di Sara Raimondi
Questo articolo nasce da alcune riflessioni che sono emerse nel corso di un anno in seguito a numerose ore passate in un luogo che frequento nel tempo libero; eppure, si sa, per un antropologo ogni situazione genera domande e la voglia di applicare l’osservazione partecipante prende il sopravvento. A partire dal 2017 ho iniziato a frequentare la Palestra Digitale Makeit di Modena, uno spazio messo a disposizione dal Comune dove i più svariati gruppi si incontrano per discutere di digitale, tecnologia, modellismo e making. Dai corsi per la programmazione con Arduino, alla possibilità di creare oggetti con la stampante 3D, fino a workshop di robotica e domotica, ogni attività viene svolta dando la massima rilevanza alla collaborazione, alla condivisione di conoscenze e di know-how, tanto che si è creata una vera e propria comunità di makers.
Ma, come spesso accade in questi contesti, le donne sono poche rispetto ad un gruppo fatto per lo più di uomini, nonostante gli innumerevoli sforzi della direzione della palestra per stimolare la partecipazione di ragazze più o meno giovani, interessate alla tecnologia e al digitale. Era perciò inevitabile che, come antropologa, riflettessi sulle dinamiche di gender in ambito tech, perciò ho partecipato alla settimana Rosa Digitale tenutasi dal 2 al 12 marzo, organizzata dal Comune di Carpi, e partecipo tuttora al gruppo Tech Girls Sharing che si incontra mensilmente per condividere saperi e fare workshop di programmazione e making. Queste sono le situazioni che sono di fatto diventate il mio campo di indagine.
Non voglio in questa sede descrivere le motivazioni che nel corso della storia sono state utilizzate per giustificare la contrapposizione uomo-donna in ambito tecnologico e scientifico, perché molto è stato scritto sia in Italia che all’estero e un riassunto esaustivo in un unico articolo sarebbe impensabile. Soprattutto, e qui credo stia la bellezza delle donne che ho conosciuto in questi mesi, all’interno dei gruppi e nel corso degli incontri a cui ho partecipato, la presunta superiorità maschile in ambito tecnologico – il più delle volte – non viene neppure menzionata: è considerata inesistente, quindi non ha alcun senso discuterne. Allora come si pongono questi aggregati di donne rispetto alla soggettività femminile? Vi riflettono? Se lo fanno, a quale dinamica femminista fanno riferimento? Come si delinea il rapporto donne-tecnologia sia nella teoria che nella pratica?
Il gruppo delle Tech Girls Sharing si è rivelato estremamente eterogeneo da numerosi punti di vista: l’età, il percorso di studi (in alcuni casi ancora non terminato), le esperienze lavorative e le conoscenze in ambito tecnologico. Si va da ragazze che ancora non hanno venticinque anni a persone oltre i cinquanta anni, ci sono donne che lavorano nella programmazione (chi programma macchine utensili con Cad Cam, chi invece lavora come front-end), ma anche quelle che si occupano della parte amministrativa o commerciale di aziende nel settore tecnologico e vogliono approfondire il tema, mentre altre (come è il mio caso) partecipano agli incontri solo come hobby. Quello che emerge – come molte teorie femministe sottolineano attualmente – è che la soggettività femminile non è univoca, ma multipla, composita. «“Corpo” significa in realtà riferirsi agli infiniti corpi delle singole persone, tutti diversi e non assimilabili né sovrapponibili» scrive Donini citando Irigaray (Donini, 1988:167), così non c’è un’unica donna che le può rappresentare tutte. Quindi parlare di donne mi è risultato in parte una forzatura, come se perpetrassi quella violenta visione della realtà dove il genere ha una natura ben definita e chiara. Userò comunque il termine donne, perché è questo che siamo io e le altre partecipanti, ma vorrei chiarire che ciò che descrivo è solo e soltanto quel contesto specifico e non può dare conto di tutte le casistiche possibili.
Possiamo però chiederci come si descrivono queste donne. È ovviamente difficile riuscire qui ad accennare ad ogni esperienza di vita, al percorso delle singole ma un fil rouge è emerso già nel primo incontro: la tecnologia in molti casi è una strada scelta, a volte prima a volte dopo, nonostante alcune difficoltà, per ottenere qualcosa in più dal mondo del lavoro, per un riscatto professionale o per dare davvero significato alla propria carriera, ma anche come passione.
In alcuni casi ci sono stati commenti rispetto alle difficoltà di inserimento e di integrazione in un ambiente di lavoro a maggioranza maschile, dove ancora si vede con diffidenza la presenza di una donna, considerata spesso come ancella rispetto ad un uomo-guida. Molte quindi descrivono un passato – e a volte un presente – che rientra nel «doppio regime di identità» (Gagliasso, 1988: 69) dove da un lato sul lavoro si esprime la razionalità neutra e solo a casa può affiorare il lato della “femminilità irrazionale” (sic).
