Se il 14 luglio ricorda la storica giornata della rivoluzione francese del 1789, all’insegna di égalité, liberté e fraternité, il 13 luglio 2015 sarà forse ricordato come la capitolazione della Grecia, sotto i diktat della troika, all’insegna degli egoismi nazionali. Da una parte, un Paese indebitato e strozzato dalle sbagliate politiche d’austerity imposte dalla troika; dall’altra, i creditori strozzini, guidati da Frau Merkel, spalleggiata dal tetragono, irremovibile Schaeuble e con la complicità della tecno-burocrazia europea.
Dopo giornate drammatiche di braccio di ferro, che hanno evidenziato la prima vera crisi dell’Unione Europea, Tsipras ha dovuto cedere su tutti i fronti e firmare un accordo ancora più duro di quello bocciato dal referendum da lui voluto e votato dal popolo il 5 luglio. Un diktat umiliante che ha determinato una spaccatura di Syriza, un rimpasto di governo e nuove elezioni a settembre. Si è trattato della solita ricetta di sacrifici e tasse, di politiche di austerity e recessive, che porterà soltanto ulteriori sacrifici per il popolo greco, già ridotto alla fame. E che non permetteranno di uscire dalla crisi e di pagare il debito, senza una ristrutturazione dello stesso, come ha riconosciuto la stessa presidente del FMI, Christine Lagarde, dopo avere fatto ammenda degli errori passati.
L’Europa della solidarietà e della cooperazione dei popoli, della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza, così cara ad Altiero Spinelli e storicizzata nella Carta di Ventotene ma anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Europa e nel trattato di Lisbona, è stata svuotata dei suoi contenuti dalle oligarchie finanziarie, politiche, tecnocratiche e mediatiche, assestando un colpo mortale al sogno di un’unità politica europea, basata sulla coesione, cementata da valori comuni di amicizia, giustizia, eguaglianza, cooperazione e di difesa dei diritti sociali.
Se l’Europa che ha in mente il ceto dirigente europeo è quella contabile, dei numeri, dei ragionieri, un’Europa caratterizzata soltanto dal dio-denaro, dall’individualismo e da nazionalismi e competitività, o dalla divisione tra Paesi di serie A e di serie B, il cui principio fondativo è quello dissipativo “mors tua, vita mea”, non abbiamo che farcene. Se non si prenderà consapevolezza della crisi emersa dalla questione greca e le decisioni continueranno ad essere prese dalle tecnocrazie non elette, se non si avvierà velocemente un’unità politica europea, con un Parlamento europeo che decide e con un Governo europeo che ne sia l’espressione, controllato ed eventualmente sfiduciato dal Parlamento e se ciò non avverrà in tempi brevi, il progetto dell’Unione Europea sarà fallito. Allora sarà preferibile tentare di costruire al più presto un’unione fiscale e bancaria, oppure un’Europa più piccola, degli Stati che hanno a cuore quei valori etici sopra menzionati, magari un’Europa mediterranea, che colga l’occasione della nuova centralità del Mediterraneo, a seguito dello sviluppo dei Paesi asiatici e del raddoppio del Canale di Suez. In ogni caso, forse sarà opportuno ricordare ai nostri modesti governanti europei, da noi non eletti, che il principio fondante della natura è relazionale, a cominciare dalle particelle elementari della materia, comprese quelle del nostro corpo.
