Circa quarant’anni fa, sull’onda della riscoperta della cultura folklorica, gli scaffali delle librerie furono inondati da un profluvio di pubblicazioni riguardanti raccolte di varie forme espressive (canti, proverbi, filastrocche, ecc.) e di costumanze ed usi vari. Chi lavorava nel campo della demologia non poteva disinteressarsi di queste pubblicazioni perché costituivano un’integrazione e un arricchimento di quelle ben più fondamentali che molti studiosi di folklore e filologi dell’Ottocento e del primo Novecento avevano curato.
Queste pubblicazioni, opera di ricercatori locali, di maestri elementari e di insegnanti di scuole medie che su alcuni aspetti della cultura popolare facevano lavorare i propri alunni, sono proseguite si può dire fino ad oggi, tanto che alla fine, quando se ne incontra ancora qualcuna sugli scaffali di una libreria, al massimo le si dà un’occhiata, se ne sfoglia qualche pagina e poi si lascia lì: tanto, i contenuti si conoscono già e soprattutto − assolto da tempo il dovere di essere informato sufficientemente su quasi tutta l’espressività folklorica nazionale − leggere ancora di usanze più o meno pittoresche, di filastrocche, indovinelli e varianti di canti popolari, mentre intorno si avvicendano tumultuosamente altri problemi, sembra di perdere tempo.
Così, qualche mese fa, vedendo in libreria il volume di Claudio Corvino (Tradizioni popolari di Napoli. Newton Compton, Roma 2017), ho pensato si trattasse della solita raccolta più o meno originale di quelle usanze e di quei luoghi comuni per cui Napoli è conosciuta in tutto il mondo. La curiosità però mi ha tentato; così ho preso il volume ma, leggendo il sottotitolo (Usanze, curiosità, riti e misteri di una città dai mille colori), la mia perplessità è aumentata ulteriormente: oltre alle “curiosità” e ai “misteri”, anche una “città dai mille colori”, come si dice in una canzonetta di Pino Daniele: insomma, ho arguito, siamo ancora nel campo del pittoresco più che del folklore. Ciononostante, ho aperto il libro ed ho cominciato a leggere l’Introduzione. Mi è bastato scorrere le prime due pagine per avviarmi alla cassa, pagare e correre a casa per leggerlo con comodità.
Prima, però, di passare alle considerazioni che il libro suggerisce, vediamo in breve chi è l’autore. Claudio Corvino, napoletano, si è laureato alla Orientale di Napoli con Alfonso di Nola e poi si è addottorato con Luigi M. Lombardi Satriani e Antonino Colajanni. Non fa l’accademico, ma ha svolto ricerche sul campo in Irpinia e in Abruzzo e comunque ora lavora come scrittore, occupandosi non solo di demologia, ma anche di cucina e gastronomia, di antropozoologia, di islamismo, di storia delle religioni e, infine, anche di aspetti “insoliti” di certe comunità, come nel volume Guida insolita della Campania (Roma, 2004), dove sono illustrate tutte le feste popolari della regione.
In genere chi ha tanti interessi, a volte rischia di cadere nel dilettantismo e di occuparsi solo di quei fenomeni pittoreschi che arricchiscono i contenuti della cultura di massa. Con Corvino, però, le cose non stanno così, perché se il titolo e il sottotitolo del volume hanno una qualche ambiguità, la posizione dell’autore espressa nell’Introduzione rimanda ad una visione del folklore lontana dai luoghi comuni, dagli stereotipi che, quando si parla di Napoli, costituiscono il corpo più cospicuo dei giudizi. Egli, infatti, si ripromette, fin dalle prime righe, di smontare, con un’analisi storicamente e antropologicamente corretta, le immagini tutte esteriori e superficiali (pizza e mozzarella, san Gennaro e mandolino), che della città partenopea girano per il mondo ed anche tra gli stessi cittadini napoletani. E visto che questa promessa viene mantenuta nel corso del volume, l’ambiguità del titolo può essere tollerata.
