Nel lembo di mare che si estende fra la costa occidentale della Sicilia e le Egadi, sporge appena dalle acque, circondata da piccole consorelle, l’isola di San Pantaleo, da tempo riappropriatasi del suo antico nome: Motya.
È qui, in questo grumo di terra (650.000 mq.), circondato da acque particolarmente salmastre nelle quali si scorge, fra le alghe, una strada che porta alla terraferma, è qui che, nei secoli, si sono avvicendate civiltà le più diverse, dai Fenici fin dall’VIII sec. a.C, ai Punici e Cartaginesi, agli Elimi, i Greci, i Romani, i Bizantini, gli Arabi e, infine, per secoli, il silenzio operoso di monaci e di contadini.
Il risveglio avviene con l’arrivo in Sicilia di illuminati imprenditori inglesi, che scoprono il fascino di Motya e i suoi succosi vigneti. Infatti gli Ingham-Whitaker sono produttori, come altri loro compatrioti, dello squisito “marsala”, che le uve di questa zona della Sicilia contribuiscono a creare.
È Joseph Isaac Spadafora Whitaker che acquista, agli inizi del ‘900, l’isola e ne fa il luogo preferito di avvistamento degli uccelli, di cui è un appassionato studioso, ma è anche lui, Pip, come viene chiamato in famiglia, a ridar vita agli scavi che, nei primi decenni dell’Ottocento, il barone Rosario Alagna, proprietario dell’isola, aveva iniziato, e Heinrich Schliemann aveva solo immaginato, in una fugace visita a Motya. A Phoenician Colony in Sicily, Londra 1921, raccoglie la testimonianza dei nuovi scavi intrapresi da Whitaker, anche con la partecipazione dell’archeologo Thomas Ashby della Britisch School at Rome. Da quel momento è un susseguirsi, sia pur con alternanze temporali, di interventi di scavo e di ricerche.
Pirro Marconi, Sabatino Moscati, Benedickt Isserlin, Vincenzo Tusa, le Università di Roma e di Palermo e la Sovrintendenza del Mare con Sebastiano Tusa, si avvicendano sull’isola e nel mare circostante, per svelarne le complesse stratificazioni di civiltà. Dal 1964 gli scavi riprendono con rinnovato impegno per opera di Antonia Ciasca, dell’Università La Sapienza di Roma, e nel 2002 il testimone passa a Lorenzo Nigro, oggi ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Medio Oriente Antico e di Archeologia Fenicio-Punica alla Sapienza di Roma. In questo lungo succedersi di interventi Motya rivela quanto già si poteva supporre del suo ricco e multiforme passato. Il ritrovamento poi, nel 1979, della splendida statua dell’Efebo (o Auriga), aveva confermato l’importanza del sito. Ora le campagne di scavo intense e fruttuose hanno consentito di datare con piena sicurezza i luoghi più significativi dell’isola: le mura, la statua del dio Ba’al ricollocata al centro delle acque del mistico Kothon, dove si riflettono le stelle.
Da questo groviglio di pietre, di alberi (il melograno importato dalla madre patria fenicia con 613 chicchi nel suo frutto), di volute dove si scorge la sezione del Nautilus, «un mollusco che vive in una conchiglia che adotta la forma di quella che fu chiamata la “spira mirabilis”, la spirale logaritmica, che si invortica secondo la proporzione della sezione aurea», da un colloquio continuo con le orme di popoli lontani, ma già evolutissimi, non poteva non scaturire una fantastica storia, fra realtà e immaginazione.
E infatti Lorenzo Nigro, dopo tante campagne di scavi, affascinato dai luoghi, quasi avvolto da una atmosfera onirica, immagina nel suo I Geni di Mozia (Il Vomere edizioni, 2020) di incontrare, durante una permanenza nell’isola, personaggi del passato, che lo spingono a ritrovare un tesoro, quello dei Borbone, sottratto da Garibaldi durante la spedizione dei Mille, e nascosto nell’isola, grazie alla complicità della camicia rossa, il colonnello Giuseppe Lipari Cascio. Il tema di questa avventurosa vicenda consente al romanzo di spaziare dal remoto passato a quello più recente e fino all’oggi.
Infatti la prospettiva ravvicinata, il 1860, che colloca il bottino aureo nascosto proprio nell’isola di Mozia, permette allo scrittore di focalizzare il suo sguardo sulla famiglia Whitaker, proprietaria del luogo, su personaggi storici, ormai scomparsi, e nello stesso tempo percorrere l’isola da una parte all’altra illustrando siti, scoperte, ritrovamenti, fino all’ultima campagna di scavi.
