Il 4 dicembre 2017 si è tenuta all’Università di Roma “Sapienza” una giornata di studi dedicata a Musine Kokalari (1917-1983), scrittrice, poetessa, militante albanese del Novecento, dal 2007 riconosciuta con la massima onorificenza civile di Onore della Nazione: una riabilitazione politica e un riconoscimento letterario che risarciscono tardivamente la storia drammatica di una ragazza-uragano sensibile alla nascente questione femminile, impegnata politicamente alla ricerca di una via democratica, ostile a ogni dittatura e condannata per ciò stesso dal regime comunista al carcere e all’isolamento forzato dal 1946 fino al momento della sua tragica morte.
La giornata di studi è stata originata dalla presentazione di un bel libro edito dalla casa editrice Viella, a cura di Simonetta Ceglie e Mauro Geraci, La mia vita universitaria. Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista (1937-1941). Un volume accolto significativamente dalla prestigiosa collana “La memoria restituita. Fonti per la storia delle donne”, diretta da Marina Caffiero e Manola Ida Venzo e pensato come tributo alla stagione giovanile di Musine Kokalari, che durante gli anni di studi universitari condotti presso la Facoltà di Lettere della “Sapienza” stese un diario in lingua italiana nel quale registrò giorno dopo giorno la sua avventura romana.
Con una accurata e appassionata introduzione al volume, Mauro Geraci (professore associato di Antropologia culturale all’Università di Messina) ci accompagna per mano nella raccolta sistematica di impressioni, movimenti storici e culturali, turbamenti esistenziali, inaugurali intuizioni politiche che la giovane e brillante studentessa rileva durante il soggiorno romano attraverso un costante esercizio antropologico dell’ascolto, dello sguardo, dell’estraniamento critico. Dal canto suo Simonetta Ceglie (storica e archivista presso l’Archivio di Stato di Roma) ci introduce al testo storicizzandone il valore testimoniale, ricostruendo il contesto universitario dell’epoca, restituendoci tutti i documenti corredati alla redazione del manoscritto (dalla corrispondenza privata con i familiari, amici, conoscenti albanesi al fondo Kokalari oggi depositato presso l’Archivio centrale di Stato di Tirana; dalla consistenza originaria del dattiloscritto autografo ai criteri di trascrizione e di edizione adottati).
Il libro si propone come una sorta di viaggio di ritorno alle topografie simboliche giovanili di una scrittrice versatile, impegnata ora nella produzione poetica personale (La tosse della morte, 1937), ora nelle raccolte poetiche e narrative di tradizione orale della comunità d’origine (Attorno al focolare; … Come cambia la vita, 1944), ora infine in una scrittura militante e struggente, edita postuma in due volumi nel 2000 e nel 2004 (Come nasce il Partito socialdemocratico. Articoli, appunti, saggi e memorie e Antologia delle ferite. Sotto il terrore comunista). Un viaggio, quello de La mia vita universitaria, che consente al lettore di estendere la nozione di ritorno – il ritorno in patria di Musine – alla ricerca di un’origine, di una matrice identitaria, di una mappa critica che renda ragione del desiderio di restituzione politica di un’esperienza formativa ricca e multiforme.
Le relazioni della giornata di studi si sono configurate, in questa prospettiva, come le possibili tappe di un viaggio, di un incontro labirintico con le rotte dell’io narrante di Musine Kokalari, a cominciare dal saluto inaugurale, toccante e meditato, di Emanuela Prinzivalli, Direttrice del Dipartimento di “Storia, Culture, Religioni” che ha promosso e sostenuto l’iniziativa. Non meno puntuali le riflessioni dei relatori Franco Altimari, Marina Caffiero, Adrian Dreca, Anna Rosa Iraldo, Luigi Lombardi Satriani e degli stessi curatori Geraci e Ceglie. Ricca e articolata è stata la restituzione del lavoro di rigenerazione editoriale della scrittrice in Albania, proposta da Persida Asllani, Direttrice della Biblioteca Nazionale di Tirana. Struggente il documento inviato da Visar Zhiti, poeta e studioso attento di Musine Kokalari; non meno stimolante la lettura di Rando Devole, che ha prolungato l’esperienza di Musine in quella delle donne dell’Albania contemporanea, tra migrazione, tradizione e modernità. Commovente, infine, la presenza partecipe e nutrita della famiglia Kokalari, rappresentata ufficialmente dal saluto inaugurale della pronipote Linda, e che ha raggiunto Roma per poter ripercorrere le memorie di Musine nello stesso scenario in cui si sono originate, a più di settant’anni dalla loro scrittura.
