Giorno 10 Agosto 2016 ci ha lasciati un grande artista siciliano, Giusto Sucato. Nato a Palermo nel 1950, ha vissuto d’arte e lavorato ininterrottamente a Misilmeri, a contatto con un mondo contadino e agropastorale che ha ispirato i temi della sua ricerca estetica. Identificato dalla critica con il dio greco Efesto e denominato ladro di memorie, Giusto Sucato era affascinato dalle forme degli oggetti in cui si imbatteva, trovava la poesia nelle cose, era capace di guardarle con altri occhi, di entrarvi dentro per modificarle e risemantizzarle. La cifra caratteristica che contraddistingue la sua opera è proprio la trasformazione di scarti o rifiuti della società dei consumi e di reperti etnoantropologici in creazioni artistiche dove l’oggetto assume nuova forma e nuovo significato. Un incontro assolutamente casuale diventava l’occasione per approfondire nuovi temi della sua ricerca. Come quella vecchia porta a Godrano rivestita di chiodi e lamiera, tipico ingresso della cultura rurale siciliana, che ha ispirato la serie di porte su cui l’artista ha lavorato, affascinato dagli effetti della calce dipinta e dai colori scrostati che creavano una patina del tempo.
Era il 1981 quando queste opere venivano esposte all’Accademia di Belle Arti di Palermo, nella mostra “Le soglie della memoria” a cura del critico d’arte e animatore socio-culturale Francesco Carbone di cui Giusto Sucato divenne amico e stretto collaboratore. Il loro incontro, durato vent’anni, fu un vero e proprio sodalizio artistico grazie al quale il critico e l’artista giravano insieme in lungo e in largo la Sicilia; la ricerca autodidatta di Sucato si arricchì di occasioni, incontri, riflessioni critiche e nel 1983 fu inaugurato il Centro Studi, Ricerca e Documentazione “Godranopoli”, museo etnoantropologico e “luogo della memoria e dell’immaginazione”, come il suo fondatore Francesco Carbone amava definirlo.
L’etnografia pittorica di Sucato è andata avanti con lo studio dei muri e dei pavimenti delle antiche case, reinterpretati in quadri di medio e grande formato in cui lavorava su particolari di pareti con decorazioni damascate o su sezioni di pavimenti rivestite con ceramiche decorate e interrotte da rattoppi in cemento. Ogni oggetto carico di storia che incontrava lo recuperava, per rivisitarlo e renderlo attuale. Così, creatore indefesso, ha dato vita a numerose opere riconducibili al filone dell’arte neoantropologica, come testimonia, tra le altre, la mostra “Arte antropologica contemporanea in Sicilia” a cui ha partecipato insieme all’artista Calogero Barba a Partinico nel 1993.
Un altro incontro fortuito e ispiratore fu quello con i due lavatoi che Sucato trovò per caso al mercato di Cosenza e di cui rimase tanto colpito da acquistarli e portarli con sé nel suo studio in Sicilia. In quel momento (anni ’90), attraverso l’incontro con Ignazio Apolloni, aveva iniziato ad approfondire la poesia visiva, illustrando favole per adulti e sperimentando l’interazione tra testo e immagine. L’incontro con quei due “lavaturi” diventò il pretesto per unire i registri linguistici della pittura, scultura e scrittura in un’unica opera. Trattando le scanalature dei lavatoi come fossero le righe di un quaderno oppure di un pentagramma, Sucato cominciò a piantarvi chiodi storti e arrugginiti che diventarono segni di una scrittura illeggibile. Tali lavori colpirono molto l’attenzione non solo di Francesco Carbone, ma anche di Mirella Bentivoglio, poetessa, artista verbovisiva e curatrice che portò in mostra l’opera di Sucato in diversi musei nazionali e internazionali.
Il gusto per l’oggetto stornato dalla sua reale funzione e ripensato per nuove finalità riguarda anche la storia di quel tagliere che l’artista trovò in una discarica e che, una volta rivestito di chiodi e lattine, diventò il primo esemplare di una lunga serie di pesci che negli ultimi dieci anni Sucato non si stancò mai di produrre. Simbolo di rinascita e di vita, l’Ἰχθύς greco diventò un soggetto rappresentativo del suo stile, della sua ricerca e della sua poetica. Il critico d’arte e amico di Giusto, Gianfranco Labrosciano, scrive:
«Giusto è maestro del riciclaggio, di questi tempi tornato di moda come pratica che recupera in funzione estetica un oggetto della vita materiale per infondergli una vita dello spirito, più immanente e di più duratura consistenza, capace di proiettarsi oltre il tempo contingente e di andare al di là, oltre l’immenso serbatoio della vita. Forse per questo ha scelto i pesci, uno dei segni più potenti per significare l’invisibile, ciò che sta nel sommerso e che è lontano dalla vista» (dal Catalogo del mare, 2006).
Il percorso attraverso la fertile fantasia di Giusto Sucato non può non soffermarsi infine sulle sedie, curiose sculture in ferro che della sedia mantengono solo lo scheletro. In realtà si tratta di omaggi che lo scultore fa a grandi artisti richiamandoli con rimandi evidenti nell’opera, come la Ruota di biciletta di Duchamp, l’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, i marchingegni e le forme slanciate di Marinetti o quelle curve tanto care al grande architetto del Liberty palermitano, Ernesto Basile.
