di Mario Sarica
Nei cerimoniali di festa siciliani, celebrati nel nome di Madonne e Santi tutelari delle comunità, vitali e funzionali anche per le nuove generazioni, e ormai unici tratti distintivi d’identità e di appartenenza ad una storia comune – ultimo confine di resistenza della cultura popolare di tradizione orale all’invasiva e pervicace globalizzazione – fanno spesso irruzione figure di animali o di giganti, protagonisti di azioni rituali dalla forte carica simbolica e immaginifica, che rimandano ad un più vasto e lontano orizzonte storico-culturale isolano.
La scena festiva, nell’articolarsi delle sue azioni rituali, invade e sacralizza gli spazi della quotidianità, accogliendo in sé i segni forti della storia collettiva, rivendicando così un suo esclusivo carattere. La comunità, dunque, si autorappresenta, facendo interagire la sfera del sacro e quella del profano in una pluralità di segni e comportamenti. Una strategia utile un tempo a fronteggiare la precarietà del quotidiano legata al ciclo stagionale agro-pastorale, per rinsaldare i legami fra terra e cielo; oggi per illudersi, magari, di combattere lo spaesamento, il disorientamento del presente, la perdita del senso ultimo del vivere.
Un tempo fuori dal tempo, quello della festa, che riafferma i valori fondanti della comunità, che spesso sconfinano nel leggendario e prodigioso, in un ciclico e rassicurante ritorno stagionale, ancora oggi avvertito come bisogno primario anche dalle nuove generazioni, pur in un inevitabile slittamento semantico che si riempie di nuovi significati.
E così la figura del Cammello di Casalvecchio Siculo, già segnalata dal Pitrè, nel suo ottocentesco ed esemplare catalogo delle feste patronali in Sicilia, grazie alla puntuale cronaca fornita da Domenico Puzzolo-Sigillo, entra a pieno titolo nel variegato Bestiario, anche antropomorfo oltre che zoomorfo, vivo e vegeto, in alcuni casi, anche fuori dalle feste patronali, che irrompe nei cerimoniali siciliani, fra i quali ricordiamo U Sirpintazzu di Butera (Cl), l’Ussu di Saponara (Me), oltre che le figure selvatiche antropomorfe, come quelle dei Picurara di Antillo (Me), di Caruvà di S. Basilio a Novara di Sicilia (Me), dei Giudei di San Fratello (Me). Tutti a segnalare “plasticamente” l’incessante e perenne lotta condotta dall’uomo per il suo dominio incontrastato sulla natura ostile e oscura.
Com’è noto ampia è la letteratura riservata agli animali, che da sempre accompagnano la straordinaria avventura dell’uomo sulla terra, che si fa ad un certo tempo punto cacciatore, ma anche adoratore di animali sacri agli dèi, figure chiave nelle cosmogonie delle antiche culture superiori, da Oriente ad Occidente, sublimando sostanzialmente nell’immagine degli stessi animali oggetti di culto, vizi e virtù umane, in un catalogo simbolico-rituale cangiante e ambivalente nel corso dei secoli, con alterne fortune da parte degli animali.