Nonostante si sia ribadito come, a volte, il sesso femminile sia percepito come incompatibile alla scienza e alla tecnologia, rispetto ad una soggettività maschile più affine alle scienze dure, in uno dei diversi incontri della settimana Rosa Digitale sono state le caratteristiche più prettamente femminili ad essere evidenziate come punti di forza. La relatrice dell’incontro Leader and Leadership ha messo le ascoltatrici di fronte alle due caratteristiche più assegnate alle donne: la maternità, onere e onore del secondo sesso, e il multitasking, descrivendola come la capacità di adattamento che è necessario attuare per gestire lavoro e famiglia. Ma questi due fuochi dell’ellisse non sono stati descritti come un limite da superare, i due fattori di cui sbarazzarsi per diventare come la controparte maschile, al contrario si è cercato di fare leva su queste peculiarità, invitando le presenti non solo ad abbracciarle ma a rafforzarle.
Attenzione, queste non erano frasi che invitavano ad una ripresa della figura tradizionale femminile. Invece, così come il corpo della donna cambia, si adatta e si modifica enormemente durante la gestazione, allo stesso modo ogni donna può adattarsi, allinearsi e plasmare la sua vita affrontando trasformazioni inaspettate del contesto; anche il multitasking, il procedere su strade multiple che sembra essere contrario alla schematicità maschile, può essere una risorsa importante da mettere in gioco, in un mondo professionale che richiede sempre più elasticità mentale. Si trattava quindi di focalizzare l’attenzione su quelle qualità considerate per lo più femminili e rimarcare il fatto che non abbiano nulla da invidiare alle capacità di un uomo sul lavoro, anzi, possono essere una valida risorsa da offrire in un mondo come quello tecnologico dove forse la schematicità e l’univocità di pensiero sono predominanti.
L’approccio alla tecnologia delle donne che partecipano agli incontri Tech Girls Sharing, come anche quello delle altre ragazze che frequentano la palestra digitale, tratteggia un femminismo concreto e propositivo. Non si parla di teorie femministe, di prese di posizione politica né, soprattutto, di una immaginata identità femminile che negli anni si è rivelata inesistente e problematica. Come afferma Judith Butler: «presupporre […] che questa categoria è essenzialmente incompleta può renderla uno spazio sempre disponibile ad accogliere significati in discussione. L’incompletezza definitoria della categoria può dunque servire come ideale normativo alleggerito della forza coercitiva» (Butler, 1990: 24-25). All’interno della Palestra Digitale emerge appunto un femminismo non esclusivo, che non crea soggettività preconfezionate, ben caratterizzate ma aperto ed accogliente. Manca di riflessione su se stesso e la sua forza sta appunto nel non domandarsi cosa sia l’essere donne nel settore tecnologico, ma semplicemente agire in questo campo portando le proprie competenze e la propria soggettività fatta anche – non soltanto – dell’essere donne.
Con il proseguire degli incontri, inoltre, non ho potuto evitare di fare un confronto tra le mie precedenti convinzioni rispetto alla tecnologia e al mondo dei makers, che avevo sviluppato in un breve video-documentario, e ciò che stavo osservando lavorando con le ragazze. Nei precedenti mesi di studio e registrazione mi ero focalizzata sul rapporto uomo-tecnologia, concentrandomi su come quest’ultima avesse modificato la cultura umana e le aspettative cognitive che avevamo nei confronti dei computer e dei robot, anche sospinta da una vasta letteratura transumanista. All’interno di questo movimento l’uomo è descritto nuovamente come dicotomia cartesiana, aggiornata però alla sua versione post-moderna. Dai testi si evince la distinzione tra una materialità corporea, ancora legata alle sue funzioni biologiche e “naturali”, mentre la mente è un insieme di connessioni neuronali, più vicini all’impalpabilità e all’astrattezza, e sono ciò che ci allontana dalla natura brutale, sono ciò che ci ha resi uomini. Il transumanesimo quindi esalta questa separazione e vi inserisce tecnologia come mezzo per migliorare le prestazioni umane sia corporee che fisiche, per superare i deficit naturali dell’uomo. Ne consegue una inevitabile contrapposizione uomo-macchina e numerose considerazioni su come quest’ultima stia via via superando le capacità dell’uomo.
