vieni?” dice intanto mia moglie, prendendomi la mano, strappandomi alle mie elucubrazioni. E aggiunge: “io devo comunque passare a prendere i miei genitori e tu, se non vuoi vedere lo zio, puoi aspettarmi giù qualche minuto”. Non ho indugi, non esito, nonostante voglia tenermi in disparte, essere invisibile a me stesso e agli altri. È uno dei miei – solo miei? – modi di reagire di fronte alla morte: rendermi invisibile, annullarmi alla presenza degli altri, rinchiudermi nel dolore, accusare le fitte in solitudine. Eppure i rituali, soprattutto quelli relativi alla morte, richiedono la partecipazione collettiva. Una delle finalità consiste proprio nell’accompagnare i parenti prossimi del morto: dargli ‘socialità’ e farlo sentire meno solo, nonostante la sua riluttanza o i suoi rifiuti e incomprensioni. Alcuni resistono e preferirebbero l’amarezza della solitudine. Scrive infatti Noll: «Da quando si è sparsa la voce che ho un cancro, molti conoscenti mi scrivono e mi telefonano, vogliono vedermi ancora una volta da vivo, e penso non pensino affatto che forse io non voglia vederli; partono dal presupposto convenzionale che colui che è prossimo a morire voglia rivedere il maggior numero possibile di conoscenti. Sono ingiusto nei confronti di questo gesto, che ha un significato preciso per chi lo compie» (Noll 1985: 178).
19.15. Parcheggiamo quasi fin sotto casa. Sembra un miracolo. Due passi appena e siamo davanti il portone. Saliamo in ascensore, rinuncio alla mia solita rampa di scala a passo veloce. Perché? Mi aggiusto però il codino e metto le mani in tasca. Tiro indietro la lingua, ma non so nemmeno perché. È un modo per darmi un tono di fronte all’inatteso? Tocco la fibbia della mia cintura e faccio il gesto di sintonizzarmi come se fossi una radio gracchiante. Non ricordo più chi viene ad aprire la porta. È importante? Entriamo in casa. Ci dirigono verso la cucina. C’è qualche parente. Li conosco. Si parla del più e del meno. Si parla mestamente, ma si parla. Direi: si conversa. Cos’altro si potrebbe fare? Stare in silenzio. Lo preferirei, ma non succede mai. O quasi. Ricordo quella volta che sono andato, con un gruppo di amici, a vedere Silvia per rincuorarla per la morte della sorella. Ho dato una sbirciatina appena alla sorella nella bara e mi sono andato a sedere, nell’altra stanza, accanto a Silvia. Lei mi ha offerto qualcosa da mangiare e da bere e io ho rifiutato. Io l’ho messa al corrente del più e del meno nella mia vita finché, non so come ci sono arrivato, mi sono messo a raccontarle un episodio divertente. Siamo scoppiati tutti a ridere. Lei piangeva e rideva. Come è mai possibile che questa miscela di risa e pianto abbia luogo? Perché, in fondo, una funzione del rituale è proprio questa: mescolare ragioni e sentimenti, sensi e controsensi, al fine di cominciare già, con il morto ancora in casa, l’elaborazione del lutto, ricorrendo persino all’amalgama ossimorico in alcuni casi critici. In ascensore, mia moglie mi aveva detto: “non c’era motivo di tenerlo in ospedale, ormai è meglio che stia con i suoi cari”. Per morire in pace? Si può veramente morire in pace? La morte pacifica non è un ossimoro? Per prendere le distanze dalla situazione avevo cercato frettolosamente, nella mia mente, la traduzione in francese di “essere agli sgoccioli”: être au bout du rouleau.
