il centro in periferia
di Nicolò Atzori
«Diciamo spesso museo per dire cosa morta. Lo diciamo soprattutto nella vita quotidiana, e meno in quella del riflettere sulla vita, e cioè sugli studi, che si alimentano per tanta parte di cose che sembrano morte alla memoria immediata ed alla coscienza distratta, ma che invece agiscono ancora a livelli profondi, se è vero che tutto quello che gli uomini ed il mondo sono stati ci fa essere quello che siamo e progettare più o meno consapevolmente quello che il mondo sarà» (Cirese, 1977: 37).
Così esordiva Alberto Mario Cirese in un intervento del 1967 intitolato “Le operazioni museografiche come metalinguaggio”, relazione di apertura del seminario di studi “Museografia e folklore”, tenutosi a Palermo. Il grande antropologo rifletteva soprattutto sui musei “folklorici”, quelli che oggi definiremmo, precisando il loro ambito scientifico, “etnografici”, e da cui non mi sembra improprio far partire questo ragionamento riguardante sia la “cifra” che la “proiezione” degli istituti museali tutti. Nel merito della museografia etnoantropologica italiana è utile rifarsi a quanto pronunciato, diversi anni dopo, da Pietro Clemente, che, limando una certa radicalità rispetto all’estetica, alla forma e alla funzione dei contenuti museali [1], osservò come la museografia dovesse concentrarsi sulla traduzione dell’esperienza antropologica «nei compositi linguaggi del museo: luogo di arte applicata alla comunicazione di massa, guidato da argomenti emersi dalla ricerca scientifica» (Clemente 1989: 97). Egli sembrava così introdurre, nel dibattito museografico nazionale, un atteggiamento interpretativo più vigile e profondo, a ben vedere figlio del suo tempo.
Come osserva Vito Lattanzi, infatti, è a partire dagli anni Ottanta del Novecento che il museo comincia ad essere osservato e percepito come «uno speciale spazio di iscrizione e di interazione di culture, di relazioni sociali, di storie umane e istituzionali», ed è forse in questo frangente storico che si colloca il terminus ante quem del “nuovo corso” in cui i musei fanno ingresso, come ricordato dall’antropologo. Di tale nuova fase egli riconosce fra le sue forme essenziali “l’eccesso di passato”, ovvero «una tendenza all’accumulo e alla conservazione di memoria, quasi una patologia, che tuttavia svolge dal punto di vista sociale una funzione ordinatrice e rassicurante, poiché aiuta a rendere il presente, vale a dire le forme sensibili della nostra società, più accettabili e maggiormente intellegibili» (Vattimo 1985 in Lattanzi 2021: 145). Nella medesima opera, Musei e antropologia. Storia, esperienze, prospettive, Lattanzi ricorda come la stessa nascita dell’antropologia, da collocarsi nell’Ottocento, sia indissolubilmente legata alla storia dei musei, che nella loro declinazione antropologica più recente, quella del museo etnografico, individuano una specifica figura scientifico-istituzionale. Il primo campo di ricerca degli antropologi, infatti, è stato il “campo del museo”: ciò significa che fu fra le sale dei musei che essi cominciarono a pensare l’alterità e a ragionare su di essa, ponendo le basi per la nascita dei musei etnografici e, più in generale, per quella del museo in quanto realtà onnipervasiva e interattiva, dove il ruolo che il pubblico riveste non sia solo quello di un passivo ricettore di moniti didascalici.
Insomma, dopo gli anni Settanta (e sensibilmente, come detto, nei pieni anni Ottanta) si comincia a concepire il museo come organismo davvero vitale e attivo, la cui essenza debba, sì, misurarsi con il tenore dei suoi contenuti, ma altrettanto attentamente mediante l’osservazione e lo studio di chi vi fa ingresso e di chi vi opera all’interno, presupposto di una efficace comunicazione. Esso diviene allora un oggetto antropologico a tutti gli effetti; un luogo misurabile attraverso il suo intorno sociale concepito come suo crisma significante, di cui indagare il pensiero, le idee e le aspettative su cui poter (ri)definire l’offerta museale e i suoi modi di aprirsi al pubblico. Il pubblico, per l’appunto, e al suo interno la dimensione individuale e personale, quella che l’antropologia del self – o person-centered – individua come metodologia improntata all’analisi delle «relazioni tra individui e i contesti socioculturali senza presupporre che le persone siano una replica in miniatura dell’ordine sociale» dove “self” diviene, eludendo la sua vena “intimistica”, sinonimo di “persona” (Mattalucci 1997: 81).