Queste domande non le ho riscontrate soltanto all’interno dei testi accademici di filosofi, antropologi, biologi ma era materia di discussione anche durante le serate all’interno della Palestra Digitale. L’uomo sarà mai superato dalla macchina? O forse lo è già? Ed è importante tenere in considerazione che per i makers il confronto con la tecnologia non è mai solo sul piano teorico, anzi è spesso sul versante pratico: perché il programma non funziona? Perché l’oggetto non si muove come voglio io? Come mai il sensore non percepisce correttamente e il mio robot va a sbattere? Queste sono domande che esemplificano le difficoltà che si possono incontrare quando la mente umana si scontra con la mente della macchina e i due linguaggi non sempre si riescono a sovrapporre. Si entra nella situazione dove la creazione (la macchina) non risponde più al suo creatore (il maker).
L’opposizione uomo-macchina è diventata oltremodo cruciale all’interno del mondo contemporaneo. La tecnologia è di fatto il modo con cui cerchiamo di «dominare la natura adottando le conoscenze fornite dalla scienza, e la tecnologia dell’artificiale tenta di riprodurre qualche cosa che esiste in natura». (Combi, 2000:82) Ci dimentichiamo però che anche l’essere umano è parte del mondo naturale e che così facendo poniamo di fatto le basi – da cui il timore – anche per il superamento delle capacità umane. Questa visione del prossimo futuro configura l’Altro non più come il diverso culturale, ma come il diverso materiale: il cyborg dotato di A.I. parlerà, penserà, domanderà esattamente come noi pur essendo fatto di fili, ingranaggi, software e hardware. L’Altro è ora la macchina ed era una convinzione che si palesava ogni volta che entravo in Palestra Digitale.
Con l’avvento e la diffusione delle nuove tecnologie la retorica intorno alle scienze vuole che il corpo sia diventato impuro, limitato e limitante (Antinucci, 1994:18) – in particolar modo quello femminile – contro un mondo fatto di scienza sovrasensibile, di codici di programmazione, di reti impalpabili che ci connettono. Privando la materialità del suo valore, dimenticandoci a volte del peso che ha, le diamo in realtà ancora più potere: come afferma La Cecla «la nostra cultura “fa finta” […] che gli oggetti siano morti, cioè professa una strana metafisica della neutralità e dell’inefficacia delle cose che chiama “materialismo”» (2013: 40). Ma a ben vedere gli oggetti, gli strumenti e la materialità in generale hanno avuto un’importanza cruciale per l’uomo.
Ciò che dagli albori della cultura si è identificato come non-umano e che ha influenzato l’evoluzione della specie homo è cambiato nel corso dei secoli: dapprima il confronto con una natura maligna e i diversi tentativi di controllarla, poi la riverenza verso il mondo animale che è sfociata nello studio delle caratteristiche che li rendono diversi da noi, infine un confronto con il somato-landscape (Marchesini, 2002: 208). Seguendo le parole di Roberto Marchesini «il sistema uomo ha pertanto la caratteristica di non essere auto-riferito proprio perché, partendo da una notevole complessità di relazioni parentali e da una forte tendenza all’immaturità e al procrastinare il periodo giovanile, l’uomo viene educato dal mondo esterno» (2002: 63). Anche la tecnologia ha sempre fatto parte di questo Altro, già con i primi strumenti utilizzati nel corso della preistoria.
Quindi non dobbiamo stupirci particolarmente se i piccoli prodotti della microtecnologia sono imitazioni di insetti: la cimice che registra, le microtelecamere in volo come mosche che possono osservare dall’alto fino alla recente proposta dei droni-api impollinatori. Come scrive Marchesini la visione antropocentrica che spesso sta alla base del transumanesimo attribuisce alla tecnologia due diversi ruoli: essa è in un caso lo strumento, il mezzo vuoto, del compimento della natura umana, oppure è il nemico, una minaccia in quanto essa ha in progetto l’asservimento degli uomini (Marchesini, 2002: 247).
Marchesini però omette un’altra sfera dell’alterità, che è appunto quella femminile su cui mi ero concentrata all’inizio e su cui ora vorrei tornare. All’interno del settore tecnologico la donna, come la macchina, è qualcosa che non sempre si può controllare o capire: è colei che va oltre ciò che si riteneva possibile. Un esempio di questa convinzione è riscontrabile nel testo Madri, mostri, macchine di Rosi Braidotti, in cui l’autrice chiarisce molto bene come l’Altro, il deviante, nel corso dei decenni sia stato associato al mostro, alla creazione aberrante della tecnologia; al contempo anche la donna è mostruosa e pericolosa il cui corpo è «soglia dell’esistenza, [e] allo stesso tempo sacro e putrido, santificato e profano» (1996:27). La donna è in uno spazio sacro, come scrive Ida Magli nell’opera Il Mulino di Ofelia. Le sue posizioni sul femminismo non sono sempre condivisibili, ma certamente ha individuato la connessione tra la donna e il trascendente e ha esplicitato come questa relazione abbia stabilito le fondamenta della marginalizzazione della donna.