Il presupposto dal quale Corvino parte per illustrare le tradizioni partenopee è quello che nessuna cultura è un’isola e che solo gli stereotipi sono fissi e immodificabili.
«Nozioni come quelle di identità e tradizione non sono qualcosa di immutabile che la storia, il passato, ci ha trasmesso da padre in figlio… non sono ereditati come una casa dai genitori, ma il frutto di una serie di azioni (politiche, sociali, culturali, di mercato) che collettivamente decidiamo di intraprendere: un patrimonio di cose, fatti, credenze e luoghi che scegliamo di costruire, un bene collettivo».
Tale visione, ovviamente, fa sì che le considerazioni svolte da Corvino e le sue spiegazioni riguardano non solo il folklore napoletano, ma possono essere anche rivolte a quello di molte regioni dell’Italia e dell’Europa. Non bisogna dimenticare, infatti, che le popolazioni europee provengono tutte dal mondo contadino, la cui cultura se non era uguale ovunque quanto meno era molto simile, e che per secoli sono vissute in un lungo Medio Evo in cui la “mentalità folklorica” apparteneva a tutte le classi sociali. È il diffusionismo, piuttosto che l’evoluzionismo, che ci spiega come certi fenomeni possono essere presenti in luoghi distanti tra loro, separati da lunghi periodi di tempo o da enormi distanze chilometriche.
Corvino comincia la sua esposizione partendo da una precisa categoria antropologica, quella del calendario rituale che ha caratterizzato la vita degli uomini per migliaia di anni; fra tutte le date possibili del calendario sceglie quella del primo novembre, che ha segnato, con la credenza del ritorno dei morti, il principio dell’anno, prima che questo fosse sostituito da quello coincidente con il solstizio d’inverno. È quasi ovvio che cominci proprio dal culto dei morti, visto che presso i napoletani è un fenomeno ancora vitale e sentito più che altrove. Mentre, infatti, gli altri celebrano il ricordo dei morti solo nella data canonica, a Napoli si convive con i defunti, si visitano quasi quotidianamente cimiteri, cripte e catacombe e si “adottano” alcuni di loro come membri della propria famiglia, tributando loro gli abituali omaggi dell’accensione del lumino, delle preghiere e dell’offerta dei fiori.
In epoca medievale esisteva una letteratura in cui si parlava di eserciti di morti, periti anzitempo, che vagavano in cerca di dar compimento al proprio destino. Era quello anche il periodo in cui ci si domandava che fine avrebbero fatto quelle anime che si erano pentite all’ultimo momento dei peccati commessi: non potevano andare in Paradiso, ma perché essere dannati per l’eternità se si erano pentiti? I credenti sentivano la necessità di una tappa intermedia in cui potersi “purgare” per poter entrare definitivamente nel regno dei cieli, tanto che la Chiesa finì per decretare la effettiva esistenza del Purgatorio, dal quale si sarebbe passato all’Empireo grazie alle preghiere dei vivi (si veda Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino 1982). Fu così che qualcuno pensò bene di offrire i propri suffragi a queste anime vaganti.
Le credenze relative a questi morti erranti e la devozione che se ne ha a Napoli hanno la loro probabile origine nell’antichità, tuttavia il loro culto si è certamente rafforzato in tempi più recenti, nel periodo che va dal Medioevo fino al tardo Seicento, durante il quale drammatiche vicende sanitarie (la lebbra, il colera, la peste) provocarono migliaia e migliaia di morti, per i quali non ci fu possibilità di singole sepolture. Nell’Ottocento, gli scavi per la ristrutturazione della città e delle chiese portarono alla luce decine di migliaia di scheletri, molti dei quali trovarono sepoltura in varie catacombe. I luoghi in cui si svolge il culto dei defunti a Napoli sono diversi, ma il più frequentato è un’antica cava di tufo conosciuta come “cimitero delle Fontanelle”. Qui hanno trovato sepoltura circa quaranta mila ossa provenienti da cadaveri anonimi e suddivise per tipologia (crani, femori, tibie, ecc.). I frequentatori di questi cimiteri hanno rivolto la loro attenzione soprattutto ai crani (è in effetti la testa la parte più importante del corpo), alcuni dei quali sono stati scelti come rappresentanti di quelle anime degne di meritare i suffragi che le possano salvare. Queste anime sono dette pezzentelle (dal latino petentes), “coloro che chiedono” ai vivi l’aiuto necessario per raggiungere il Paradiso. Da ciò le visite settimanali ai cimiteri, i crani corredati di lumini (qualcuno anche di un’aureola realizzata con tubi al neon), contornati di santini per la loro tutela, omaggiati di preghiere per la loro salvezza.
