«La Siria è il Paese del Male; dove il Male trionfa, lavora, inturgidisce come gli acini dell’uva sotto il sole d’Oriente. E dispiega tutti i suoi stati; l’avidità, l’odio, il fanatismo, l’assenza di ogni misericordia, dove persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi». Sono le parole che il giornalista de «La Stampa» Domenico Quirico, reduce dai centocinquantadue giorni di sequestro in Siria, ha usato per descrivere il Paese dove è stato imprigionato e umiliato¹.
Qualche mese fa è uscito un diario autobiografico che narra un’esperienza abissalmente peggiore, un faccia a faccia con l’orrore ambientato in quello stesso Paese del Male descritto da Quirico ma dalla durata temporale più di dieci volte superiore. Si tratta de La conchiglia. I miei anni nelle prigioni siriane (Castelvecchi 2014) di Mustafa Khalifa.
Musi – chiaro alter-ego dell’autore – è siriano e ha lasciato il suo paese per studiare cinematografia. E’ rimasto in Francia, a Parigi, per sei anni ma, una volta completati gli studi, decide di tornare in patria. Saluta la fidanzata Suzanne e prende un aereo Parigi-Damasco. Ma di Damasco vedrà soltanto l’aeroporto. Come era accaduto a Ulisse, qualcosa impedisce il suo ritorno a casa. Poco dopo l’atterraggio, viene infatti braccato da alcuni uomini senza nome, arrestato e condotto alla sede dei servizi segreti, accusato di essere un sovvertitore della patria al servizio dei Fratelli Musulmani, torturato.
Siamo in Siria, sotto il regime di Hafiz al-Asad, negli anni ’80 del Novecento: gli anni in cui, in seguito agli attacchi dinamitardi organizzati dalla Fratellanza Musulmana contro il governo e i suoi rappresentanti, aumenta la tensione e l’ostilità verso tutti i sospetti simpatizzanti dei ribelli.
Il protagonista, senza comprenderne inizialmente il motivo, si ritrova così catapultato all’inferno. Il suo viaggio di ritorno si trasforma in una discesa nel sottosuolo, in una catabasi che avrà la durata temporale agghiacciante di tredici anni tre mesi e tredici giorni. Tredici anni di torture, silenzio, perdita di umanità, di confronto serrato con la morte, trascorsi in un cubicolo claustrofobico di 25 mq. Ad inaugurare il suo ingresso, una scritta incisa su una lastra di pietra: La legge del taglione è garanzia di vita, o voi dagli intelletti sani, a che forse acquistiate timor di Dio, che ha lo stesso tono minaccioso delle parole che accolgono Dante alle soglie dell’Inferno.
Alla stregua di un Lager, la “Prigione del Deserto” di Tadmur assume fin dalle prime pagine del libro i connotati sinistri di un vero e proprio locus horridus, gelida in inverno e di un caldo asfissiante in estate, in cui gli aguzzini sono degli spietati robot che si divertono a ridicolizzare i detenuti e dove la disumanizzazione risulta la caratteristica più evidente, conseguenza di un rapporto continuo ed esasperato con l’esercizio della violenza. Uccidere diviene per i poliziotti un’azione “normale”, allo stesso modo di mangiare, dormire, parlare, camminare, così come lo è il morire per i carcerati.
Come aveva affermato Giorgio Agamben a proposito di Auschwitz, anche Tadmur è «precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano»². «Il regno della morte e della follia», l’ha definita il poeta di Homs, Faraj Bayraqdar.
Tadmur come Auschwitz, Guantanamo, Abu Ghraib, ma anche come i nostri CIE: tutti cronotopi del male che creano cortocircuiti implacabili al di là del tempo e dello spazio.
Avanzavamo. Giravamo.
Marciavo in quella fila che girava intorno al cortile, teste chine, occhi chiusi, tenendo in mano l’elastico del pigiama di colui che mi precedeva tirandomi a sé. Colui che mi seguiva teneva in mano l’elastico del mio pantalone tirandomi a sé. Avanzavamo. Giravamo. Mi domandavo, talvolta: “Cos’è che sono? Un essere umano, un animale, una cosa?”