Così il testo si è fatto pretesto riflessivo per una visione d’insieme della cifra critica e della fibra umana di Musine Kokalari, Muza albanese restituita al presente: dal sogno universitario alle sofferenze patite nella solitudine intollerabile di un regime di dura detenzione e poi di evitazione, di esclusione dalla vita sociale in quel villaggio di Rrëshen dove ognuno aveva l’obbligo di ignorarla, il divieto assoluto di rivolgerle la parola.
Avvalendomi del vantaggio della mia posizione strategica (il mio intervento era previsto alla fine della mattinata) ho pensato da subito che avrei potuto consentirmi il supplemento di libertà di una lettura preferenziale del libro e della sua autrice. L’ho pensato in realtà fin dalle prime pagine del volume che ha originato il convegno romano, fin dalle prime considerazioni introduttive, come omaggio a un curatore che ha dedicato al silenzio una raffinata monografia antropologica ancora attuale (Geraci 2002), ma anche come irrituale strategia di ascolto della storia di vita di una “ragazza uragano” che confluiva verso una fine inaccettabile, tanto più dolente quanto più sottomessa all’oltraggio del silenzio.
Musine Kokalari e il silenzio svelato mi è sembrato il titolo più consono a riassumere in una metafora efficace tanto l’amore esegetico di cui Mauro Geraci l’ha investita fin dalle prime pagine della sua introduzione, quanto il tratto costante del destino di una donna che evoca altre donne, altri corpi, altre storie, altre assenze. E se è vero – come ricordava Calvino nel racconto mirabile Un re in ascolto (Calvino 2001) – che per ogni corpo c’è un inizio, per ogni voce una presenza, mai come in questo caso la voce di Musine si fa presenza storica proprio intessendo (con una militanza votata ai saperi più alti di un modello femminile di matrice arcaica) le retoriche di un silenzio denso di senso.
Cercherò pertanto di consegnare, anche in questa sede, il silenzio di Musine alla sua significazione antropologica, insinuandomi nella sua cifra semantica, nella grana di una voce intermittente, nelle pratiche silenziarie di contemplazione della vita di una studentessa gravida di speranze, nell’autoconfinamento sofferto di una militante coraggiosa, nelle inaccettabili dissonanze di una storia afona.
Proverò a evocare anzitutto la fibra critica di un confinamento progressivo, di un silenzio che si fa linguaggio, se è vero quanto ricorda la stessa madre di Musine, che affiancandola nella lunga stagione di confino politico ben intese le risonanze del suo mutismo forzato, decifrandone l’uso politico come sfida, arma di difesa dalle continue provocazioni, sorveglianze, interrogazioni e ritorsioni politiche.
Silenzio ostinato e raffinato, quello di Musine, da intendere anche come strumento di replica al “nulla sociale” impostole dai servizi segreti, come un solipsismo d’autore ferreo e sconvolgente. Il silenzio di una martire, verrebbe da dire, che sopporta con fierezza e dignità la mutilazione di un corpo e di un pensiero. Silenzio reiterato e freddo, quello delle istituzioni (politiche prima, sanitarie poi), di fronte alle richieste consegnate alla scrittura struggente di Musine malata terminale, colpita al seno, colpita al cuore, il cui corpo – specchio acustico di una solitudine senza appello – reclama dignità di ascolto.
Ma il viaggio nel silenzio di Musine Kokalari comincia presto, ben prima della sua reclusione politica, ben prima che la sua voce venga messa a tacere dall’orrore di un regime. Comincia nel segno di una pedagogia al femminile incorporata forse nel contesto familiare e sociale di appartenenza. Paradigma di un’armonia e di una saggezza che si conquistano progressivamente, nel suo primo anno di studi universitari il silenzio è l’esito di un disagio linguistico e di una consapevolezza nuova: la lingua italiana appresa negli anni di formazione scolastica in Albania esige infatti una rinascita che incoraggia una stagione di tacita incubazione. «I primi mesi non aprivo bocca», ricorda nella sua autobiografia, segnalando come la sua condizione di disagio fosse condivisa dalle compagne di studi che, provenienti da “altri paesi italiani”, si misuravano come lei per la prima volta con una lingua ufficiale così diversa da quella parlata nella sfera domestica e consegnata al linguaggio cifrato degli affetti.
Al silenzio forzato di quei primi mesi fa da contrappunto il pianto ristoratore delle ore notturne e un mondo onirico compensativo, terapeutico, che incoraggia un risveglio verso la nuova vita. Percorrendo retrospettivamente gli scenari urbani, le strade animate, l’euforia di un mercato, Musine non manca di segnalare l’insofferenza al rumore cittadino, la dissonanza delle voci e della folla, quando con il suo corpo minuto ne attraversa in punta di piedi l’inquietudine.