19.21. Come mi viene in mente una cosa simile in tali frangenti? Traducevo a mente mentre stavo per rivedere zio Vanja sul letto di morte. È fuori contesto. Sono fuori di testa. Prendere le distanze può però servire a mettere meglio a fuoco su ciò che succede: su me stesso e sulla situazione. Può inoltre servire, alternando uno sguardo dall’interno e dall’esterno, da vicino e da lontano, a comprendere e conoscere meglio. Come ricorda Lévi-Strauss, «l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante»(Lévi-Strauss 1988: 214). Nel mio caso, sospetto che abbia un’altra funzione: equivale a una fuga. Se sono in rotta, allora traduco nella mia testa. E allora riprendo: letteralmente, l’espressione francese vuol dire che si è alla fine del rotolo. In italiano, invece, è l’acqua che viene meno, sempre meno, finché diventa uno sgocciolare minuscolo: come quando si versa l’acqua da una bottiglia e il flusso si trasforma lentamente in goccia singola, striminzita, pronta a svanire. Si può dire la fine in tanti modi, in tante lingue, e ognuna manifesta una sua peculiarità talvolta straniante. La catena di associazioni non si arresta. Penso: come si dirà in inglese? Non mi veniva e non mi importava veramente, nonostante continuassi a rovistare nei meandri del cervello. Non mi dava retta, lui, non aveva voglia di ascoltarmi, lui. È noto: il cuore batte da sé, senza nessun bisogno di controllo da parte nostra. Ci pensa il parasimpatico, se non sbaglio. Ma non si dice abbastanza che anche il cervello ha la sua autonomia e, talvolta, prende addirittura il controllo tirannico dei pensieri. Io, di fatto, cercavo di darmi un compito, fuori luogo, fuori contesto, pur di non pensare al peggio e alle circostanze. Il morire sollecita evasioni. E forse il cervello, a modo suo, aiutava in questo, a ripensarci. Anche i luoghi aiutavano spostando gli accenti del dire: non sempre, infatti, l’ascensore è il luogo della comunicazione in cui si instaura la funzione fàtica; non sempre la cucina è l’essenza della fabbricazione del gusto.
19.22. A un tratto, proprio in cucina, mentre si parla di parenti lontani e di morti recenti, tutto stretto in un angolo, mi viene in mente come si potrebbe dire in inglese l’espressione: I am running out of time. Letteralmente, si potrebbe tradurre con ‘il tempo corre fino a esaurirsi e lasciarmi senza’. Ma non vuol certamente dire che il soggetto muore: significa che non si ha più tempo, il tempo stringe. Stringe come una fitta? ‘Essere agli sgoccioli’ e ‘être au bout du rouleau’, per quanto diversa sia la materia a cui fanno riferimento (l’acqua e il rotolo), ricorrono entrambi all’idea di quantità: morire, secondo queste espressioni culturalizzate, significa esaurire la quantità di vitalità di cui si dispone. In realtà, secondo un’altra concezione, si potrebbe obiettare che la morte è già inscritta, fin dalla nascita, nello scorrere del tempo della vita: moriamo giorno dopo giorno, pur essendone talvolta inconsapevoli. La consapevolezza del morire, nello scorrere della vita, non è comunque acquisizione comune dell’individuo che, in generale, tende a dimenticarlo e a pensare di essere invulnerabile ed eterno. Le immagini, i testi, le esperienze altrui aiutano: aiutano a ricordarci la nostra vulnerabile fattura.
19.23. Quali immagini, più particolarmente, mi ricordano la mia vulnerabilità e, insieme, il senso del vivere? Due immagini sono, per me, rappresentative del senso della vita (e della vitalità) e del senso del finire (sovente assimilato alla morte consapevole). Ambedue si trovano nel testo di Primo Levi Se questo è un uomo: la prima ha a che vedere con il ‘finire’ e i suoi tratti connotatori; la seconda ha a che fare con l’iteratività del fare e i significati usualmente a esso associati. Incominciamo col finire. All’approssimarsi dei nemici, i tedeschi abbandonano il campo in cui si trovava Levi e i prigionieri devono organizzarsi per potere tirare avanti sino all’effettivo arrivo dei russi. Si potrebbe concepire, con uno sguardo da lontano, questo momento come una vera e propria liberazione in cui la salvezza, partiti i tedeschi, è indubbia e portatrice di gioia irrefrenabile. In realtà, i prigionieri devono procurarsi il cibo autonomamente, tenere accesa la stufa per non morire di freddo, proteggersi dal dilagare delle malattie infettive. Tutte cose non facili, vista la situazione in cui versavano. In questa atmosfera d’inenarrabile incertezza, si potrebbe dire liminare, si inserisce il rumore assordante dei veicoli in fuga e, soprattutto, dei cingoli dei carri che Levi descrive con cura. A un certo punto, però, dopo qualche giorno il rimbombo incessante si arresta e Levi scrive: «Avrei preferito vedere ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi, appiattiti chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arrestato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza totale dei muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto» (Levi 1958: 144). Questa immagine del finire (sul finire), in cui una prospettiva e il suo opposto si annullano e il ‘compimento’ di una vita è associato al venir meno del corpo, alla cessazione del movimento (per quanto proveniente soprattutto dai mezzi della guerra), mi sorprende, poiché lontano da qualsiasi mia esperienza esistenziale. E mi sorprende ancor di più visto che tutto il libro di Levi è, per contrasto, incentrato sulla narrazione della resistenza del soggetto narrante all’infiltrarsi subdolo della morte. Questa immagine in cui il movimento e il rumore cessano e Levi sembra rassegnato a lasciarsi andare alla morte rappresenta invece un andamento contrario rispetto a quello del libro: una sconfitta, benché temporanea, un emergere della rassegnazione di fronte agli eventi che impongono la morte. Levi, in questa immagine, non resiste più, è pronto a lasciarsi andare agli eventi nefasti, non lotta più: fortunatamente per lui, come a voler ribadire l’importanza della socialità in questi frangenti, un amico lo richiama al lavoro e alla vita. L’altra immagine che mi ‘punge’, nel testo di Levi, riguarda invece la vita e le diverse dimensioni connesse alla vitalità (del fare). Nel lager si insisteva, sotto varie forme, sull’igiene e sul suo valore; in realtà, «lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino immondo è praticamente inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come sintomo residuo di vitalità, e necessario come strumento di sopravvivenza morale» (Levi 1958: 35). Cosa mi colpisce, più particolarmente, in questa immagine? La vita non è associata alla nascita – o, come succede sovente, a un movimento incoativo che ne rappresenta simbolicamente l’essenza – ma all’iteratività dell’azione che afferma il suo valore in sé, persino contro l’evidenza (la sporcizia e l’inutilità del lavarsi). Vita e (valore dell’)azione si sostengono reciprocamente, perlomeno nella nostra cultura. A queste immagini colte dovrei – non senza un minimo di vergogna che l’accompagna quando mi viene in mente – associare quella sicuramente meno colta, ma non certo meno efficace che appartiene al mio ambito di esperienza personale.
In occasione della visita che ho reso anni fa ad alcuni parenti per la veglia di un loro caro, ho visto con incredulità entrare dalla porta un mio cugino con un vassoio enorme di arancine, pizzette e affini. Si era preso la briga di rendere meno sofferta la veglia di tutti. Com’è ‘ovvio’ che si faccia in questi casi: gli altri ci sono per alleviare il dolore della famiglia e deviarlo verso altre direzioni, meno sofferte. Entrando, mio cugino ha semplicemente detto: “dovete mangiare qualcosa, non potete continuare così, digiunando”. Per ricordare i morti, ho pensato allora, è necessario essere in forze; esserlo significa affermare il valore del cibo e della vita che l’accompagna. I guayaki in lutto, per mettersi in forze, devono assumere il ruolo di attanti osservatori di altri guayaki che mangiano i loro cari. Noi, dalle mie parti, facciamo tutti quanti comunella attorno a innumerevoli, infinite, enormi pizzette e arancine annullando, così, lo scarto tra osservatori e osservati, reinstaurando allo stesso tempo il ruolo delle immagini attraverso le storie del passato, le storie di morti recenti e lontane. Dalle mie parti, più è abbondante il cibo, migliore è il senso di socialità che, paradossalmente, accompagna la dipartita del defunto. Ovviamente, per quanto importante sia nel processo rituale il pasto e la sua ostentazione in termini di quantità, il senso della misura dipende dagli schemi culturali specifici. Augé, attingendo ai suoi ricordi personali, scrive che «la sepoltura finiva sempre con un pasto. Questo pasto non era, strettamente parlando, né pantagruelico né gastronomico, ma era comunque un vero pasto in cui si beveva e si discuteva. In un certo senso, posso dire che conservo un buon ricordo della sepoltura delle persone alle quali tenevo perché era l’occasione per ‘riunirsi in famiglia’» (Augé 1995: 74-75). Nelle differenze e nelle similitudini tra le società, queste sono comunque le ragioni che dovrebbero spingerci a studiare la morte, forse oltre la stessa tanatologia, come modo per ridefinire il concetto stesso di cultura e i modi di affrontare la vita: «ogni società vorrebbe essere immortale e ciò che chiamiamo cultura non è altro che un insieme organizzato di credenze e riti aventi lo scopo di lottare contro il potere di dissoluzione della morte individuale e collettiva» (Thomas 2006: 16).