Nella persona (Clemente 2020) può allora scorgersi, secondo questo (non esclusivo) approccio, l’unità di misura delle realtà museali e della loro apertura e proiezione ai mondi nei quali si inseriscono, con cui potrebbero rinegoziarsi dei patti di più intima interconnessione soprattutto in riferimento a delle realtà di cui si andrà ora a chiarire alcuni aspetti. Sullo sfondo delle successive considerazioni, gioca un ruolo non certo banale la condizione dell’individuo quale emerge dal primo momento di diffusione dell’epidemia da Covid-19, in grado di ridefinire i confini spaziali, sociali e mentali dei gruppi soprattutto nel loro modo di esperire e fruire l’ambiente di riferimento, ridefinito alla luce delle imposizioni pandemiche, le quali portano ad interrogarsi sulle tradizionali configurazioni geografiche e sullo stesso statuto dei luoghi per come siamo abituati a concepirli. Tale senso di incertezza, precarietà e smarrimento dei riferimenti consueti trova illustri precedenti nella stessa letteratura antropologica, come nel caso della “crisi della presenza”, immagine concettuale sistemata da Ernesto De Martino e già in nuce nel suo Il Mondo magico (1948), opera nella quale il grande antropologo indagò per la prima volta il concetto di presenza e delle implicazioni critiche ad esso connesse, alla luce di una equilibrata dialettica di crisi e riscatto.
Qualsiasi definizione si dia dei musei e qualsiasi scuola antropologica essa coinvolga, insomma, essi emergerebbero in ogni caso come entità altamente complesse e multiformi. Essi infatti – si crede – definiscono un vasto spettro di problematiche, le quali non si esauriscono in contingenze di carattere eminentemente contenutistico o metodologico poiché, attraverso lo studio dei loro linguaggi e codici comunicativi (a partire dalla tipologia degli allestimenti), è ad un più o meno vasto pubblico che intendono rivolgersi, soprattutto mediante gli operatori, per veicolare la loro ricchezza conoscitiva. Il successo del museo – secondo l’autorevole affermazione di G. H. Rivière (1989: 7) – non si valuta in base al numero di visitatori che vi affluiscono, ma al numero dei visitatori ai quali ha insegnato qualcosa.
In questa riflessione, pertanto, è sui musei generalmente intesi che si vuole ragionare, muovendo da alcune considerazioni riguardanti, in particolare, un’area specifica della Sardegna centro-meridionale, meglio nota come Medio Campidano [2], dove chi scrive agisce come operatore museale. Terra ricca di elementi e colori, questa subregione è fortunata ad avere registrato lo sviluppo di tanti caratteri peculiari per ogni vicenda culturale che la storia umana dell’Isola abbia finora registrato. La ricchezza patrimoniale (materiale e immateriale) del suo territorio di riferimento, però, non deve trarre in inganno rispetto allo stato di salute del comparto museale, denso anch’esso, e dei contesti locali che ospitano i suoi diversi istituti. L’idea di fondo, si crede, è che questo sistema – proprio in virtù della sua complessità ed eterogeneità – necessiti di più approfondite indagini volte ad esaminare il ruolo che i musei effettivamente ricoprono all’interno delle comunità e per le comunità stesse, con una mirata attenzione verso fruitori, operatori e modi di esperire questi luoghi nella loro totalità culturale (e per questo associativa, ricettiva, comportamentale e di produzione autonoma di nuovi significati). Soprattutto se è vero, come riconosce Valentina Zingari, che le comunità, spesso, si aggregano proprio attorno ai progetti museografici [3].