Attorno ad alcuni di questi crani sono nati delle storie: siccome sarebbe strano pregare per un anonimo, chi li ha “adottati” ha attribuito loro una fisionomia utile alla identificazione con l’invenzione di una biografia specifica. Ed ecco che un cranio rappresenta il Capitano, altri due gli Sposi e poi ci sono quelli di Pascale ‘o marrucchino, di Luciella la zingara, dei Soldati, di Peppeniello, di Rituccia, ecc. ecc.
I morti, tuttavia, si sdebitano apparendo in sogno ai vivi e “dando loro i numeri” perché giochino al lotto e vincano il denaro necessario a sopravvivere. È questa una credenza così fortemente radicata che spesso è stata ripresa dalla letteratura per rappresentare realisticamente cultura e personaggi del popolo napoletano. Pensiamo per esempio alla commedia di Edoardo Non ti pago, dove oltre a una logica pirandellianamente assurda, c’è una fede consolidata in questo scambio reciproco fra vivi e morti; e poi c’è anche un film nel quale Totò muore per poter andare nel regno dei morti e da lì mandare ai familiari i numeri giusti per vincere un terno a lotto; purtroppo, però, dovrà accanitamente lottare contro la burocrazia che si annida anche nell’aldilà.
È, tuttavia, Matilde Serao, la scrittrice profondamente partenopea, a spiegarci cosa significhi il gioco del lotto per i napoletani:
«Per sei giorni alla settimana il popolo napoletano sogna il suo grande sogno, dove sono tutte le cose di cui è privato, una casa pulita, dell’aria salubre e fresca, un bel raggio di sole caldo per terra, un letto bianco e alto, un comò lucido, i maccheroni e la carne ogni giorno, e il litro di vino e la culla pel bimbo e la biancheria per la moglie e il cappello nuovo per il marito» (in Corvino: 63).
Il lotto coinvolge personaggi insoliti come il cabalista o l’assistito. Il primo è la persona capace di decodificare i sogni o gli avvenimenti imprevisti o “strani”, trasformandoli in numeri da giocare. È forse una tradizione antichissima che possiamo datare al tempo della scuola pitagorica per la quale i numeri avevano una funzione magica e insieme rivelatrice della realtà nascosta dal mistero; ma, tutti i napoletani, dice la Serao, anche gli analfabeti, conoscono a memoria la Smorfia ossia la Chiave dei sogni, uno strumento atto a individuare le corrispondenze tra figure e numeri.
Tra i personaggi che vivono a latere del lotto ci sono gli assistiti, operatori magico-religiosi che aiutano a “smorfiare” i sogni e gli accadimenti strani per ricavarne i numeri giusti da giocare. La comunità sa e accetta che essi vivano in una situazione di ambiguità tra la solidarietà con gli altri e l’impostura di una presunta arte divinatoria. Esisteva, infatti, tra l’assistito e gli altri, un rapporto di mutua solidarietà: «ci si prendeva cura di lui e questi in cambio avrebbe interpretato il mondo, l’avrebbe ordinato secondo i numeri, in qualche modo quindi rendendolo “leggibile” se non prevedibile, comunque comprensibile».