Si pensi ad esempio, restando in Europa all’Orso, figura incontrastata nell’immaginario popolare, per secoli, come espressione regale, di potenza, di forza invincibile e di fecondità, usurpato dal Leone negli stessi simboli e significati. Ma ritorniamo al cammello, che suo malgrado, compare già nei testi biblici, in particolare nel Levitico e Deuteronomio, come animale impuro o immondo «perché rùmina e non ha l’unghia spartita» e che, per tali motivi, è proibito mangiare. Ma c’è dell’altro. Nello Zohar, il libro della tradizione cabalistica ebraica, i “cammelli volanti” sono paragonati ai draghi e ai serpenti alati, guardiani del Paradiso terrestre. Sempre secondo lo Zohar, il serpente della tentazione sarebbe stato un “cammello volante”. Ed ecco la parentela insospettata fra il cammello e U Sirpintazzu di Butera (Cl), cui si accennava prima, che si fa vivo, con la sua inquietante messa in scena, ogni anno per la Festa di san Rocco. Un animale quello del centro nisseno, degno di un Bestiario medievale, davvero mostruoso, che mostra i profili frammisti di un pesce e di un uccello. E il ritrovamento leggendario della sua carcassa, in un gioco affascinante di trame preistoriche e fervore immaginativo, ci riporta agli elefanti nani che hanno popolato la Sicilia nel paleolitico, i cui fossili con quella apertura centrale sulla fronte, che altro non è che il foro nasale, sono stati scambiati fino al Settecento (in una trasmissione di credenze e saperi, fin dagli autori classici) come resti dei giganti/ciclopi primi colonizzatori dell’Isola. Tra questi il più celebre, il Polifemo-pastore omerico, da cui prendono vita nel corso dei secoli e si legittimano i giganti di Mistretta (Gesanti, i guerrieri danzanti Cronos e Mitia attorno alla Madonna della Luce), quelli equestri messinesi (Mata e Grifone), che assumono caratteri poliformi, assorbendo istanze storiche, ideologiche, religiose, necessari ai sistemi culturali di potere, fino ad arrivare ai Santuna e Apustuluna, di San Cataldo, Aragona e Caltagirone, di inequivocabile marca cristiana, perché chiamati ad interpretare gli apostoli, nelle rappresentazioni della Settimana Santa.
Da attributo dell’anacoreta Onofrio ad espressione visiva dello sconfitto arabo in Sicilia
E dopo questa, credo, opportuna digressione, riprendiamo ad osservare il cammello, che cambia decisamente, è il caso di dire, pelle, nel cristianesimo medievale, dal momento che assurge a simbolo di temperanza, poiché in grado di resistere senza bere per molti giorni. Ma al cammello, peraltro, ben noto in tutta Europa, come animale da soma, e non solo come esempio di bestia esotica, si associa anche l’emblema dell’umiltà, poiché, al pari di Cristo, che sopporta il fardello dei peccati del mondo, simbolicamente, sopporta il fardello degli uomini. Lo stesso San Giovanni Battista, in segno di penitenza, si ricorda , «era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle intorno ai fianchi». Sul versante iconografico, a conferma peraltro del dominio dell’immagine, cui si affida, dalle incisioni rupestri in poi, la storia dell’umanità e del mondo, e la chiave figurativa di accesso nell’aldilà e le mediazioni con le figure del sacro, ancora sul cammello, c’è da segnalare che compare nei dipinti medievali e rinascimentali in scene che rappresentano “Giuseppe e i suoi fratelli”, “Rebecca al pozzo”, “L’esodo dall’Egitto” e “L’adorazione dei Magi”.
Alla luce di queste annotazioni, appare dunque del tutto pertinente che l’agiografia dei santi, a proposito del santo anacoreta Onofrio, vissuto in eremitaggio nel deserto egiziano, e morto nel V secolo, come ci racconta il monaco egiziano Pafnuzio (fu testimone della morte dell’anacoreta, cui diede sepoltura in una grotta), oltre a raffigurarlo come anziano nudo, coperto solo dei propri capelli, gli assegna figurativamente e con forte carica simbolica, oltre l’angelo, l’ostia e il calice, il teschio, il perizoma di foglie, un segno distintivo, come dire geografico e ambientale, ovvero il cammello, come esplicita espressione di umiltà e mitezza.