L’antropologia, infatti, è anche (e forse soprattutto) racconto e lettura critica di esperienza, che la lente etnografica cattura in profondità per potervi individuare inedite chiavi di lettura e circoscrivere gli afflati culturali che informano lo stare al mondo dei popoli; è perciò seguendo questa convinzione che, sempre più spesso, mi capita di interrogarmi sul ruolo dei musei all’interno dei territori, soprattutto in un momento nel quale sempre più sensibilmente capita di osservare, al loro interno, gli effetti dell’irresistibile processo di rimodulazione (e, va detto, decostruzione sociale) al quale sono andati incontro dall’inizio della pandemia, scandito da una forte limitazione nell’accesso ai luoghi d’arte e cultura, che nelle aree periferiche tanta parte hanno, dopo le scuole, nella garanzia e tutela del diritto al sapere ed alla conoscenza.
In seconda battuta, penso a chi il museo circonda e dal museo è circondato, ovvero i visitatori, gli operatori e le comunità all’interno delle quali, fisicamente e non solo, si inscrivono. E mi verrebbe da chiedermi, osservando gli atteggiamenti di tante amministrazioni, addetti ai lavori e fruitori: ma come possono i musei parlare, oggi, alle persone, se di queste sappiamo poco o nulla e, anzi, ci limitiamo forse a contarle? Per questo, in quanto operatore ed attento lettore dell’antropologia, ho cominciato a domandarmi se non fosse giunto il momento di andare a fondo alla questione museale in un territorio, il Campidano, per scandagliarne gli aspetti più intrinseci e meno emergenti quali le impressioni delle comunità rispetto al ruolo dei musei e alle loro dinamiche di nascita, in loco, in quanto edifici, istituti, luoghi, per poterne ricostruire, sul piano diacronico della storia, il farsi culturale in cui individuare atteggiamenti, memorie, problematiche ataviche e punti di partenza.
La percezione da me nutrita in quanto operatore del settore (e per questo non senza responsabilità), difatti, è di una certa refrattarietà ed impermeabilità di vari contesti territoriali a interpretare il ruolo dei siti di cultura e in primis di quelli museali come centri di “nuova” socialità e promotori della costruzione culturale dei luoghi mediante un’attenta ricerca sulle origini storiche, sulla gente, sulle tendenze, ovvero sulle premesse culturali dei meccanismi di crescita e progresso. La sensazione è che proprio la mancanza di una visione globale e specifica dei contesti registra, fra i suoi più perniciosi riverberi, tendenze di approssimativa gestione politica che abbracciano, però, tutti gli ambiti della vita, con conseguenze spesso molto delicate. I musei campidanesi, insomma, subirebbero – andandola in parte a preservare – una sorta di “politica della stasi” che, per qualche ingiunzione psicologica di massa, renderebbe queste realtà assuefatte alla “storica” perifericità dei territori di riferimento, retti da decenni da un sistema di comparti che ancora si pretendono trainanti, ma che sempre più difficilmente si applicano allo statuto socio-economico del presente di queste aree.
Per la messa in atto di una certa progettualità, però, è anzitutto auspicabile ripensare alcuni atteggiamenti in forza all’antropologia classica per abbracciare inedite attitudini, ancora da esplorare nella totalità della loro dimensione, rivolte verso quello che Clemente chiama il mondo “delle retrovie”, delle aree interne, marginali e scarsamente popolate, per conoscerne le possibilità, i processi e le stesse dinamiche di intendere il (loro) reale. E, ancora, per comprendere quale direzione possano intraprendere i musei in questo momento, assieme, congiuntamente, alle loro comunità, sicuramente in grado di sviluppare quella che Giacomo Becattini chiama coscienza di luogo e che, parafrasando Vito Teti, permette di scorgere le sfumature del senso dei luoghi considerati come sistemi complessi, unici ma interconnessi. Le possibilità dell’etnografia, allora, dovrebbero legittimamente venire “tarate” rispetto al presente contemporaneo e, principalmente, rispetto all’ottica da adottare e al perimetro operazionale e d’analisi su cui concentrarsi, che nella dimensione locale individua una figura geografica ricca di problematiche irrisolte e panorami simbolici da scandagliare. Diventa lecito attendersi, pertanto, che ai musei situati in tali contesti periferici si guardi con rinnovato fervore critico, soprattutto interrogandosi e interrogando su quali modi di esistere e produrre significati questi istituti osservino.