E ancora al silenzio consegna il peso di un corpo che riconquista “a grandi passi” presenza ed emozione nella contemplazione di un riflesso d’acqua fluviale, sulle sponde del Tevere, di una tomba etrusca, di un Colosseo “immerso in un silenzio profondo” e condiviso dai visitatori resi muti dalla meraviglia della storia.
Al suo silenzio fanno eco altre voci femminili, rubate durante una breve sosta su una panchina del quartiere nomentano: le lamentele di due giovani cameriere nei confronti di signore intransigenti o le lodi riservate ai loro piccoli da due giovani mamme: chiacchiere, scrive Musine, plasmate secondo il grado di cultura o la posizione sociale; voci che evocano innocenti menzogne, ma alle quali “è peccato non prestare fede”, perché incarnano l’eco acustica di una storia al femminile che si nutre di modesti scenari privati, di una sfera domestica nella quale la vita scorre nel segno di un’armonia di genere, per lo più interdetta all’ascolto degli uomini.
Silenzio e qualità di ascolto nutrono anche i viaggi di ritorno di Musine in Albania: estati trascorse con l’amica di scuola, sempre allegra, in contrasto con la sua natura taciturna; momenti contemplativi di fronte a un paesaggio marino, giornate passate “ad ascoltare soltanto” per raccogliere i racconti, i canti, gli usi e i costumi popolari di Argirocastro, il paese di residenza, resi a lei come un dono da donne adulte, madri e nonne, sorprese di fronte a un interesse così inconsueto per il loro mondo.
Un silenzio malinconico accompagna Musine studentessa al suo rientro a Roma, quando l’autunno sveste la natura, in quei momenti di solitudine in cui il pensiero, per motivi incomprensibili e inesprimibili, lascia libera la strada a un umore sordo e cupo. Ed è ancora facendo leva sul silenzio che sopporta il dovere di assistenza ospedaliera prima verso un giovane parente albanese afflitto dalla tubercolosi e ricoverato a Roma, che giorno dopo giorno vedrà spegnersi senza versare una lacrima; poi verso il piccolo nipote, costretto a mesi di ricovero e a ripetuti interventi correttivi per una lussazione congenita dell’anca: «non parlavo quasi mai, e l’amica mi lasciava stare». Nella lunga estate romana dedicata alle cure al nipote e alla scelta dell’argomento per la tesi di laurea, il silenzio sarà compagno del riposo pomeridiano in un angolo silenzioso del Verano, sotto i cipressi silenziosi che la riportano a un’infanzia in cui, timida e silenziosa, ascoltava durante gli inverni rigidi del suo paese il fischio acuto delle punte tormentate dal vento.
Nel segno di un silenzio disorientato Musine accoglie anche l’amore di un giovane il cui nome non verrà mai rivelato; un collega di studi che da principio guadagna la sua stima, che frequenta con spirito amicale e che infine corrisponde in un sentimento amoroso che tuttavia le sollecita poca serenità e una profonda lotta interiore. E così, mentre il ragazzo lamenta il suo silenzio come un segno di scarso coinvolgimento, Musine si chiede se un legame troppo intenso non rischi di compromettere il bene inalienabile della sua libertà. Alla fine della storia, contorta e corrotta da piccole miserie quotidiane, Musine conclude che se l’amore è bello «più bella ancora è la liberta dello spirito, quando l’anima non è imprigionata in un pensiero unico che tutto assorbe, ma erra come cosa selvatica […]. L’uomo è nato per vivere solo.» (Kokalari, 2017, 185)
Nelle ultime stagioni romane i giorni si susseguono tra impegni, attese e nostalgia di futuro: nonostante gli eventi storici di quegli anni incoraggino uno sguardo di disincanto, il rientro in Albania finisce per essere il ritorno a un “paese interiore” il cui richiamo appare a Musine come l’ultimo atto dovuto, al termine di un’esperinza formativa condotta nel segno di quel rigore etico che convertirà la Muza o la Tacita della prima giovinezza in una irriducibile intellettuale dissidente. Nei quattro anni che intercorrono tra il rientro in patria e l’arresto, il processo sommario, la condanna, la sua voce si farà sentire forte e chiara: sarà La voce della libertà, come l’organo di informazione del neonato partito socialdemocratico e come voce di denuncia della miseria della società rurale, delle discriminazioni politiche, dei pericoli di un populismo comunista di cui coglie subito il potenziale distruttivo e violento. Sarà la voce che invoca elezioni democratiche, che chiama all’appello le rappresentanze diplomatiche dei Paesi occidentali, che viene avvvertita in tutto il potenziale deflagrante dallo Stato comunista.