Il culto nei confronti dell’eremita “vegetariano” Onofrio, da Bisanzio si diffuse in tutta Europa, ed ebbe particolare fortuna in Sicilia, diventando fra l’altro assieme a Santa Rosalia e Benedetto il Moro, uno dei patroni della città di Palermo. E di quanto l’immagine del Santo, fissata nelle icone bizantine, soprattutto per la sua lunga barba, abbia dato alimento alla macchina prodigiosa, per forma e contenuto, della poesia popolare siciliana, declinata nella fattispecie all’orazione per ottenere l’intercessione del Santo, ecco questi coloriti, confidenziali e perentori versi:
Santu Nofriu pilusu-pilusu
Tuttu amabili e amurusu
Pi li vostri santi pila
Facitimi sta grazia
Diccà a stasira
Santu Nofriu pilusu-pilusu
Lu me cori è tuttu cunfusu
Pi li vostri santi pila
Facitimi sta grazia
Diccà a stasira
Sul cangiante percorso simbolico di cui sono stati protagonisti gli animali-icona, indispensabili alle strategie del potere religioso e temporale, e alla sua comunicazione per immagini, paradigmatica appare la singolare storia del cammello di Casalvecchio Siculo. Da originario attributo del Santo, il mansueto animale diventa, nell’immaginario popolare dei casalvetini, figura parodistica di Savoca, da deridere e sbeffeggiare, per rivendicare la propria indipendenza dal paese limitrofo dominante. Un giogo troppo pesante da cui liberarsi, quello sopportato dai casalvetini, attestato anche da questi versi popolari: Unni vidìti e saucoti,/Sparàtici: cunzùmunu casati! (Dove vedete passeri e savocesi,/Sparategli: consumano casate), cui replicano quelli, altrettanto pungenti, dei savocesi: Passai di San Petru è Basiliani…Mègghiu lu tempu di li Saracini…(Passai dalle parti di San Pietro dai Basiliani…/Meglio il tempo dei Saraceni). Versi, quest’ultimi, che richiamano l’arrivo del Gran Conte Ruggero il Normanno, che fonda, appunto, l’abbazia dei Santi Pietro e Paolo in Val d’Agrò, nel territorio di Casalvecchio E così, il profilo del cammello, con grande gioia per i casalvetini, nella sovrapposizione allegorica/figurata, non è altro che quello della doppia gobba del paesaggio di Savoca, che si osserva nitido da Casalvecchio Siculo, “vicini di casa” da deridere e tenere lontani!
L’azione rituale di festa: questua, danze orgiastiche e aggressioni alle prede femminili
L’azione rituale pomeridiana, preambolo profano alla festa (2^ domenica di settembre), che tutto concede, anche le trasgressioni, secondo dinamiche, in alcuni casi, di spiccata marca carnevalesca, previa implicita censura preventiva della comunità, vede in scena proprio il cammello, sagoma animata da due uomini, di cui uno regola anche l’apertura della famelica e insaziabile bocca, declinata spesso all’incessante ostinato ritmico del rullante, scortata dal suo conduttore/cammelliere, con meusa e vèrtula. «Un popolano camuffato da arabo cammelliere lo guida – si legge nel Pitrè – lo accarezza, ma esso pazzo, ora prende una boccata di calia dalla tenda dei cicirara, ora toglie un pezzo di panno dalla tenda di un franninaru». Un repertorio comportamentale, quello dell’amata figura del Cammello, che si ripete sostanzialmente uguale ancora oggi, grazie ai ragazzi della nuova generazione, che hanno assunto consapevolmente ed esemplarmente il ruolo cerimoniale, dopo il lungo “apprendistato” da adolescenti con il Cammello “baby”, una figura in scala, utilizzato dai ragazzi casalvetini, quasi in funzione pedagogica all’ombra dell’animale maggiore.