Se Atene piange, il meridione non ride. Il PIL del Mezzogiorno continua ad essere negativo da sette anni (-1,3%). Dal 2000 al 2013, la crescita del Sud è stata addirittura la metà di quella della Grecia. I consumi delle famiglie meridionali sono crollati del 13% e gli investimenti del 59%. Tra il 2008 e il 2014, la disoccupazione è al 20,4%, con una diminuzione dell’occupazione del 9%, tornando ai livelli del 1977. Il reddito medio del 62% dei meridionali è di 12 mila euro annui contro i 28,5% annui del centro-nord, con un divario del PIL pro capite del 53,7%. Ancora più critica è la situazione dei giovani e delle donne: soltanto il 20,8% dei giovani lavora e solo una donna su cinque. Una persona su tre è a rischio povertà. Un Mezzogiorno depresso, sconfortato, ma consapevole, che smette di mettere al mondo figli senza futuro. La perdita di risorse umane soprattutto giovanili, imprenditoriali ed economico-finanziare fanno temere che il Mezzogiorno non possa agganciare la ripresa e che possa precipitare, come rileva la puntuale analisi della Svimez, in “un sottosviluppo permanente”.
In altri termini, Nord e Sud sono sempre più disuguali, dopo oltre 150 anni di questione meridionale. Quest’ultima, infatti, è stata sempre al centro dell’attenzione nella storia dell’Italia unita e non è stata, come qualche volta si è detto, un’invenzione dei meridionalisti. Il problema dell’unificazione economica è stato sempre dibattuto come problema italiano, così come l’aveva considerato Giustino Fortunato sulla scia del motto di Mazzini: «L’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà». Tuttavia, i governi che si sono succeduti hanno trattato la questione del sottosviluppo del sud a corrente alternata, in modo frammentario e discontinuo. La prima guerra mondiale ha bloccato i parziali interventi dell’avviata legislazione speciale a favore del Meridione, spostando le risorse verso l’area industrializzata del Nord, determinando un aumento del divario tra Nord e Sud. Mussolini, nel 1925, aveva lanciato una propagandistica “battaglia del grano” ma, in effetti, il ventennio fascista è stato il periodo in cui il divario tra Nord e Sud è cresciuto di più. Caduto il fascismo, nel dopoguerra, c’è stato un rilancio della questione meridionale come problema nazionale. Proprio nel 1946 è stata costituita l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno (Svimez), il cui Manifesto programmatico, scritto dal presidente Morandi, indicava l’importanza nazionale della questione meridionale e la necessità di promuovere lo sviluppo industriale nel Mezzogiorno. Nel 1950, il governo De Gasperi ha rilanciato un piano d’investimenti pubblici nel Sud con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, la quale, però, già da subito veniva svuotata delle sue funzioni: scompariva l’industrializzazione progettata dalla Svimez e veniva ridotta l’autonomia amministrativa della Cassa, la cui funzione veniva definita strumentale nell’esecuzione del piano del Comitato dei ministri. Tutto il fronte liberista e le imprese del Nord definivano un doppione le industrie meridionali, immaginate da Morandi e da Saraceno. Tuttavia, nel primo quinquennio la funzione della Cassa è stata importante e vi sono state una serie di opere infrastrutturali e un vasto programma di irrigazione e di bonifica, ma è mancato un programma organico orientato a ridurre il divario Nord-Sud. Ciò ha fatto precipitare l’occupazione e determinato una ripresa dell’emigrazione interna ed esterna, che ha raggiunto, nel decennio 1954-1965, circa due milioni e mezzo di persone, contribuendo allo sviluppo del Nord.
Nel 1957, con il prolungamento della Cassa del Mezzogiorno fino al 1965, si è avviato di nuovo il processo di’industrializzazione nel Sud. Sono sorti come funghi alcuni impianti chimici e siderurgici in alcune regioni del Meridione, passati alla storia come “cattedrali nel deserto”, gestiti da “boiardi di Stato”, che crearono industrializzazione senza sviluppo. La fase della programmazione, cominciata negli anni sessanta, con l’obiettivo di cancellare il divario tra le due Italie, è rimasta lettera morta. In ogni caso, si può dire che il Mezzogiorno ha avuto un’attenzione particolare da parte della politica nazionale durante il quarto di secolo dal 1950 al 1975 ed è stato l’unico periodo della storia dell’Italia unita in cui si è ridotta la distanza tra Sud e Nord, pur se di pochissimo, in coincidenza con un decennio di grande espansione economica. Alla metà degli anni ’70, è cominciata un’altra stagione. La Cassa del Mezzogiorno, prorogata, nel 1976, per altri cinque anni, con l’attribuzione della gestione alle regioni, è stato un fallimento, perché le regioni non sono riuscite nemmeno ad eleggere i propri rappresentanti nel Consiglio d’amministrazione della Cassa. Non si sono fatti investimenti in settori a tecnologia avanzata, né finanziamenti adeguati per la ricerca, mentre dominavano interessi politico-clientelari. Negli anni ’80, l’affermazione del liberismo, adottato dal FMI, accentuerà la critica all’interventismo statale di stampo keynesiano e si avvierà un processo di deindustrializzazione del Meridione, che farà aumentare il divario tra Centro-Nord e Sud.