Al lotto è legata la Tombola, inventata dal popolo napoletano nei primi anni del 1700, quando Carlo III, convinto dalla Chiesa, proibì il gioco perché ritenuto immorale. La reazione della gente fu quella di inventarsi un altro gioco, con le stesse regole di ambo, terna e quaterna, ma con i novanta numeri del lotto estratti da un cestino e riportati nelle cartelle. In questo modo, grazie al lotto e alla tombola, la numerologia che, oltre ad essere usata metaforicamente nel linguaggio quotidiano (“gli dette un calcio sul ventitré”, cioè sul fondo schiena), è tra le principali strutture culturali del popolo partenopeo, tanto che Corvino può concludere: «Il lotto … a Napoli … è un modo per riordinare il mondo secondo novanta figure o numeri, è un produttore di socialità e di liturgie, ma al tempo stesso è un gioco che ha inglobato parte dei riti e dei miti di un mondo magico-religioso subalterno, che altrimenti sarebbe scomparso nel flusso della modernità».
L’arte di costruire presepi è universalmente riconosciuta ai napoletani, così specialmente nei mesi vicini al Natale, via san Gregorio Armeno è percorsa da migliaia di visitatori desiderosi di vedere questi oggetti di altissimo artigianato. Non è tanto questa attività artigianale e i suoi prodotti che interessano Corvino, ma il simbolismo dietro il quale si nascondono la filosofia e la concezione del mondo dei napoletani. Per dimostrare ciò, Corvino si serve della commedia di Edoardo De Filippo Natale in casa Cupiello. Analizzando alcune scene e il personaggio principale del dramma, Luca, Corvino così interpreta il senso della costruzione del presepe: «Il presepe – apparentemente un passatempo – diventa un mezzo salvifico che allontana il protagonista da una “matrigna natura”, da una realtà opprimente, disordinata e caotica. Il presepe è il cosmos che si oppone al caos: è opera creatrice e redentrice di una vita trascorsa lontano dalle dinamiche e problematiche familiari, rimaste da lui inascoltate».
Dal presepe si possono dedurre anche altri significati ed altre simbologie; per Roberto De Simone, per esempio, la disposizione dei “pastori” nel presepe rimanda al calendario contadino, e la presenza di Erode e dei bambini uccisi e smembrati riconduce «allo smembramento dell’anno trascorso».
Come tutti i visitatori sanno, nei presepi di via san Gregorio Armeno, coabitano figurine tradizionali e altre che riproducono protagonisti delle odierne vicende sportive, come il calcio, oppure delle cronache dello spettacolo (quante statuine di Totò e Peppino De Filippo!), e della contemporanea cronaca politica e sociale. Questa eterogeneità dei “pastori” dà a Corvino un’altra occasione per ribadire che
«la tradizione è un flusso in costante movimento. Flusso nel quale confluiscono sempre cose nuove, indipendentemente da ogni giudizio, volontà e rigidità dell’osservatore, con le conseguenze più insospettabili, spesso ironiche: se da un lato abbiamo assistito a uomini politici che “inventano” nuove tradizioni e nuovi riti, magari annacquati in fantomatiche acque celtiche, dall’altro, per una sorta di contrappasso, un luogo topico della tradizione cristiana come il presepe ospita tra i suoi personaggi gli stessi politici dalle fasulle e allucinate aspirazioni pagane».
«… I suoni percussivi, fenomeno considerato “elementare e primario”, risultano essere funzionali a permettere o accompagnare la comunicazione con il mondo ultraterreno, con coloro che lo abitano, nella duplice forma di cercarne il contatto, se considerati “potenti”, o in quella dell’allontanamento, se ritenuti nefasti». Sono parole di R. Needham, citato da Corvino, il quale ci ricorda che questi rumori sono prodotti in quei periodi in cui si celebrano i riti di passaggio. Naturale, dunque, che durante il periodo del solstizio invernale, che si estende, grosso modo, da Natale fino al Carnevale, e che costituisce un tempo in cui il rito del passaggio principale (dall’anno vecchio a quello nuovo) si moltiplica in tante feste cerimoniali, il fenomeno dei rumori si amplia fino a coprire quasi tutti i Paesi della Terra e si manifesta in migliaia di modi diversi.