Il cammelliere sostanzialmente asseconda il sovraeccitato animale, anzi gli apre la strada, inseguendo e minacciando le frotte di ragazzi che gli si parano davanti, peraltro inutilmente, per sbarrargli la strada. Il veloce cammelliere li rincorre e li colpisce, se è il caso, con il suo bastone sempre volteggiante, mentre i ragazzi più audaci replicano con tono di sfida e di derisione i suoi atteggiamenti spavaldi. Dopo queste ripetute fughe in avanti, il cammelliere ritorna al fianco dell’imprevedibile animale, e lo rabbonisce con il suo nodoso bastone, regolando le sue azioni predatorie, di rapina fulminea, di aggressioni repentine soprattutto alle sue ricercate prede femminili. E così, quando meno te lo aspetti, ecco d’improvviso la rincorsa verso la “vittima predestinata”, fulmineamente la sua famelica bocca, simbolo massimo di lussuria e “passaggio verso il basso-grottesco”, cala tra le gambe delle malcapitate, sorprese ed irretite, tra scoppi di risa e ilarità degli astanti. Ma la sua bocca vorace è anche canale per la carta-moneta che i compaesani e i “forestieri” gli offrono, nel rituale della questua. Il suo spazio scenico si espande nei luoghi ordinari della quotidianità, la strada principale d’ingresso al paese, gli erti vicoli, le piazze. Spesso si sporge sulle finestre delle case, in cerca di questua, anche alimentare, per poi piombare sugli usci di casa, fra la malcelata compiacenza mista a sorpresa dei casalvetini. Smartphone alla mano tutti, grandi e piccoli, vogliono fissare in immagine il loro incontro con l’animale esotico, magari per postarlo o inviarlo ad amici in tempo reale. Ed ecco, foto ricordo di gruppo e selfie, che aiutano gli instancabili figuranti (sono quattro ragazzi che si danno il cambio, due per volta, lungo la vitalistica performace di oltre quattro ore) a rifiatare. Altro gesto rituale significativo e distintivo della maschera, la sua resa dinnanzi ai simboli architettonici del potere civile e religioso, il deferente inchino cerimoniale di sottomissione dinnanzi al Municipio e alla Chiesa Madre.
Un’espressione del diverso, dell’altro da sé, che mette paura ed ansia, quella del Cammello da cui bisogna prendere le distanze, se non si vuol rischiare troppo. E allora, per evitare, spiacevoli e incontrollate conseguenze, tanto vale concedere al Cammello la questua. È questo il prezzo da pagare al diverso, per acquietarlo e acquietare noi stessi e la nostra paurosa coscienza, per frenare le sue aggressioni. Così come succede oggi ritualmente e istintivamente ai semafori delle strade, al cospetto dei migranti dalle pelle scura, sconosciuti, e dunque potenzialmente pericolosi, ai quali concediamo pochi spiccioli.
Un plot narrativo di grande fisicità ed energia vitalistica, a tratti quasi orgiastico, contrappuntato anche da improvvise evoluzioni e balletti, scanditi dal rullante, quello proposto dal Camidddu casalvetino, quanto mai elementare, ma in grado di eccitare gli istinti primari, complice, anche, la percussione vorticosa e contagiosa del tamburo, affidato a due suonatori che si danno il cambio. Un’esperienza emozionale e sensoriale davvero coinvolgente, quello offerto dal Camiddu, dalla comunicazione immediata, e dall’immancabile coinvolgimento dei tanti spettatori-attori, che aspettano curiosi il suo passaggio, segnalato dal rullare costante e vertiginoso di un tamburo, un rullante per l’appunto (vede impegnati due suonatori, che si alternano lungo il percorso). Al fondale sonoro-ritmico dall’espressività caotica e dai profili parossistici, “pennellato” dal rullante, si somma quello aleatorio delle bubboline (ciancianeddi) fissate sulla testa e nella mandibola dell’animale esotico, necessari per rappresentare un animale sconosciuto, minaccioso, e dunque potenzialmente pericoloso, oltre al vociare orgiastico degli spettatori-attori.
Il suono eccitante del tamburo sulla scena del Cammello e i Normanni vincitori
Elemento costitutivo della maschera è dunque l’espressione sonora affidata all’incalzante battito ritmico del rullante, che rimanda ad una memoria percussiva remota, con precise funzioni comunicative-sensoriali, che trova proprio in epoca normanna significativi riscontri. Le fonti storiche d’epoca, cui si riconduce simbolicamente la performance del cammello, evidenziano che la funzione primaria del tamburo, quasi certamente a bandoliera, era quella di «esaltare gli istinti primordiali degli uomini e la loro violenza distruttiva, favorendo così l’estraniamento da sé. Il tamburo, il cui rullare prolungato e ripetitivo è più galvanizzante che musicale, richiama, fra l’altro, una sua specifica valenza erotica. Infatti, l’espressione battere il tamburo significa in epoca normanna e fino a tutto il XVIII sec. compiere l’atto sessuale». Ad attestare l’uso del tamburo nelle cavalcate trionfali e negli assedi in età normanna, basta scorrere le tante e puntuali cronache del Regnum Siciliae: «il suono delle cetre, gli squilli di tromba, il batter dei tamburi», ad esempio, in occasione dell’assalto di Ruggero a Trapani.