19.27. E intanto le immagini scorrono nella mia mente, prendono il posto di quelle del treno, della poesia, della mia vita personale, cercando di ancorarsi sulle mie letture di antropologo, innestandole su quelle dei guayaki, dei dinka, degli americani. Ma ho l’impressione di non essere io a richiamarle alla mente: si muovono da sé, hanno una loro autonomia, prendono campo. Questa sequela di immagini che si mette in moto da sé, producendo per di più un vortice di traduzioni dall’una all’altra, non è altro che – così almeno lo percepisco – un espediente per distogliere la mia dimensione emotiva grazie all’attivazione della dimensione puramente cognitiva. È effettivamente così? Me ne rendo conto, proprio adesso, mentre mi appoggio al muro della cucina, con le braccia conserte e osservo la circolazione della chiacchiera usuale, in questi casi estremi, durante l’attesa. Perché di questo si tratta: di un’attesa. Si tratta dell’attesa che un individuo muoia lentamente, gli vengano meno le forze, arrivi alla fine del rotolo e vada oltre. Non c’è altro da fare, le cure non servono più a niente. In Dell’imperfezione, Greimas aveva considerato l’attesa una sorta di motore esistenziale, una molla narrativa che anticipa l’azione a venire e, in qualche modo, l’alimenta o, addirittura, si costituisce dimensione autonoma dell’esperire, «oggetto di presa estetica per sé», indipendente dalla programmazione del fare (Greimas 1988: 31). Ma non ricordo bene se aveva fatto riferimento alla morte, all’attesa del moribondo e dei parenti. Come si configura questa attesa per i parenti? Che vuole dire esattamente aspettare di morire per il moribondo? Non posso saperlo adesso. Dovrei essere in punto di morte: sul punto di andare oltre. E qui, in questa breve etnografia, non ho fatto altro che tradurre i punti in linee, i climax in spazi più estesi temporalmente. Io posso soltanto essere a conoscenza dell’attesa del parente del moribondo: standomene al di qua. Tutto qui. Non ne ho dimestichezza: dell’andare oltre. Non vorrei averne comunque. Ho due figli in giovanissima età. Devono crescere. Voglio vederli crescere. E penso tutto questo e altro ancora mentre in cucina si parla del più e del meno, mescolando il più e il meno con i modi sofferti e meno sofferti di morire, i ricordi dei defunti vicini e lontani. Che si fa allora? Ci dicono di aspettare ancora. Stanno lavando lo zio Vanja. E noi aspettiamo mentre in cucina si ripassano ancora le morti recenti e meno recenti, le sofferenze e i dolori propri e altrui, le medicine efficaci e meno efficaci. In questo contesto, un lampo mi ottenebra la vista per alcuni secondi. Lascio cadere le braccia, ne approfitto per rimandare il mio spruzzo di ‘io’ all’interno di me stesso, nel più profondo di me stesso, per seppellirlo. Mi passa per la testa quel testo formidabile, Final Negotiations, in cui Ellis racconta la sua storia d’amore e l’intreccio di vita e morte che comporta la malattia del proprio compagno. Ciò che, tra le altre cose, Ellis mette in rilievo nel suo libro è che l’idea del ‘finire’, nella sua più ampia configurazione, è complessa: richiede negoziazioni che non sono mai veramente finali, non finiscono mai proprio perché, nonostante i libri ne traspongono in qualche modo alcune finalità in un testo scritto, «le memorie dei dettagli inespressi e i percorsi di storie alternative tuttavia permangono» (Ellis 1995: 337).