Ne possiamo dedurre che la donna e la tecnologia condividano lo stesso spazio di alterità, di alienazione. Non è un caso che il primo robot che può concorrere alla qualifica di essere “umano” sia stato creato ad immagine e somiglianza di una donna. È Sophia, della Hanson Robotics, la cui straordinarietà ha scosso numerosi mass media fino ad essere sulla copertina del noto settimanale D. Repubblica nel numero del 13 gennaio 2018. La straordinarietà di questo cyborg sta proprio nel fatto che è il primo prodotto che può interagire autonomamente con gli esseri umani rispondendo e ponendo domande, cantando, facendosi intervistare e raccontando barzellette. È una macchina integrata di 65 espressioni facciali, un vocabolario registrato e la capacità di accede a Internet, fatto che le permette di avere una memoria praticamente infinita.
Il confine uomo-macchina è stato superato nel 2017 quando Sophia è stata invitata a parlare all’Onu e ha ricevuto la cittadinanza da parte dell’Arabia Saudita, un paradosso pesante se si pensa alle criticità di questo Stato intorno al tema dei diritti delle donne. In questo caso la donna, l’alterità rispetto al maschio, è totalmente integrata nell’alterità tecnologica. Difficile non porsi delle domande rispetto al fatto che il primo robot che si prevede superi il test di Turing abbia ricevuto un’identità femminile.
La partecipazione alle attività della Palestra Digitale, agli incontri Tech Girls Sharing e Rosa Digitale hanno messo in luce come l’opposizione uomo-donna e uomo-macchina siano in realtà dicotomie artificiose e che necessitano di essere superate. Anzi proprio le attività dei gruppi femminili hanno mostrato come la tecnologia non debba essere vista come una minaccia, ma come un’alleata per ottenere risultati concreti in termini di parità rispetto ad un mondo ancora a prevalenza maschile.
Allo stesso modo il digitale e la strumentazione sempre più sofisticata che si è diffusa nella nostra società vanno reinterpretate alla luce dell’opzione postumanista, secondo la quale la tecnologia è solo un’ulteriore Altro con cui confrontarsi e da cui apprendere. Marchesini chiarisce come l’ibridazione culturale intraspecie non sia iniziata con la tecnologia informatica e la cibernetica, ma già centomila anni fa nel rapporto tra uomo e cane come animale domestico (2002:54), di conseguenza
«l’uomo viene educato dal mondo esterno. […] Nell’umano acquista un ruolo educativo anche la referenza eterospecifica grazie alla complessità e alla durata del processo ontogenetico. Gli strumenti e gli animali sono letteralmente la palestra all’interno della quale si forgia l’individuo attraverso una complessa rete di relazioni magistrali con referenze non-umane» (Marchesini, 2004: 63).
All’interno di questo schema la tecnologia non è più vista come un pericolo, un Altro da temere, ma come un alleato per l’evoluzione e per lo sviluppo. Ed è proprio questo approccio che mi sembra essere sotteso all’interno del gruppo Tech Girls Sharing, così come nel corso degli incontri della settimana Rosa Digitale. Queste donne, Altro per eccellenza in quanto femmine immischiate nei settori a prevalenza maschile e che per lungo tempo sono state escluse dal settore tecnologia, non riescono a relazionarsi con essa attuando una dinamica oppositiva. Al contrario, si alleano con l’alterità, in quanto alterità anch’esse, per migliorarsi ed arrivare dove purtroppo, ancora troppo, a loro non è concesso arrivare.
Un punto dolente però c’è: perché la partecipazione femminile alle attività di uno spazio come la Palestra Digitale, è aumentata solo con la creazione di un gruppo di sole donne? Perché per favorire una presenza “rosa” occorre definire e delineare situazioni ad hoc? Non sono forse queste delle azioni che tracciano nuovamente un confine, seppure un po’ oltre rispetto a quello precedente? Come a dire: ora la tecnologia è anche appannaggio delle donne ma solo in contesti specifici, racchiusi e ovattati. Non si rischia con queste azioni di continuare a creare una identità femminile in opposizione a quella maschile, definendo quindi una soggettività, inevitabilmente instabile da un punto di vista teorico, che non rafforza le singole donne e la loro agency? Ma, come si dice per il calabrone, noi Tech Girls non lo sappiamo e proseguiamo indomite alla conquista del digitale e della scienza tecnologica.