Tornando al cammello di Casalvecchio, c’è da evidenziare ancora che si mette in scena un copione con i paesani nel ruolo di comprimari, i quali stanno al gioco cerimoniale, ingrossando lungo il percorso il gruppo di curiosi, chiassosi e divertiti, che osservano, tra risate e battute, complici e compiaciute, le imprevedibili evoluzioni dell’animale e del suo conduttore. La funzione primaria dell’azione cerimoniale è evidente, quella della raccolta di beni alimentari e denaro, nella logica festiva dello spreco alimentare e dello sfarzo esibito offerto a se stessi e al Santo protettore.
A queste due pelli simbolico-rituali-allegoriche del Cammello – attributo del Santo e carattere allegorico.paradostico e questuante – bisogna però aggiungerne una terza, che emancipa l’animale dalla sua umile condizione di icona dell’anacoreta, per assumere quella regale, espressione di dominio, che lo tira a forza in un’epoca cruciale per le sorti della Sicilia, ovvero la cacciata degli arabi dalla Sicilia, da parte dei Normanni guidati dal carismatico Gran Conte Ruggero, a partire dal 1061. Ancora una volta, dunque, il vincitore di turno si affida ad una comunicazione visiva-iconica, e non potrebbe essere altrimenti, visto il dominio assoluto dell’oralità sulla scrittura, per inviare al popolo un messaggio chiaro e forte: l’arabo, che s’identifica nell’immagine del cammello, usurpatore da secoli delle terre cristiane siciliane è stato definitivamente sconfitto. Illuminante in tal senso il messaggio “urbi et orbi” che emana prorompente dal prezioso mantello di seta di Ruggero II, sottratto da Enrico VI, dal tesoro reale di Palermo, e trasferito prima in Germania (Norimberga) e poi in Austria, dove oggi di conserva al Museo imperiale di Vienna. Si tratta di un manufatto serico di color porpora del tiraz (opificio tessile) del palazzo reale di Palermo, del 1134, dovuto a raffinati maestri siculi-arabo-greci, dalla grande forma semicircolare, che raffigura al centro, in fili d’oro, una palma stilizzata simboleggiante l’Albero della vita, e specularmente ai lati il leone normanno, che ghermisce un cammello arabo, ad affermare la potenza della signoria degli Altavilla sugli odiosi infedeli cacciati dalla Sicilia. Sul bordo inferiore, in caratteri cufici, si legge l’anno di realizzazione, il 528 dell’Egira (1133-34) e ancora «Lavoro eseguito nella fiorente officina reale, con felicità e onore, impegno e perfezione, possenza ed efficienza, gloria e bellezza…».