A Napoli lo scoppio dei petardi, dei tricche-tracche, delle bombe-carta e perfino delle pistole ha il suo culmine nella notte di Capodanno; ma tutti i momenti sono buoni per salutare gli stessi piccoli cambiamenti quotidiani come sposalizi e compleanni. I petardi e i botti, detti anche “fuochi artificiali” richiamano il fuoco vero, quello dei falò e dei cippi, con i quali si festeggia un santo invernale come s. Antonio Abate che in un borgo di Napoli ha trovato la residenza ideale. Ed è in questo borgo che i ragazzini fanno incetta di legna e mobilio vecchio per dar vita ai fucaroni, ai falò bene augurali.
Il 17 gennaio è, nello stesso tempo, la festa di s. Antonio e l’inizio del carnevale: sant’Antuone – maschere e suone, dice un proverbio. Corvino illustra le molteplici tradizioni carnevalesche, quelle storiche e quelle attuali. Tra tutte ce n’è una che non è soltanto napoletana, perché è comune sia a tante parti d’Italia e dell’Europa, sia forse all’intera area indoeuropea. Si tratta di un rito che riguarda il passaggio dall’inverno alla primavera celebrato nel periodo tra il Carnevale e la mezza quaresima; esso ha come protagonista la vecchia, rappresentata da un pupazzo femminile che, dopo aver letto un testamento, è condannata a morte ed uccisa (in genere è bruciata, come si può vedere all’inizio del film di Fellini Amarcord). La vecchia rappresenta la natura che, nei mesi invernali va in letargo per ritornare giovane e feconda nell’approssimarsi della primavera. Questo rito in Umbria e in Toscana dà luogo, con il nome di segalavecchia, ad una rappresentazione teatrale itinerante della durata di circa venti minuti; i gruppi che la propongono vanno a recitarla e cantarla nelle case dei contadini ricevendo in cambio doni alimentari (in genere uova, farina e vino). A Napoli, mettendo insieme due elementi folklorici diversi, la vecchia è associata alla figura di Pulcinella, dando vita ad una maschera doppia. «L’allegrezza della gente si trasformava in entusiasmo furibondo quando nel circolo si avanzava barcollante Pulcinella a cavalcioni della vecchia: era il personaggio prediletto»: così scriveva E. Boutet, citato da Corvino. Una tradizione presente a Napoli e in area campana, che in qualche modo ricorda sia la vecchia tosco-umbra, sia il toscano Bruscello cosiddetto mogliazzo, è la Zeza, o Canzone della Zeza.
Un altro aspetto importante di Napoli, fino a rappresentarne una delle “curiosità”, è quello dei femmenielli, ragazzi che per cause ormonali hanno un corpo maschile e una psicologia femminile. Nelle società patriarcali e maschiliste l’omosessuale è stato visto con disprezzo ed ha avuto sempre vita difficile. A Napoli, invece, e, per quanto se ne sappia, presso alcune popolazioni indigene del Nord America, l’omosessuale, oltre ad essere tollerato, è stato sempre incluso e integrato nella comunità. Nei rioni partenopei, il femmeniello è un personaggio importante; si accetta tranquillamente la sua omosessualità ed, eventualmente, anche la sua tendenza a prostituirsi. Se ne ha conferma in una testimonianza letteraria recente: nella serie dei romanzi di Maurizio Di Giovanni, ispirata alla figura del commissario Ricciardi e ambientata nella Napoli degli anni ‘30 del Novecento, il brigadiere Maione ha un amico (o amica) femmeniello, di nome Bambinella, di cui si serve per avere notizie circolanti solo in certi ambienti equivoci.
L’omosessualità dei femmenielli a Napoli, pertanto, sembra non suscitare scandalo e per questo si guarda a loro con altra ottica: essi diventano personaggi di spicco proprio per la “diversità” che permette loro di agire con un anticonformismo non consentito ad altri: così svolgono nel quartiere il ruolo di animatori sociali, sono protagonisti della tombola, durante la quale estraggono i numeri e li annunciano mediante immagini della Smorfia, improvvisando storielle più o meno salaci.