È ora. Era ora. Qualcuno ci dice che possiamo entrare nella stanza dello zio Vanja. Hanno finito di lavarlo. È pronto per riceverci, anche se, non potendo parlare, suppongo che potremo soltanto limitarci a stare in silenzio nella stanza. Percorro lentamente il corridoio, prendo tempo e mi lascio scavalcare da mia moglie. Arrivo nei pressi della stanza e decido di rimanere sulla soglia, prendo posizione, mi fingo a mio agio: in questo momento, non sono né da una parte né dall’altra. Sono sulla soglia fisicamente, mentalmente e simbolicamente. Mia moglie si dirige a passi lenti verso lo zio Vanja. Gli prende la mano. Lui la stringe e dice qualcosa che non capisco bene. Più che altro farfuglia qualcosa. Una delle sue figlie traduce per noi, volgendosi fisicamente verso mia moglie: “è contento di vederti, ti stringe la mano, quale onore”. Perché dice questo esattamente? Io, da parte mia, sospetto che sia l’ultima volta che vedo zio Vanja in vita. Per non pensarci mi metto a cercare, in un battibaleno, di tradurre intralinguisticamente le parole della figlia: le sue parole in italiano con altre parole in italiano che ne traspongono il senso e lo definiscono. Cosa avrà voluto dire, infatti, con “quale onore”? Mi metto allora a pensare per differenze e per contesti d’uso variati, figurandomi altre visite, giungendo a una conclusione: “lo zio Vanja non ha la forza di salutare tutti e si riserva di farlo veramente, risparmiando le energie, solo con quelli a cui vuol significare il proprio amore”. È pure vero però che io, sulla soglia della porta, ho avuto l’impressione di aver sentito solo un rantolo sommesso e prolungato. Nient’altro. Per di più, andandomene, mi rimbomba nella testa l’immagine dello zio Vanja su un fianco, con la benda su un occhio, tremante, che si lamenta per il dolore. Non era certamente questa l’immagine ultima che volevo avere dello zio Vanja da conservare nel deposito affettivo delle mie foto mentali. Così, amareggiato, saluto e vado via, mentre mia moglie si attarda qualche minuto ancora con i parenti.
20.10. Non l’aspetto. Questa volta, diversamente dall’andata, mi precipito per le scale, le prendo a quattro a quattro, con grandi balzi e slanci in avanti. Non esito. Non penso a niente, finché, nell’ultima rampa, lo scatto si smorza e s’insinua nella mia mente Heath e il suo Modi di morire, la sua discussione se sia meglio morire improvvisamente, senza colpo ferire, oppure se sia meglio andarsene «avendo la possibilità di lasciare in ordine le proprie cose, contribuire a pianificare il proprio funerale, condividere e rivivere i ricordi, dire addio, perdonare ed essere perdonati e dire le cose che andrebbero dette» (Heath 2008: 33). Heath, diversamente dal figlio piccolo, sembra propendere per questa seconda ipotesi. Anch’io, direi, se la sofferenza non impedisce il piacere della pianificazione e se la comunicazione con i propri cari non è resa impossibile dalla malattia. Altrimenti, preferirei decisamente morire di botto e non pensarci più. Mi piace l’idea che la morte possa essere ‘ammansita’ attraverso la pianificazione. Lo ammetto. In fondo, le forme più ritualizzate del morire hanno proprio questa funzione: decretare la vittoria dell’umano sull’ineluttabilità della morte. Tra i dinka, per esempio, il Maestro d’Arpione, appartenente al clan sacerdotale, al compimento della sua vita decide di morire: sceglie quindi il luogo e il tempo. Viene posto nella tomba e, per sua volontà, viene soffocato. Lienhardt spiega che questo atto «è strettamente collegato a una vasta serie di associazioni che hanno tutte a che vedere con il trionfo sociale sulla morte e sui fattori che la producono nella terra dei dinka» (Lienhardt 1961: 317). Quello che in Occidente potrebbe essere considerato l’assassinio, abominevole e a sangue freddo, di un vecchio senza forze, tra i dinka è invece un atto rituale che consente di trasmettere, ritualmente, il soffio vitale dal maestro al discepolo. La morte naturale viene, in questo modo, soggiogata e respinta grazie all’atto di volontà di un singolo individuo.
23.59. È quasi mezzanotte. Mi metto al computer. Mi metto a scrivere. So già che passerò la notte in bianco. Tanto vale impegnare in un senso i miei pensieri, colorarli di note scritte. Decido di trasformare il vissuto in testo, di tradurre le mie sensazioni in logiche possibili della narrazione etnografica. Scrivo. Faccio soltanto qualche pausa. Prendo un caffè dopo l’altro. Non sono sicuro di andare nella giusta direzione. Scrivo comunque. Rileggo e scrivo. E così di seguito.