Dimensione infernale e regressione a uno stato animalesco – o meglio, inumano (al pari di «una cosa») – si coniugano in questo girotondo di dolore e frustrazione che risulta una delle immagini più emblematiche del carcere di Tadmur, luogo che dimostra come la morte non sia l’opposto della vita bensì una sua parte integrante, visto che scandisce le giornate al posto degli orologi che sono stati sottratti ai detenuti al momento dell’arresto.
La forca è solo il modo più ufficiale e prevedibile in cui trovare la morte, ma nella Prigione del Deserto si può morire in mille altri modi e in qualunque momento della giornata. E anche la forca ha qualcosa di diverso: «Le forche non erano fisse. Non somigliavano a normali forche: di solito è il condannato a salire sulla forca; qui, era la forca che scendeva su di lui».
Ne Il pozzo e il pendolo di Edgar Allan Poe – non a caso parabola dell’atrocità delle pratiche dell’Inquisizione – lo sgomento coglie il narratore quando, osservando la figura del Tempo dipinta sul soffitto del luogo in cui è stato recluso, scopre che un pendolo dalla lama affilata, una «falce omicida», sta scendendo su di lui pronta a recidergli le membra.
Nelle esecuzioni di Tadmur la morte ha lo stesso movimento discendente che ha nel racconto di Poe: cala dall’alto come se fosse una punizione del Cielo. Ma la giustizia divina è l’assenza più tangibile in quel luogo di dolore, tanto che Musi si chiede più volte: «dov’è Dio?». E se lo chiede anche, in termini più sofferti e carichi di rabbia, Abu Sa’d, padre di tre figli che vede trascinare tutti insieme alla forca: «Tu, il Signore dell’Universo, sei dalla nostra parte o da quella dei tiranni? Finora, tutto indica che stai dalla loro parte!».
La mancanza totale di giustizia si concretizza nella cosiddetta “cella degli innocenti”: detenuti la cui innocenza è stata già accertata, ma che tuttavia continuano ad essere reclusi e torturati come gli altri. Le tipologie di prigionieri, a Tadmur, sono varie: ci sono i fedayin, i “votati al martirio”, coloro che si lasciano frustare al posto degli altri, che muoiono al posto degli altri per la sola tendenza all’abnegazione, frutto di una fede profonda. Ci sono quelli che sono divenuti pazzi, come il professore di geologia che resta ventiquattrore al giorno, estate e inverno, sotto le coperte, senza proferire parola, o come Yussef, che, in preda ai deliri, promette a Mustafa un esilio onirico e utopistico dal carcere, sulla sella di un cavallo sauro guidato da un fante interamente vestito di bianco. Ci sono, ancora, i buoni, coloro che, pur circondati dal male, sono rimasti capaci di azioni clementi e di grande generosità: come il dottor Zahi, che protegge Mustafa dalla smania omicida degli integralisti presenti in cella.
Si ha l’impressione che in qualche modo il protagonista finisca per abituarsi al male, che, a un certo punto, non ne ricerchi neanche più la motivazione ma se lo lasci scivolare addosso insieme alla normalità di giorni tutti uguali. Le pagine scorrono e con esse il tempo che Musi trascorre come prigioniero, ma ci si sente intrappolati in una dimensione spazio-temporale che sembra immobile, eterna: il cronotopo dell’orrore diventa dimensione ultima e definitiva della vita dei detenuti. E che per molti effettivamente lo è. Lo è per As’ad, ragazzino nel fiore degli anni che viene condannato a morte dopo aver trascorso più anni in cella che fuori.
Mustafa Khalifa ha visto con i propri occhi e toccato con le proprie mani l’orrore. Ha sguazzato per ben tredici anni all’interno di esso. Ne ha respirato l’odore, che spesso coincide con quello del sangue che sgorga dai corpi martoriati dei compagni di cella, o con quello dell’urina che i sergenti li costringono a bere. Ne ha tastato il sapore: quello dello sputo di un sergente dentro la sua bocca, ennesima modalità di umiliazione quotidiana.