Agli inizi degli anni ’90, oltre all’intervento straordinario, sono cessati definitivamente anche l’attenzione e l’interesse per il Mezzogiorno e alla fine del ‘900, alla questione meridionale si è sostituita la questione settentrionale. Questa sì, è stata un’invenzione. Il nuovo millennio ha registrato la scomparsa del Mezzogiorno dall’agenda politica italiana. Dopo lo scoppio della crisi economica internazionale del 2007 e col forte debito pubblico italiano, si sono aggravate le condizioni del Meridione. Gli stessi stanziamenti che il governo Prodi aveva approntato per il periodo 2007-2013, per la cifra complessiva di 125 miliardi, di cui il 30% destinati al finanziamento di infrastrutture e servizi di trasporto, già dal 2008, a seguito della crisi mondiale, saranno stornati e utilizzati per rilanciare l’economia italiana.
Sempre la Svimez, nel 1988, aveva denunciato l’improduttività della spesa pubblica, ma sottolineava anche che il Mezzogiorno non soffriva di eccesso di risorse ma dell’incapacità ed efficacia della spesa. E ancora, nel 2011, smentiva l’idea falsa che di un Sud inondato di risorse e di una spesa pubblica comunitaria e nazionale c.d. aggiuntiva servita a compensare il deficit della spesa ordinaria negli ultimi anni, mentre sottolineava che, contrariamente a quel che si crede, i meridionali, in rapporto al PIL, pagano più imposte degli abitanti del Centro-Nord, soprattutto per quanto attiene le imposte comunali, che sono aumentate del 151%, mentre al Nord dell’82%.
Per concludere, ritengo di poter dire che la centralità del Mezzogiorno non è stata un’invenzione dei meridionalisti e tanto meno dei meridionali, come aveva con lungimiranza visto Mazzini. Il Sud dovrebbe avere le migliori infrastrutture del mondo con tutti i soldi arrivati prima dalla Cassa del Mezzogiorno, poi dall’Agenzia del Sud e infine dall’Europa, ma una classe dirigente mediocre, incapace e spesso corrotta o collusa con la mafia, ha utilizzato male i soldi pubblici, per progettini di piccolo cabotaggio, o addirittura è giunta al punto di non sfruttare neppure i cospicui sostegni dell’Unione Europea, tra l’altro distribuiti a pioggia e con scarsi controlli. In buona sostanza, oltre alle responsabilità dei governi nazionali, il vero ostacolo alla crescita del Mezzogiorno risiede nelle pratiche clientelari diffuse delle classi dirigenti meridionali, nella mentalità familistica e degli amici degli amici, nella formazione di un nuovo blocco sociale, più forte di quello agrario di un tempo, una “borghesia mafiosa”, contigua all’illegalità delle imprese criminali, che infiltrano la Pubblica Amministrazione e inquinano la fiducia dei cittadini, ma anche per colpa della scarsa partecipazione alla vita pubblica dei cittadini, abituati alla pratica dei favori e delle clientele.