Dopo un iniziale stupore e una inevitabile incredulità, di fronte all’apparizione di quelli che l’autore chiama jinni, geni, sorta di fantasmi del passato, si entra nel racconto e si viene avvinti dalla suggestione della storia, suggestione che non abbandona più il lettore e, come avviene in ogni “giallo” che si rispetti, lo accompagna sino alla fine del libro. Ho usato la parola “giallo”, solo perché nella storia immaginata da Nigro, ci sono misteri, cadaveri che riemergono dai pozzi all’interno degli scavi, ma gli indizi che sembrano portare al ritrovamento del tesoro conducono il lettore in luoghi remoti, come il monastero Aghion Oros sul Monte Athos e la sua famosa biblioteca e i solitari monaci che la custodiscono, o la Villa Malfitano a Palermo, affascinante scrigno di una Belle Epoque ormai scomparsa, insomma non di un “giallo” si tratta, ma di un genere unico che unisce suspense e storia, immaginazione e autentica realtà. E allora i jinni sono Vincenzo Tusa, l’archeologo che a Mozia ha fruttuosamente operato, Schliemann, lo stesso Garibaldi, Pip Whitaker e sua figlia Delia, e ultima, ma non ultima nel cuore dello scrittore, la sua Maestra, Antonia Ciasca, che sarà anche quella che risolve il mistero del tesoro.
Insieme a queste figure accompagnano il protagonista- scrittore nella ricerca, i suoi collaboratori, una piccola folla di studenti scavatori, ma anche esperte ricercatrici, la direttrice del Museo Whitaker, la bio-archeologa che legge il DNA degli uomini del passato, la responsabile della Fondazione Whitaker a Palermo, custode del gioiello della villa Malfitano. Tutti contribuiranno a comporre il mosaico di indizi che deve portare alla luce il tesoro. E a tutti, specialmente ai più giovani, il tesoro verrà consegnato con le parole di Antonia Ciasca.
Ma Nigro è anche, anzi è soprattutto, un archeologo, e la ricerca del tesoro si interseca con i luoghi delle altre ricerche, quelle che lo portano di giorno e di notte al Cappiddazzu, al Kothon, alle mura e alle postierle, al mitico Tofet dove venivano seppelliti i bambini, o meglio le loro ceneri in piccole urne, ai pozzi ricoperti di terra, dovunque ci sia da usare quella piccozzina che non lo abbandona mai. A ogni incontro con i suoi studenti c’è una sorpresa, un ritrovamento prezioso, anche se si tratta solo di un frammento di ceramica, ma tutto, in questa grande famiglia festosa si ricompone nella certezza di cooperare a un progetto unico e di grande valore.
A ricompensare le fatiche di giornate così intense, c’è il rito dei pasti, preparati dalle mani laboriose delle donne siciliane che abitano l’isola tutto l’anno. Qui erompe tutta la calda simpatia che Nigro ha nutrito e nutre, lui romano, per la Sicilia, sua seconda patria, dopo aver lasciato l’amatissima Gerico. Le prelibatezze della cucina siciliana sono tutte presenti sulle mense della casina Whitaker, dai primi piatti ai dolci, anche quelle più semplici, come il “pane cunsato”, e testimoniano un’attenzione e un sentire autentico verso una civiltà altra, di cui, ogni tanto, affiorano anche modi di dire e parole dialettali.
Lorenzo Nigro ha trovato in questo piccolo spicchio di terra non solo i resti di antiche civiltà, ma anche il persistere di culture ancestrali, quella della vite, ad esempio, tanto da sperare, con lo studio di pochi chicchi d’uva, rinvenuti nelle antiche anfore, di ridar vita ai vitigni autoctoni, ristabilendo così un continuum fra i remoti abitanti venuti dal mare e i contadini che ancora oggi vivono a Mozia. Questo aspetto della sua narrazione è la testimonianza più certa che gli studi archeologici possono essere non solo scienza del passato, ma anche viatico per il presente e il futuro.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
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Antonietta Sammartano, ha insegnato nei Licei classici lettere italiane e latine; diarista d’onore al Premio Saverio Tutino Pieve Santo Stefano con Campo San Polo 2024 – Ricordi 1943-45, presidente onorario di U.NI.MA Italia (Union Internationale de la Marionnette), si occupa come ricercatrice di Teatro di figura. Ha redatto le voci relative all’Italia per l’Enciclopedia Mondiale della Marionetta edita da L’Entretemps-Montpellier-Parigi.
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