L’area del cammello, come figura simbolo degli arabi, cacciati via dai Normanni che ricristianizzano la Sicilia, si estende nella cuspide nord-orientale dell’Isola, teatro, a più riprese, dello sbarco in Sicilia del popolo venuto dalle lontane nebbie del nord Europa. Di una maschera di cammello si ha una sbiadita memoria a Castroreale. Più vivida è quella che si conserva, sempre a livello di antico ricordo, a Monforte San Giorgio, associata alla Katabba, singolare e complessa sequenza sonoro-ritmica, affidata alle prime luci dell’alba e al tramonto, dal giorno di S. Antonio Abate alla vigilia della festa di S. Agata, a due campane e ad un tamburo a bandoliera. Si tratta di una vera e propria drammaturgia sonora, che evoca, con un’incalzante figurazione ritmica, la battaglia, la sconfitta degli arabi e la festa per la ritrovata pace e cristianità. In buona salute, invece, il Cammello messinese, che esce in corte, a metà agosto, con i mitici fondatori della città, i giganti-sposi a cavallo, la procace cammarota Mata e il bel principe straniero moro, Grifone, sancendo, di fatto, una pax multiculturale, che mescola leggenda, mito e storia. «Costituito da una leggera ossatura in legno, sulla quale si adattava una pelle completa di dromedario…Sotto erano due facchini…Tra i due portatori era legato un sacco dove si riponeva il ricavato della visita ai rioni della città. Attorno al Cammello erano un suonatore di cornamusa ed altri fanciulli mascherati. Costoro andavano giuocando e bagordando. Era una successione di movimenti, di smorfie, di dinoccolamenti, di corse di salti che il Cammello andava facendo per le piazze». Oggi la maschera dell’esotico animale messinese, in cartapesta, molto più naturalistica di quella di Casalvecchio Siculo, replica in parte il copione raccontato dalle cronache ottocentesche, mettendo in scena un esilarante repertorio di corse, aggressioni rituali, avendo tuttavia perso nel tempo la sua specifica funzione questuante, per assumere quella unicamente allegorica, scivolata, peraltro, nell’ombra, anche per la massiccia e impropria partecipazione al corteo ferragostano dei gruppi folkloristici. Questi ultimi hanno, infatti, sottratto lo spazio sonoro ritmico di danza rituale affidato, un tempo, ai tamburi a bandoliera, con un tema ritmico tradizionale, esclusivo, e all’espressività estemporanea dei tamburi a cornice (tammuredda), che si univano, assieme all’immancabile zampogna a paro (ciaramedda), in una scena sonoro-figurativa di grande impatto emotivo e di grande coinvolgimento di danza popolare spontanea, il cui fondamento storico si legittima nella memorabile «vittoria ottenuta dal Conte Ruggero, il quale fugati i Mori, entrò trionfalmente a Messina coi suoi soldati bagordando, e coi cammelli barbareschi carichi di spoglie». Oltre Stretto, c’è traccia del Cammello in Calabria, a S. Costantino di Briatico, e sembra in altri centri, dove «sfilava u camiju, cammello in cartapesta, legno e stoffa che veniva condotto per le vie del paese al ritmo di una tarantella in occasione di diverse feste religiose».
Rientrando in Sicilia, una singolare scena cerimoniale che vede ancora protagonista la figura del Cammello associata al vincitore normanno che sconfigge l’appiedato arabo assimilato, nella fattispecie, ad un “uomo selvaggio” è U camiddu e l’omu sabbaggiu di Santo Stefano Medio, casale a sud di Messina. Si tratta di due maschere pirotecniche antagoniste, che danno vita ad un duello da rubricare nel genere epico-cavalleresco, con figurazioni di danza, al suono di un balletto tipico ed esclusivo, eseguito dalla banda musicale locale. La scena pirotecnica-ballo-pantomima ha luogo sul sagrato della chiesa della Madonna dei Giardini, al rientro del fercolo del Santo Patrono, Antonio abate (17 gennaio). La performance cerimoniale proposta, al di là dell’etichetta di rievocazione storica attribuita, non è altra, sotto mentite spoglie, che quella ben più nota e presente in altre occasioni festive religiose di ambito urbano e rurale, esclusiva del territorio messinese, del Cavadduzzu e l’omu sabbaggiu (si attesta in occasione della festa del Pagghiaru, a Bordonaro, il 6 gennaio; l’ultima domenica di agosto, per la festa del Ringo/Gesù e Maria del Buon Viaggio; la prima domenica di settembre, Madonna delle Grazie, a Grotte; San Cosimo e Damiano, a Castanea, il 26 settembre, di cui sono artefici Gaetano e Lucia Ficarra, che si avvalgono della collaborazione di pirotecnici di Mongiuffi Melia, adottando i ruteddi pacci, tipiche della maschera pirotecnica du Sciccareddu di area Jonica). Di questa infatti ripete l’impianto narrativo antagonista e le identiche sagome/strutture pirotecniche, peraltro, da tempo immemorabile patrimonio esclusivo dei castiddhara peloritani (gli eredi oggi degli antichi maestri delle arti del fuoco, artefici di grandi macchine scenografiche sono i Ferlazzo e gli Arigò), limitandosi soltanto a fare indossare solo vaghi costumi arabeggianti all’omu sabbaggiu e attribuendo improbabili profili da cammello al cavadduzzu, domato dal normanno. E allora c’è da interrogarsi se la scena rituale di S. Stefano Medio, in mancanza allo stato attuale di riscontri storico-documentari, sia stata un’invenzione “registica” di datazione incerta, verosimilmente non molto lontana nel tempo, sollecitata dalla comunità, per mettere ordine nel palinsesto della sua storia, ridefinendo così nuove gerarchie fra memoria e identità, e potersi così fregiare di un titolo di spettacolo popolare esclusivo. Un’ipotesi verosimile, io ritengo, coerente e legittima, resa possibile dall’ampio spettro semantico offerto dalla maschera pirotecnica messinese, peraltro sembra eredità della cultura spagnola, in grado di accogliere in sé più istanze storico-simbolico-rituali.