Mentre si fa la TAV in Piemonte per guadagnare un’ora tra Torino e Lione, nel Sud non si elettrificano le ferrovie e non si fanno i doppi binari, né le strade e le autostrade e vi sono regioni come la Basilicata dove non c’è, in molte zone, la ferrovia. Dal Sud si continua a migrare, compresi gli insegnanti messi in ruolo, che non trovano cattedra nella loro regione di origine. Da anni, lo Stato non c’è ed invece avrebbe dovuto imitare la Germania, che ha investito ingenti cifre nell’Est arretrato.
In Sicilia, “l’antimafioso” Crocetta, che aveva promesso una rivoluzione, si è dimostrato anch’egli un gattopardiano, imbonitore e venditore di illusioni, che si circonda di personaggi poco raccomandabili, mentre l’Isola precipita in una crisi irreversibile e senza speranza. A Termini Imerese, insieme alla FIAT, che avrebbe dovuto cambiare il volto della Sicilia, sono sparite 120 imprese dell’indotto, mentre le soluzioni alternative di macchine elettriche latitano e si spera che a settembre ci sia una qualche decisione.
È ora di cambiare registro, perché investire nel Meridione significa accelerare lo sviluppo di tutto il Paese. Occorrono politiche d’investimento e di espansione con metodi nuovi, con controlli e con tecnici internazionali nominati dall’Europa, che gestiscano direttamente gli investimenti. Il Governo Renzi ha annunciato grandi cifre miliardarie per il Sud, ma si tratta di cifre in parte già stanziate o da sbloccare e per il resto si tratta di fondi europei. In ogni caso, tutto è rinviato a settembre.
Nel mentre, la disoccupazione non cala e la ripresa è assai timida; gli incendi di Fiumicino, i treni senza aria condizionata, il bel Paese, col suo patrimonio culturale più importante del mondo e il suo territorio che si vanno sgretolando sotto la furia della natura violata, offrono all’estero uno spettacolo di un Paese in decadenza. A fronte di tutto questo, il Governo sventola trionfalisticamente le riforme fatte e ne annuncia altre.
Renzi ha annunciato la rivoluzione fiscale e meno tasse per tutti, dopo la rivoluzione della buona scuola, del Jobs Act, della giustizia, della Pubblica Amministrazione della RAI, della legge elettorale e del Senato. Della buona scuola e del suo modello di riproduzione sociale abbiamo già detto (modello americano con i genitori ricchi che finanziano la scuola dei propri figli); per quanto attiene il Jobs Act, che avrebbe dovuto portare all’assunzione di un milione di lavoratori (giovani soprattutto), gli ultimi dati ci dicono che la disoccupazione è aumentata; la riforma della giustizia, va procedendo silenziosamente e a pezzetti, riduce indagini e intercettazioni e introduce la responsabilità civile dei giudici; la riforma della P. A. dovrebbe tagliare le leggi inutili o mai attuate; dimezzare del 50% i tempi dei procedimenti relativi alle grandi opere; introdurre l’obbligo di pubblicità e trasparenza della Pubblica Amministrazione e razionalizzare i bilanci, tra cui il taglio del 50% delle spese per le intercettazioni; introdurre norme sulla cittadinanza digitale, sulla riorganizzazione dello Stato, sul taglio delle prefetture e delle camere di commercio; riformare la dirigenza pubblica e il pubblico impiego; riordinare le partecipate. Naturalmente si tratta di una legge-delega e perciò bisogna aspettare i decreti attuativi per potere dare un giudizio sui contenuti.
La riforma del Senato, approvata già alla Camera, è un monstrum giuridico, che non approda al monocameralismo e quindi non corrisponde all’obiettivo che si diceva di volere raggiungere, cioè di un riduzione dei tempi di approvazione delle leggi. Esso rimane come Senato delle autonomie e con poteri importanti ma viene degradato ad un’accozzaglia di consiglieri regionali nominati. Penso che sarà difficile che gli attuali senatori, dove la legge giace attualmente per l’approvazione definitiva, riescano ad approvare la legge così come è, dato il logorio della maggioranza e il braccio di ferro ormai sempre più accentuato all’interno del Partito Democratico. È comunque augurabile che i senatori abbiano uno scatto d’orgoglio per introdurre l’elettività da parte dei cittadini.