Gioverà a questo punto ricordare come, fra gli altri topoi della sopracitata prolusione di A. M. Cirese, già compaia l’inerzia del museo come spettro da rifuggire durante e dopo lo sforzo di costruzione delle collezioni e di predisposizione dei servizi per la loro migliore fruizione e “trasmissione”, tasselli imprescindibili per ragionare sulle possibilità di crescita e apertura.
Perché queste possano profilarsi, infatti, occorre certamente affrancarsi dal senso di autoreferenzialità che ha spesso tratto in inganno i luoghi di cultura e gli operatori, impedendo loro di scorgere nitidamente eventuali margini di miglioramento, ma allo stesso tempo ricorrere a metodologie di ricerca, studio ed analisi che le scienze storiche e quelle demoetnoantropologiche possono sicuramente offrire per una più profonda e lucida comprensione della fenomenologia in atto nel confronto tra musei e comunità geografiche di riferimento. Fra le considerazioni di fondo di questo contributo, ve ne sono alcune riguardanti le attuali condizioni del Medio Campidano secondo la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), ovvero «una politica nazionale innovativa di sviluppo e coesione territoriale che mira a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne del nostro Paese».
Nell’ambito della linea di intervento, il Medio Campidano risulta, nel 2020, fra le cinque province [4] più “vuote” dal punto di vista della densità fisica, dell’assetto demografico e della densità economica, parametro riferibile alla consistenza delle attività produttive, delle esportazioni e della qualità della struttura del mercato del lavoro locale. In buona sostanza, il territorio compare stabilmente fra le aree cosiddette fragili, anche in ragione del marginale consumo di suolo, dell’inconsistenza del sistema stradale e dell’offerta e dell’utilizzo dei trasporti pubblici locali. Se di per sé questi fattori non sono inequivocabilmente indicativi di una condizione di subalternità, va registrato che, di queste province, il Medio Campidano figura regolarmente nel fondo delle graduatorie valide per gli altri parametri della Strategia, collocandosi stabilmente nelle zone definite, appunto, vuote, ovvero “largamente deficitarie” in termini infrastrutturali, demografici e socio-economici.
Date queste premesse e ai fini di questa riflessione, emerge come possibilità l’indagine più approfondita del panorama territoriale considerato, per rilevare – si auspica – come anche dal comparto culturale – e da quello museale su tutti – possano e debbano attendersi risposte pregnanti in direzione dell’impatto da esso determinato sul corpo sociale e su quello, decisivo, del welfare nella comunità di riferimento. È infatti ragionevole notare che il benessere dei territori inteso nella sua generalità dipenda, principalmente, da quello – individuale e sociale – di chi li abita, e che pertanto il museo-luogo vada studiato, ripensato e considerato quale motore di significati e di un rinnovato rapporto di interscambio e trasmissione con la micro-società alla quale si rivolge.
Scrive Pietro Clemente:
«Un museo è come un centro storico o un nuovo quartiere di periferia: ha percorsi, punti di fermata, possibilità d’esperienza diverse, di socialità densa o rarefatta e individualizzata. Esso va dunque progettato con la consapevolezza che si deve appaesare al suo spazio, perché si possa spaesare il visitatore con l’esperienza di “altri mondi”» (in Lattanzi 2021: 21-22).
Verrebbe da chiedersi, quindi, quale sia il ruolo attuale dei musei e quale possa essere quello futuro nella riscoperta della loro plurale dimensione da parte dell’antropologia, da qualche tempo – nota Lattanzi – concentrata sulla questione dei rapporti tra visualismo e rappresentazione, di importanza centrale per questi istituti (idem: 27 e ss.). Una profonda riflessione etnografica sul rapporto tra soggetto e oggetto della rappresentazione, infatti, consentirebbe di addentrarsi con più facilità nel cuore percettivo dei fruitori dei musei, i quali garantiscono le premesse per l’esistenza dell’esperienza museale ma anche per la produzione delle sue declinazioni ed espressioni future. I musei mirano alla rappresentazione delle culture nello stesso modo in cui ad esse si rivolgono. In un mondo pesantemente ridefinito dalla fenomenologia pandemica, queste ed altre risposte si rendono necessarie per una attenta e sostenibile ridefinizione dei suoi schemi interpretativi e dei suoi stili di vita, chiamati a “guardarsi allo specchio” e a tentare una inversione dello sguardo che riguardi, alle nostre latitudini, soprattutto le aree periferiche sopracitate.