Mustafa Khalifa ha vissuto l’orrore ed è stato in grado di narrarlo. Narrare qualcosa che di per sé non ha voce: il trauma, la morte. Esperienze estreme di fronte alle quali le reazioni più comuni sono due, opposte e inconciliabili: da una parte il mutismo, dall’altra una carica narrativa patologica:
Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più in generale, tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe) si dividono in due categorie ben distinte, con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Entrambi obbediscono a valide ragioni: tacciono coloro che provano più profondamente quel disagio che per semplificare ho chiamato ‘vergogna’, coloro che non si sentono in pace con se stessi, o le cui ferite ancora bruciano. Parlano, e spesso parlano molto, gli altri, obbedendo a spinte diverse. Parlano perché, a vari livelli di consapevolezza, ravvisano nella loro (anche se ormai lontana) prigionia il centro della loro vita, l’evento che nel bene e nel male ha segnato la loro esistenza intera (P. Levi, I sommersi e i salvati).
Khalifa reagisce alla seconda maniera. Come il vecchio marinaio di Coleridge, come Ulisse alla corte dei Feaci. come Privo Levi, appunto, inizia a sentire il bisogno implacabile e compulsivo di narrare. Che nel suo caso è un bisogno immediato, che emerge nel momento stesso in cui entra in prigione. In assenza di carta e penna, Musi sperimenta allora la cosiddetta “scrittura mentale”: «La scrittura mentale è un procedimento che è stato sviluppato dagli islamisti (…) Quando ho deciso di scrivere questo diario ero riuscito, grazie all’allenamento, a trasformare i pensieri in una sorta di nastro sul quale registrare tutto quello che vedevo e una parte di quello che sentivo».
Il suo è forse l’unico modo per restare vivo, per non farsi sommergere dalla disumanità. Identificandosi con la “figura testimoniale o di attestazione” – secondo la classificazione di Gérard Genette– Mustafa Khalifa diventa scrittore e riporta in una trasposizione fedele e incredibilmente nitida ciò che aveva già inciso sul nastro intangibile della sua memoria. Si tratta di una reazione che risulta ancora più comprensibile nel momento in cui Mustafa ci racconta di essere rimasto, per la maggior parte degli anni trascorsi in prigione e fino all’incontro con Nassim (colui che diventerà la sua “affinità elettiva” in quel covo di ostilità), in silenzio, con la “bocca chiusa ermeticamente” che “non si apriva se non per mangiare”. In quanto ateo, senza Dio, era stato infatti condannato dalla maggior parte dei suoi compagni di cella (musulmani integralisti) a un isolamento che lo priva anche dell’unico dei sentimenti umani che restano ai torturati: “la fratellanza nel dolore”, quella condivisione che rende uniti coloro che si ritrovano accomunati dallo stesso destino di sofferenza e si capiscono come naufraghi che parlano del comune accidente.
Il titolo del libro allude alla conchiglia dentro la quale si rifugia il protagonista, «un carapace costituito di due pareti: una forgiata dall’odio (…), l’altra dal terrore», corazza di apatia che lo isola dall’esterno, preservandolo. La conchiglia, inserendosi in un genere narrativo quale la letteratura politico-carceraria (lo stesso delle Prigioni di Silvio Pellico, de La Giornata di Ivan Denisovič di Solženicyn, di Se questo è un uomo di Primo Levi, così come de L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza e di molti altri) si collega al più ampio dibattito sulla possibilità di esprimere, attraverso la parola narrativa, l’orrore e su come quest’ultimo riesca talvolta a trasformare l’uomo nello scrittore.
In un articolo apparso su «La Repubblica» nel novembre del 2010, non senza un certo cinismo Umberto Eco scriveva che «la reclusione fa bene alla letteratura». Ma si può indubbiamente affermare anche un’altra cosa: che la letteratura faccia bene ai reclusi, ai reduci, nel senso più lato del termine (prigionieri di guerra, deportati, vittime di sequestri…), coincidendo con una sorta di catarsi, di purificazione dal male.
La memoria si fa racconto e gli oggetti che ne sono stati la sostanza (la fame, il freddo e l’afa, le percosse, le umiliazioni, la morte) vengono riassorbiti e neutralizzati per effetto del potere taumaturgico della scrittura. Ma c’è di più. Chi narra parla anche per conto di chi non ce l’ha fatta, di chi ha toccato il fondo, di chi non è tornato o è ritornato muto. Di chi, come Nassim, dopo aver visto tre tra i più giovani compagni di cella venire trascinati verso la forca, «non ha più pronunciato una parola».