Nel rispetto della tradizione anche la collocazione della scena pirotecnica all’interno della festa religiosa, spazio polisèmico per eccellenza. Al canonico modello gestuale e di figurazioni di danza della maschera pirotecnica messinese, contrappuntato da balletti/tarantelle, esclusivi, in almeno due casi (S. Stefano Medio e Bordonaro), nella fattispecie si conferiscono, dunque, come si diceva prima, da un lato le sembianze del Cammello (Cavadduzzu), sul quale secondo l’agiografia, fra storia e tradizione, fece il suo ingresso trionfante nella città del Peloro, nel 1061. il Gran Conte normanno, e dall’altro l’appiedato arabo (Omu sabbaggiu), con lancia e scudo di fuoco. Al suono bandistico di un balletto in tempo ternario, tema destinato espressamente all’azione cerimoniale, necessario a regolare in figurazioni di danza i gesti battaglieri, si consuma il destino dello sconfitto arabo-infedele, che alla fine cade esamine sulla piazza, sotto i colpi impietosi del normanno in groppa al Cammello. Uno schema narrativo, quello proposto dalla maschera pirotecnica di S. Stefano Medio, che, in più, gli conferisce i titoli per essere catalogato nel genere epico-cavallaresco di matrice normanna, di cui abbiamo numerose tracce cerimoniali in Sicilia (dalla Madonna delle Milizie di Scicli, al Palio dell’Assunta di Piazza Armerina, al Battimentu di Aidone, al Taratatà di Casteltermini).
Sul versante performativo, c’è da osservare che la maschera, liberata dalla patina di storicità, e riferita a quella originaria del Cavadduzzu e l’Omu sabbaggiu, grazie alla pluralità di codici di comunicazione che attiva (sonoro, musicale, visivo, gestuale, mimico), rimanda a un fondo di significati più remoto, grazie alla sua natura polisémica. E cìò è attestato dall’interazione sincronica di linguaggi diversi, irriducibili, ma in fondo complementari:da quello gestuale, appunto, antagonista, con il tema scontro Natura e Uomo, ribaltato peraltro in chiave carnevalesca – il selvaggio è l’uomo e non il cavallo, quindi si mette in scena un mondo alla rovescia – a quello sonoro-caotico delle fiaccole e fontane di fuoco (tipica la pisciata da basso-grottesco), contrapposto al suono bandistico, rigidamente formalizzato entro figurazioni rassicuranti, con questo eterno ritorno regolare del battito ritmico. Come dire che si contrappongono, da un punto di vista sonoro, il caos primigenio e il logos che tutto elabora in pensiero, generando assieme il pathos, il patire, il sentire, l’emozionarsi. E ancora a proposito del livello sonoro-luminoso prodotto dalle maschere pirotecniche, il riferimento corre dritto alle antiche cosmogonie delle culture superiori, che attribuiscono proprio al suono-luminoso il principio della creazione della vita, ovvero all’energia primordiale vibrante che aggrega gli elementi biochimici, da cui scaturiscono suoni e luce, e che solo in un secondo tempo diventano organismi viventi e materia, anch’essi risonanti.