Che si tratti di oggetti sottratti alla quotidianità, di assemblaggi in ferro o sculture in legno, pitture, tavole e libri, ceramiche o disegni con immagini fiabesche scaturite da un universo creativo e visionario, le opere di Sucato appartengono sempre ad una dimensione ancestrale e rivelano il suo profondo legame con una terra che ha nutrito sovente la sua fantasia. Lo dimostra la serie di disegni realizzati a china e a pastello negli ultimi anni, in cui l’artista mette in scena una rappresentazione archetipica dell’origine della vita, una narrazione al femminile che racconta di una Sicilia mitica come di un luogo sacro popolato da esseri favolosi e leggendari.
Nel mare, trait d’union di tutte le opere, fluttuano pesci, colombe, personaggi alati, donne dai seni sporgenti e megere. Protagonista della narrazione è Triskele, la testa della Gorgone a tre gambe che si presenta con labbra carnose, naso pronunciato, occhi grandi e cosce paffute. Il suo volto, rigorosamente di profilo e sempre sereno anche quando solcato da lacrime, si mostra con un occhio che vede ogni cosa. Triskele assume ora la forma della Luna, ora del Sole con i raggi che sprigionano l’energia della terra di Demetra; veste i panni di una donna matura ed elegante; divarica le gambe nell’atto di essere ingravidata mostrando fieramente il suo fiore vaginale; si moltiplica e si mimetizza con i pesci; fa gli sberleffi e addenta le vesti di una megera alata. Immancabilmente i pesci popolano numerosi il regno di Poseidone, che diventa scenario naturale di miti e leggende siciliane come “La vecchia e l’aceto”, “Colapesce”, “Scilla e Cariddi”. Clori sparge i suoi fiori tra le scene, arricchendo l’atmosfera festosa e onirica, a tratti grottesca, di un pervasivo senso di rinnovamento e rinascita. Il racconto in bianco e nero è scandito da sporadiche comparse di colore giallo, verde e blu che sottolineano la carica vitale e la dimensione spirituale di una terra del mito e di una classicità perduta, ma allo stesso tempo ritrovata. Come scrive Ignazio Apolloni, «Giusto Sucato è un artista completo. Funambolico. Giocoliere. Può passare dal recupero dei reperti alle Muse; dalla canna da pesca alla pesca sciroppata».
Questi disegni appartengono all’ultima fase della sua carriera artistica, quando a causa delle sue condizioni di salute non ha più potuto costruire, tagliare, saldare in completa autonomia. In questo periodo ho avuto l’opportunità di incontrarlo e conoscerlo meglio, sia come artista che come uomo, finché è nata un’amicizia. Non smetteva mai di disegnare o dipingere, come se la matita e il pennello fossero le armi con cui lottava contro una malattia sempre più incalzante. È proprio la genuinità della sua arte, diventata la sua vita, ciò che più mi ha colpito. La sua creatività senza orpelli, l’impulso profondo a disegnare, dipingere, trasformare ogni oggetto in cui si imbatteva per caso.
Come testimoniano le sue case-studio a Misilmeri, Giusto Sucato ha vissuto la sua vita dentro le opere, animato da una forte smania di creare, dall’urgenza del fare e dell’immaginare. Lo stesso artista, in un’intervista di Vito Tursi del 2008, afferma: «L’arte è la libertà dell’uomo. Fare l’artista significa essere un uomo libero. Questa è stata la mia scelta». Come spinto da una necessità interiore, ha condotto la sua ricerca esistenziale attraverso l’artificio dell’arte che consente di oltrepassare le soglie di ciò che è visibile per trascendere la realtà, superarla e crearne una nuova, quella immaginata che dà luogo all’esperienza estetica.
Con riferimento a questa scelta il critico Labrosciano ha salutato l’amico Giusto il giorno del funerale, sottolineando come l’arte gli abbia concesso di creare una vita ancora più vera di quella reale. Mi auguro tanto che il mondo dell’arte e la Sicilia a cui tanto Giusto Sucato si è ispirato, sappiano dare alla sua opera il valore che merita. Intanto, per chi volesse conoscere meglio le sue opere, può trovarle esposte a Godrano, al Museo delle Trame Mediterranee di Gibellina, all’Atelier sul mare di Castel di Tusa, alla Fondazione La Verde-La Malfa di San Giovanni La Punta (CT) e in diversi musei nazionali. È possibile trovare informazioni sull’artista e sulla sua opera su facebook o sul sito www.giustosucato.siciliana.it.
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
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Irene Oliveri, laureata in Storia dell’Arte con una tesi in arte contemporanea dal titolo Site-specific. Dialoghi fra l’arte contemporanea e la città di Palermo (1998-2007), è abilitata all’insegnamento della Storia dell’arte negli istituti secondari. Dal 2012 è socia fondatrice dell’associazione In situ – Arte Turismo & Cultura con cui ha condotto una ricerca-azione sull’intellettuale e critico Francesco Carbone. Collabora con riviste e periodici e ha curato la mostra di Giusto Sucato “I disegni” presso Fabbrica 102 a Palermo (18 Novembre-6 Dicembre 2015). Ha maturato esperienze formative e lavorative nel campo della progettazione e organizzazione culturale, della valorizzazione del patrimonio culturale e della didattica dell’arte. Oggi frequenta il CRPC (corso per responsabile di progetti culturali) presso la Fondazione Fitzcarraldo di Torino.
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