Nel libro di Corvino non si parla di religiosità sentita come “fede”: tra culto dei morti, quello per sant’Antonio, san Biagio, la Madonna di Montevergine e san Gennaro è difficile rintracciare qualche briciolo di una fede qualsiasi: se c’è un qualche rapporto con la divinità (solo però con la Madonna) e con i santi, questo è di tipo superstizioso, feticistico a volte, e sempre basato su un rapporto di do ut des.
Tra i fenomeni religiosi più appariscenti c’è la devozione alla Madonna dell’Arco, con le sue paranze (forse le antiche societates juvenum), gruppi cioè di persone in divisa che percorrono le vie di Napoli con fanfara e toselli su cui è raffigurata la Madonna. Queste paranze hanno la funzione di questuare la somma necessaria per attuare il pellegrinaggio a Sant’Anastasia, paese nei dintorni di Napoli, dove si trova il santuario. Il pellegrinaggio si svolge con una corsa da Napoli al santuario, per questo i devoti sono chiamati fujenti (letteralmente, i corridori). Il sentimento di religiosità espresso da queste paranze, con urla, tarantelle e balli, è piuttosto primitivo, a volte ricorda quello dei tarantolati di Galatina. Roberto De Simone e Giovanni Vacca, riportati da Corvino, ne danno spiegazioni storiche e antropologiche convincenti.
La religiosità si manifesta a Napoli ed altrove anche con i cosiddetti ex voto. Chi crede di essersi salvato per un intervento celeste da una malattia, da un incidente di lavoro, da un incendio o un terremoto, sente poi il bisogno di manifestare la propria riconoscenza recandosi in pellegrinaggio nel luogo in cui è venerato il santo cui si è rivolto nel pericolo. Molte volte questa riconoscenza si manifesta anche con un ex voto, che può essere una gruccia se la guarigione riguardava una gamba, oppure un cuore in argento se una malattia cardiaca, e così via. Più spesso il “miracolato” portava al santuario una tavoletta su cui aveva fatto dipingere le scene del pericolo vissuto e l’intervento miracoloso. Si tratta di opere espressive, lontane da quelle che abitualmente chiamiamo “arte”, in cui, però, chiaramente si può leggere come funziona il linguaggio della cultura popolare. Michele Rak, riportato da Corvino, spiega in cosa consista l’originalità di quest’arte popolare:
«La pittura devota rappresentava il mondo del negativo che nessun pittore avrebbe potuto rappresentare sulle grandi e piccole tele della grande pittura: la difficoltà di un parto, la violenza palese della tortura o quelle segreta dei demoni cacciati con le forze delle preghiere e delle punizioni del corpo della donna posseduta [dal demonio]».
San Gennaro è certamente tra le figure più importanti della Napoli popolare e il miracolo dello scioglimento del suo sangue è addirittura diventato un fenomeno così clamoroso da richiamare l’attenzione delle televisioni e del pubblico nazionale. Tale “prodigio” è legato al valore simbolico che al sangue è stato attribuito fin dalla preistoria. Corvino percorre le tappe principali delle credenze che nel tempo hanno riguardato le reliquie del sangue e dei loro miracoli. A Napoli questo evento cominciò a manifestarsi nel 1389, dando vita a numerose fenomeni similari; lo scioglimento del sangue non riguarda, infatti, solo san Gennaro, perché esistono tante altre reliquie ematiche: quelle di s. Patrizia, s. Luigi Gonzaga, S. Stefano, s. Giovanni ed altre, anche di proprietà privata.
Di san Gennaro non abbiamo nessun dato biografico certo, tanto che il Concilio Vaticano II lo ha declassato, ma senza cancellarlo dal calendario liturgico, come è successo ad altri (santa Caterina d’Alessandria, sant’Urbano, per esempio), grazie alla solida e tradizionale devozione del popolo partenopeo. La mancanza di notizie sicure ha, però, dato via libera alla fantasia popolare che, mettendo insieme molte miracolose vicende inventate, ha finito per creare un mito.