Infine, per quanto riguarda la RAI, Matteo Renzi aveva annunciato, come i lettori ricorderanno, una vera rivoluzione: la politica fuori dal servizio pubblico. Ma la prima mossa, quella del rinnovo della presidenza, dell’amministratore delegato e dei consiglieri, conferma la logica della lottizzazione, con un rapporto privilegiato con Berlusconi. Si è parlato da più parti del rinnovo del “patto del Nazareno”. In verità, sembra più trattarsi dell’applicazione del vecchio adagio giuridico di origine medioevale, “Le mort saisit le vif”, sorto in Francia in materia di diritto di successione, per significare che, alla morte del defunto, i beni sono acquisiti dagli eredi. Espressione ripresa da Marx ne Il Capitale, a proposito dell’accumulazione della ricchezza e ripresa anche da Marcel Proust nella Recherche, nel senso che il successore è il continuatore della vita interrotta e che il noto sociologo francese Pierre Bourdieu utilizza per mostrare la relazione tra la storia realizzata e quella interiorizzata. Dopo la rottura sull’elezione del Presidente della Repubblica, Berlusconi non poteva certo non esserci quando si parla di assetto RAI e difesa del duopolio. Ed ecco che il morto sequestra, cattura il vivo e lo contamina. Dall’accordo nascono la nomina a Presidente della giornalista, ex direttrice di RAI News Monica Maggioni e dell’AD Antonio Campo Dall’Orto. A parte la trasformazione del direttore generale in amministratore delegato, indicato dal Governo e nominato dal nuovo Cda lottizzato con la legge Gasparri ed eletto dal Governo e dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene, tranne uno solo eletto dai dipendenti dell’azienda, la riforma vera sulla politica culturale, sui contenuti del servizio pubblico viene rinviata a un futuro incertus an e quando. La sostanza è che i partiti e il Governo che dovevano restare fuori dalla RAI, ne sono i padroni.
Fra le riforme vi sono anche sconti e meno carcere per chi evade le tasse fino a 150 mila euro, falso in bilancio annacquato: viene punito soltanto chi espone fatti non veri, mentre non si può entrare nel merito delle valutazioni; le sovrintendenze indebolite. Sembra che il governo abbia stanziato un miliardo e trecento milioni per opere pubbliche, pochi e tardivi, visto che soltanto gli investimenti pubblici possono rilanciare l’economia e l’occupazione. Sembra anche che abbia stanziato 12 miliardi per la banda larga. Vedremo.
I migranti senza patria e senza lavoro, che scappano da guerre, torture e fame, continuano per l’intanto a morire (oltre 2000 se ne contano soltanto quest’anno), o a scappare, a nascondersi, ridotti a nuovi schiavi o cacciati dalle diverse frontiere dell’“accogliente” Europa, soprattutto da parte di coloro che hanno scoperchiato il vaso di Pandora della Libia, attaccando Gheddafi. Si è ricordato il settantesimo anniversario del tragico epilogo della seconda guerra mondiale, in cui , tra il 6 e l’8 agosto 1945, la furia omicida e la necrofilia umana sganciavano due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, cancellando in pochi istanti due città e centinaia di migliaia dei suoi abitanti, ma le armi continuano ad essere il più grande business internazionale e non si riesce a trovare un accordo per mettere a bando almeno le armi nucleari.
L’Europa, che sventola la pace e la solidarietà, tace su tutto ciò, mentre l’ONU è diventata sempre più una semplice sigla, senza idee e iniziative, a rimorchio delle grandi potenze, che fanno quello che vogliono, imponendo la legge del più forte.
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014).
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