Precisamente, Invertire lo sguardo è la formula progettuale che, come un filo rosso, raccorda i diversi contributi confluiti all’interno del volume Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, curato da Antonio De Rossi ed edito da Donzelli, nel quale si mettono in luce – attraverso gli sforzi di sociologi, antropologi, storici, economisti, ecc. – le problematiche insite nelle configurazioni territoriali consuete, scandite da un’Italia disseminata di “territori del margine”, aree interne e spazi inanimati. Queste articolazioni “vulnerabili” fanno capo ad un Paese ostaggio di una visione strategica unidirezionale nella quale la dimensione urbana e metropolitana diventa l’epicentro degli sforzi progettuali di tanti soggetti collettivi, a ovvio discapito dei luoghi e delle loro specificità, storicamente “appiattite” di una sistematica verticalità delle letture del territorio nazionale (Nord-Sud, città-campagna, centro-periferia, ecc.).
Invertire lo sguardo, così, dovrebbe in questo senso significare l’assunzione dei luoghi, dei piccoli contesti locali e delle aree generalmente fragili quali punti di vista a partire dai quali produrre nuove politiche di crescita e sviluppo troppo spesso eterodirette, cioè arbitrariamente decise da classi dirigenti distanti decine quando non centinaia di chilometri e comprensibilmente non avvedute rispetto alle caratteristiche e alle reali possibilità dei territori. Ebbene, è negli interstizi di questi sistemi territoriali “vulnerabili” che emergono, silenti ma presenti, i musei, che si crede – parafrasando ancora Pietro Clemente – non possano più accontentarsi del culto del passato come “bene”, il cui consumo ancora assume caratteri “santuariali” e, per certi versi, elitari, ma debbano scorgere nel bacino comunitario di riferimento (la sua comfort zone sociale e umana) un soggetto attivo al quale rispondere e dal quale aspettarsi risposte.
Non sarà banale, a questo punto, riportare la più recente definizione di museo secondo la principale organizzazione internazionale dei musei e dei professionisti museali, ovvero l’ICOM (International Council of Museums): «Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». L’immagine descritta dall’istituto è chiara, ed è quella di una realtà attiva, presente, in movimento, aperta al cambiamento e agli stimoli esterni, al dialogo e alla ricerca, alla produzione di socialità, all’accoglienza ed all’inclusione. Una realtà interculturale e una realtà al servizio delle culture. In una parola: viva. Non sempre, com’è comprensibile, è stato così, ed è ancora Clemente ad ammonire sui rischi connaturati all’origine stessa dei musei e dei luoghi interpretativi che su di essi si sono prodotti nel corso dei decenni.
L’antropologo, infatti, nota come l’ICOM nasca sui musei della scienza, su quelli di civiltà, archeologici ed etnografici, e come questi siano in continua revisione di forme comunicative e multimediali, ben lungi dal rappresentare dei meri contenitori di oggetti inanimati o allestimenti muti ed immobili, incapaci di comunicazione, e come il suo humus culturale, prima ancora delle collezioni e della loro scientificità, siano le persone, ovvero sia chi vi agisce all’interno che chi vi accede e chi fa parte della comunità “ospitante”. Clemente, in tal senso, nota come l’antropologo, alla luce della sua epistemologia disciplinare, sia in grado di riconoscere, nel pubblico museale, non già un insieme omogeneo nel quale sia difficile riconoscersi (e altrettanto complicato sia per gli operatori museali), bensì «famiglie, adulti, bambini, il cui cursus honorum museale si lega alla vita di tutti i giorni […] perché il pubblico, se lo si vede dal punto di vista delle storie di vita, dei curricoli culturali, siamo proprio noi nella nostra faccia rivolta al futuro (il museo è l’esperienza nuova che il visitatore sta per fare)» (Clemente 2006: 155,171).
Il discorso qui affrontato sugli apparati museali consente inoltre, a maggior ragione per l’area del Medio Campidano cui si fa riferimento, una necessaria considerazione riguardante l’attuale sistema scolastico e la sua offerta, sensibilmente ridimensionatasi nella sua vitale componente associativa e di presenza fisica a causa dell’incalzare del virus, le cui implicazioni sociali devono doverosamente venire filtrate anche attraverso la lente dell’antropologo e dell’etnografo.