Il “prodigio” dello scioglimento del sangue è messo da Corvino in rapporto con il culto delle anime pezzentelle e la venerazione dei crani, perché san Gennaro “fa” il miracolo solo se la teca in cui è contenuto il sangue è messa vicino con un’altra sua reliquia, quella del cranio. Nell’un caso e nell’altro, si tratta di morti “decollati”.
Corvino spiega anche come san Gennaro sia “uscito” dalla cattedrale per diventare il “santo del popolo”; ma non è il caso di andare a scomodare documenti di archivio e libri di storia, perché ci basta vedere, nel giorno del miracolo, l’una vicina alle altre, la faccia del cardinale che regge la reliquia e quelle dei popolani che invocano il “prodigio”, oppure andare con la mente al rapporto che la gente ha col santo: questi, oltre che patrono e protettore, è insieme fratello e amico che deve essere amato, ma che all’occorrenza può essere rimproverato e addirittura insultato (faccia ‘ngialluta).
Il libro di Corvino, nell’illustrare esaurientemente la cultura tradizionale dei napoletani, coglie l’occasione per dirci come nascono certi comportamenti, certe storie, certe tradizioni. A volte l’origine di alcune credenze avviene nell’incontro conflittuale tra una mentalità illetterata e una cultura alta. Esempio classico ne è la storia di Menocchio raccontata da Ginzburg ne Il formaggio e i vermi: il mugnaio friulano, leggendo la Bibbia e rapportandola alla sua esperienza e ai suoi parametri culturali, si inventa una cosmologia eretica che lo condurrà al rogo dell’Inquisizione. Oltre, però, a queste genesi particolari ce ne sono altre più banali alle quali si applicano “spiegazioni” che sembrano non avere una logica: se un bambino ha la facoltà di vedere gli spiriti, è perché durante il suo battesimo il sacerdote ha saltato alcune parole del formulario sacro; se don Michele, il personaggio di San Gennaro non dice mai no di Marotta, è diventato un assistito, è perché per lui è stato un trauma l’essere stato abbandonato della moglie.
Il volume di Corvino è certamente opera di divulgazione, è un lavoro che soddisfa qualche curiosità e che svela qualche mistero; si tratta comunque di un’ottima divulgazione, perché evita quasi sempre di cadere nel pittoresco (che semmai si deve a qualcuno degli autori citati); perché c’è sempre un riferimento puntuale alle ricerche d’archivio, alle interpretazioni che del folklore partenopeo hanno dato storici e antropologi, perché l’esposizione delle credenze e delle usanze diffuse tra il popolo di Napoli non perde mai di vista il quadro più generale dei processi storici e culturali che hanno interessato l’Italia e l’Europa.
È opera di ottima divulgazione perché, pur essendo costituito da più di trecento pagine, il racconto non stanca mai, caratterizzato com’è da una prosa fluida, agile, che spesso si appoggia a pagine di romanzieri e narratori (Mastriani, Serao, Scarfoglio, Marotta), che hanno fatto vivere la tradizioni culturali insieme con i loro personaggi; oppure si rifà ad un certo teatro e ad una certa filmografia in cui la rappresentazione di Napoli e della sua gente è resa attraverso la trattazione, tra il serio e il faceto, di stereotipi e tratti di mentalità popolare.
Attraverso l’opera di Corvino, dunque, Napoli ci appare non come un’isola, non come una città più strana di altre città italiane ed europee, bensì come un luogo in cui la straordinarietà caso mai consiste nel fatto che riescono a coesistere e a convivere fenomeni culturali diversissimi, e spesso contraddittori fra loro. Insomma, come diceva Ernesto De Martino: «La napoletanità esiste se e poiché tutto accade come se esistesse».
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
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Mariano Fresta, già docente presso il Liceo classico di Montepulciano, ha collaborato con Pietro Clemente, nella Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare (canti e proverbi), di alimentazione, di allestimenti museali (Tepotratos-Monticchiello), di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Tutti i suoi lavori si possono leggere in http//marianofresta.altervista.org.
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