9.00 del mattino seguente. Il sole è già alto. La notte si è dileguata come per magia. Quello che leggete, cari lettori, è il risultato di una notte che ho trascorso insonne a trascrivere sensazioni e idee, pezzi di pannelli antropologici e semiotici. Ho intenzionalmente annegato l’analisi semiotica e antropologica nella narrazione etnografica allo scopo di rivelare a me stesso, nonché ai potenziali lettori, alcuni passaggi ritualizzati (spesso trascurati nelle etnografie più esotizzanti) del vivere e del morire al quotidiano. L’intento? Rivelare, o almeno sintetizzare meno obliquamente, alcuni presupposti teorici posti, valutati e criticati nell’arco della mia narrazione. Cosa ho inteso fare, più particolarmente, trascrivendo frammenti di un evento che riguarda la mia sfera di vita vissuta in prima persona? Si potrebbe dire che ho narrato in chiave autoetnografica al fine di sottoporre a catarsi un momento di mia (e altrui) sofferenza. In altri termini, avrei narrato per purificare il mio essere persona che ha vissuto e vive un momento di grande tensione. Ne convengo: i rituali e i micro-rituali si realizzano nell’intero fluire del corso di vita e sono presenti persino in porzioni di tempo ridotte e in apparenza meno significative. Ma c’è altro. L’alleggerimento della sofferenza grazie alla scrittura è andato di pari passo con la riflessione sugli incastri esistenti tra la dimensione cognitiva ed emotiva, nonché sul ruolo dell’immagine e della trasformazione ritualizzata di un individuo in soggetto e/o oggetto. Detto altrimenti, un breve viaggio in treno è stato l’occasione, nonché il punto di partenza in qualche modo arbitrario, per riflettere su alcuni micro-rituali, d’ordine cognitivo e somatico insieme, che riguardano il ‘periodo di passaggio’ da uno stato all’altro: dal morire alla morte. Il viaggio in treno è stato visto come un vero e proprio incipit che ha dato il via alla meditazione su alcuni concetti – tra i quali, soprattutto, quello di micro-rituale, di immagine-immaginazione e di oggettivazione-soggettivazione – mescolandoli, risituandoli all’interno della narrazione etnografica che ha preso luogo nell’arco di poche ore. Per quanto sperimentale, il mio tentativo ha cercato in maniera diretta di sottrarre al “soggetto osservatore” il suo ruolo di fondamento originario e di riproporlo invece, più efficacemente, come funzione di interazioni e contesti d’uso con se stesso, con i propri flussi di pensiero e con gli altri individui incontrati nel breve lasso di tempo in cui si annuncia il morire di un parente caro.
In breve, si è trattato di una breve etnografia in cui le diverse dimensioni sensoriali e cognitive del soggetto osservatore sono state sottoposte alla lente dell’antropologia e della semiotica più che altro nel fluire della dimensione temporale e non come risultato puntuale. In questo, ho seguito in toto l’ipotesi di Rosaldo secondo cui il rituale non è un evento puntuale, ma ‘spazia’ nel tempo, precedendo e seguendo il climax riguardante l’atto rituale. Ho ammiccato, inoltre, alle tecniche di scrittura letteraria, con particolare riguardo al dispositivo riguardante i correlativi oggettivi formulato da T. S. Eliot. Questa tecnica di scrittura e di pensiero mi è stata d’aiuto al fine di mettere a fuoco sulla nozione di identità considerata, da me, più che una cristallizzazione univoca e originaria dell’essere, una modulazione specifica del modo di «afferrare i punti di inserzione, i modi di funzionamento e le dipendenze del soggetto» tra altri soggetti e spazi consentiti dal reale e dall’immaginario (Foucault 1971: 20). Questa strategia di scrittura e di pensiero ha consentito di mettere in rilievo il va e vieni stabilitosi tra l’osservazione-partecipante in fase continua e il senso della vita inteso come flusso e divenire le cui frontiere si rivelano più labili di quel che si crede comunemente. Per semplificare, forse un po’ troppo all’ingrosso, si potrebbe porre la questione nel modo seguente: più che sulla morte, ho cercato di riflettere sul morire come processo volatile visto nella prospettiva di un parente; più che sul rituale già dato in sé, ho riflettuto sul suo darsi come coacervo inestricabile di cognizione, emozione e sensorialità passato al setaccio degli schermi – immaginari e reali – posti in essere nel processo stesso. Dimenticavo. Lo zio Vanja è morto stanotte alle tre in punto. Il processo si è brutalmente arrestato. Non credo che andrò al suo funerale. Non ho voglia di vedere la sua bara scendere sotto terra e restarci per sempre in attesa che il suo corpo si degradi lentamente. L’atto finale e l’attesa preliminare dovranno fare a meno di me. Andrò a vedere un film, andrò al cinema. Stasera e domani sera. Per ricordare lo zio Vanja come voglio. Per frapporre, fra la sua immagine in un letto di morte e l’immagine che avrei della bara sul freddo suolo, uno schermo altro: quello del cinema.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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