Quale può essere, allora, il ruolo del museo, oggi plurale e “polifonico” come non mai, in questa condizione? È ragionevole attendersi che questi luoghi possano, in qualche modo, colmare, attraverso il ripensamento di iniziative, progetti didattici e nuovi sistemi di accoglienza e condivisione le voragini apertesi nella scuola-mondo delle aree periferiche soprattutto alla luce di un utilizzo sempre più massiccio di forme di didattica a distanza, attualmente in fase di “arretramento”? E qual è, in tal senso, la posizione di operatori museali e scolastici ma soprattutto delle persone che abitano le realtà locali su cui ci si intende concentrare? Comprenderlo, o almeno sforzarsi di provarci, sembra a chi scrive un ulteriore buon punto di partenza per auspicare, da antropologi, decisori pubblici e persone, un consapevole auto-ricollocamento nel presente nel nome di quel «farsi indigeni nel XXI secolo» di cui parla James Clifford [5] nel suo essenziale contributo di miglioramento dei metodi analitici dell’antropologia moderna soprattutto verso i processi del mondo attuale “ibridato” nonché, di sicuro, per la comprensione del proprio modo di abitarlo. A qualsiasi latitudine ed in qualsiasi luogo. Come al museo.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] Proprio Cirese dirà, nella suddetta relazione introduttiva: «Giacché sempre ed in ogni caso i musei sono una cosa diversa dalla vita: per definizione immobilizzano ciò che è mobile, cristallizzano ciò che invece è destinato a trasformarsi, tolgono alla fruizione umana primaria quel che per essa era nato, e sottraggono l’uomo al complesso delle cose che viceversa avevano senso con lui e per lui» (1977: 40). Pur nella consapevolezza di questa asserzione, si intende qui soffermarsi sulle possibilità socio- culturali che qualificano il museo in quanto soggetto attivo, produttivo e interagente all’interno delle comunità e dei contesti locali, con una rinnovata attenzione verso il suo pubblico.
[2] Dove, in ogni caso, sono i musei archeologici e quelli etnografici a predominare largamente.
[3] L’antropologa ha pronunciato queste parole durante la tavola rotonda sul volume Musei e patrimonio culturale immateriale. Verso un terzo spazio nel settore del patrimonio, appuntamento virtuale tenutosi, sulla piattaforma Zoom, giovedì 7 ottobre 2021, nell’ambito del ciclo di seminari I Musei della restanza. Il museo come strumento di partecipazione, conoscenza, salvaguardia e promozione dei territori
[4] Delle 5, altre tre sono sarde: Oristano, Ogliastra, Carbonia-Iglesias
[5] J. Clifford, Returns. Becoming Indigenous in the Twenty-first Century, Harvard University Press, 2013
Riferimenti bibliografici
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De Martino E., Il Mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi Torino 1948;
De Martino E., Clara Gallini (a cura di), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 2002;
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Lattanzi V., Musei e antropologia. Storia, esperienze, prospettive, Carocci, Roma 2021;
Mattalucci C., Persona, self, emozioni, in “La Ricerca Folklorica”, apr.,1997, n..35, Antropologia dell’interiorità: 81-91;
Rivière G.-H., La muséologie selon George-Henry Rivière. Cours de muséologie/textes et témoignages, Dunod, Paris, 1989;
Teti V., Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma, 2014;
Teti V., Quel che resta. L’Italia dei paesi, fra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma 2017;
https://www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/
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Nicolò Atzori, consegue una laurea triennale in Beni Culturali (indirizzo storico-artistico) con una tesi in Geografia e Cartografia IGM e una magistrale in Storia e Società (ind. medievistico) con una tesi in Antropologia culturale, presso l’Università di Cagliari, ottenendo in entrambe il massimo dei voti. Altresì, è diplomato presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Cagliari. Dal 2017 lavora, per conto di CoopCulture, come operatore museale e guida turistica presso il Museo Villa Abbas e il sito archeologico di Santa Anastasia di Sardara (SU), luoghi dei quali, fra le altre cose, cura la comunicazione e, nel primo caso, gli aspetti museografici.
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