Un’intrigante maschera pirotecnica animalesca all’ombra del Cammello
A chiusura delle riflessioni storico-simboliche attorno al Cammello, e alle sue tante pelli rituali, non si può non fare riferimento ad un’altra figura di animale che appare entro i confini cerimoniali della festa di S. Onofrio, con la sua misteriosa immagine pirotecnica, in scena la vigilia della festa del Santo Eremita. Si tratta di una maschera, per l’appunto sfavillante di luci policrome, che invade il teatro festivo, dando vita ad una danza caotica, scandita da un suono tradizionale di banda.
È l’atteso U sciccareddu, un tempo sembra presente in tanti altri contesti festivi dell’areale jonico messinese, e oggi “sopravvissuto”, oltre che a Casalvecchio Siculo, a Rina (frazione di Savoca), Alì, Nizza di Sicilia, e, soprattutto, a Gallo D’Oro, per la festa dell’Assunta, dove, peraltro, costituisce la maggiore attrattiva spettacolare, rivendicando la primogenitura proprio in questo piccolo centro della Vallis Aurea, con la variante rituale di Sceccu Pacciu.
Messo in ombra dal più accreditato Cammello, la maschera dello Sciccareddu va dunque ad arricchire il catalogo del bestiario rituale siciliano, suggerendo qualche rapida annotazione. Quella delle figure animalesche pirotecniche è una presenza cerimoniale, come detto, che si registra nella forma antagonista (Cavadduzzu e Omo sabbaggiu) solo nel contesto urbano messinese, mentre come maschera singola, sulla base di fonti orali e documentarie, in altri centri del Messinese, spingendosi fino a San Fratello, sul versante tirrenico, come attestato da una fotografia, dei primi del Novecento, di Benedetto Rubino, farmacista-demologo-fotografo, corrispondente di Giuseppe Pitrè.
L’azione rituale della maschera di Casalvecchio Siculo, che nella sua morfologia pirotecnica più che ad un asino è assimilabile ad un drago mostruoso, con le sue quattro ruteddi pacci (alla “spagnola”) collocate non a caso all’altezza dei quattro arti della malefica bestia, oltre alle decine di fiaccole che disegnano il suo minaccioso profilo, appare, a mio avviso, quanto mai paradigmatica, in quanto rimanda ad un remoto fondo rituale di immaginario popolare, che prende forma sonoro-luminosa sulla scena festiva, obbedendo ad una strategia figurativa e gestuale-mimica atta a esorcizzare le figure del male in grado di minacciare la vita della comunità, rimandando alla memoria rituale del fuoco dalla natura ambivalente, in grado di purificare e dare la vita o di distruggere e trasformare in cenere ogni cosa. L’interazione poi dei codici sonoro-luminoso, musicale, gestuale-mimico, come evidenziato nel caso del Cavadduzzu e dell’Omo sabbaggiu, suggerisce tutta una serie di rimandi a chiavi interpretative rituali-simboliche di arcaica memoria, incentrate sull’ambivalenza del fuoco (vita vs morte-luce vs tenebre) e della figurazione mostruosa dell’animale, che incarna il male da espellere dalla comunità.
Attribuire a questa figura inquietante, che assume movenze di danza al suono di un tema musicale tradizionale eseguito dalla banda, le forme rassicuranti di un asino appare, poi, io credo, un tentativo per ricondurre la maschera pirotecnica ad un animale domestico familiare, appunto l’asino, facilmente addomesticabile che, tuttavia, vanta una significativa storia simbolica ambivalente. Nella tradizione cristiana è infatti simbolo di «recalcitrante superbia e nel contempo di paziente umiltà, associandolo con la terra, il sottoterra e l’oro».
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
(*) Il tema di questo articolo riprende e amplia una comunicazione proposta nell’ambito dell’incontro di studio “U Camiddu di Casalvecchio Siculo, allegoria della memoria storica dall’epopea di Ruggero il Normanno ai giorni nostri”, avuto luogo nel centro della valle d’Agrò, sabato 5 settembre 2015.
Riferimenti bibliografici
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Isabella Vicentini, Atene. Tra i muscoli dei Ciclopi, Unicopli, Milano, 2002
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, rivolgendo un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
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