Una voce nel silenzio o la voce di un silenzio rivelato che contagia e condanna senza appello. A chi nei durissimi anni di detenzione tenterà di estorcerle confessioni, pentimenti o ritrattazioni, Musine Kokalari replicherà con una coerenza che le varrà la condanna a un silenzio a vita.
Come una ninfa oreade, come la ninfa Eco signora della solitudine montana, come parabola mitica di una voce penetrante, Musine diventerà simmetrica alla solitudine del suo unico amante: un popolo vessato e condannato da un regime perverso al silenzio politico, alla digressione vocalica e alla consunzione melanconica.
Ma se è vero che non si può immaginare il silenzio senza una contestualizzazione del linguaggio, il silenzio di Musine merita oggi un una forma nuova di risarcimento storico. Occorre dissodarne il campo semantico, è necessario restituirlo alla sua ossimorica polifonia storica e poetica.
Degli scritti e del mandato etico, politico, antropologico di Musine Kokalari si parlerà ancora molto. Del suo silenzio nelle memorie giovanili resta una traccia eloquente che ci convoca a un nuovo registro di ascolto e che sta racchiusa nei segni ineludibili sul suo corpo-scandalo, nel filo di ferro arruginito che la condanna, anche dopo la morte, alla via crucis inaccettabile del giogo, di un legamento che esorcizza la paura per il ritorno dei defunti. Dopo due anni di preghiere disattese alla clinica oncologica dell’Ospedale di Tirana, nel 1983 Musine fu lasciata morire di tumore al seno. Anche da morta continuò a rappresentare una nemica pericolosa, e il suo corpo fu “messo a tacere” da un legamento che ne serrava polsi e tibie. Ne prese atto il nipote Hektor, che al momento della traslazione, nel gennaio del 1991, dopo aver estratto le ossa per pulirle dal fango, toccò con mano i resti di un gesto estremo di evitazione, compiuto forse dagli agenti preposti al controllo quotidiano di Musine ormai agonizzante. La tragica e frugale sepoltura, avvenuta all’indomani del decesso sfidando l’ostilità del regime, viene descritta da un amico, anche lui deportato politico, come un atto di ostinato salvataggio delle sue spoglie, altrimenti destinate a sparire, come si faceva con i cadaveri dei dissidenti fucilati.
Dopo la riesumazione e a partire dal 1993, Musine Kokalari verrà riabilitata nella storia civile e letteraria dell’Albania con il titolo di “Martire della Democrazia”. Voce dell’assenza, presenza nell’assenza, Musine Kokalari torna oggi a parlare come imago di un silenzio storico svelato. E di un oltraggio che merita riscatto.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Riferimenti bibliografici
Calvino Italo, Un re in ascolto in Id., Sotto il sole del giaguaro, Mondadori, Milano 2001: 49-77
Geraci Mauro, Il silenzio svelato. Rappresentazioni dell’assenza nella poesia popolare in Sicilia, Meltemi, Roma 2001
Kokalari Musine, Kolla e vdekjes (La tosse della morte), in «Shtypi» (La stampa), 56, 24 luglio 1937
– , Reth vatrës (Attorno al focolare), Mesagjeritë shquiptare, Tiranë 1944
–, … Sa u tunt jeta (Come cambia la vita), Mesagjeritë shquiptare, Tiranë 1944
–, Si lindi Partia socialdemokrate. Artikuj, shkrime, esse dhe kujtime (Come nasce il Partito socialdemocratico. Articoli, appunti, saggi e memorie), a cura di P.S. Kokalari, Naim Frashëri, Tiranë 2000
–, Antologjia e plagëve. Nën terrorin komunist (Antologia delle ferite. Sotto il terrore comunista), a cura di K. Kati, 2 voll., Qendra Shqiptare e Rehabilitimit të traumëes dhe torturës, Tirane 2004
–, La mia vita universitaria. Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista (1937-1941), a cura di S. Ceglie e M. Geraci, Viella, Roma 2017
_______________________________________________________________________________
Laura Faranda, professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Roma “Sapienza”, tra i suoi percorsi di ricerca studia l’antropologia del mondo antico; l’antropologia simbolica, con particolare attenzione al rapporto tra corpo, identità di genere e linguaggio delle emozioni; l’antropologia dei processi migratori; l’etnopsichiatria e la psichiatria coloniale; le minoranze etnico-religiose e i processi di mediazione culturale tra Italia e Tunisia, fra presente e passato. È autrice di numerose pubblicazioni. Tra i titoli più recenti: Non uno di meno. Diari minimi peri un’antropologia della mediazione scolastica (2005); Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica (2009); La Signora di Blida. Suzanne Taieb e il presagio dell’etnopsichiatria (2012); Non più a sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente (2016).
________________________________________________________________