di Valeria Dell’Orzo
Parte della vita di ogni giorno, il cibo è molto più di una fonte di sostentamento, è più del gusto. Se il cibo è cultura, è prima di tutto appartenenza identitaria e geografia umana. La rappresentazione del nutrirsi mette in scena – come è noto – una complessa sintassi formata dal legarsi di cibi, preparazioni, ordine delle portate, luoghi e tempi di consumo: quella alimentare è un’articolata ritualità che funge da collante interno alle comunità sociali che, anche a grande distanza, ne condividono il senso e la forma.
Il fermento della globalizzazione ha già da tempo attraversato le tavole di molti Paesi, nuovi alimenti e nuove ricette sono passate in breve tempo dall’essere innovative sorprese esotiche al far parte del panorama alimentare quotidiano o abituale. La tradizionale cultura culinaria che prevedeva alla propria base gli alimenti disponibili sul territorio si è trasformata, ormai da tempo, in una realtà commerciale riformulata sulla base della grande distribuzione, della moda trasversale che, attraversando i continenti, traccia nuove consuetudini, nuovi gusti e nuove privazioni alimentari, non più basati su un principio di territorialità e effettiva disponibilità o pericolosità di determinati cibi in precisi contesti spaziali, ma piuttosto riconducibili all’appartenenza a un gruppo umano non geograficamente localizzato ma mediaticamente costruito.
Esibire preferenze o scelte cibarie consente l’ingresso nella tribù alimentare che condivide quei comportamenti e contribuisce alla creazione stessa dell’immagine che il gruppo dà agli altri di sé, per distinguersi e dunque riconoscersi. Vegetariani dalla lunga storia, onnivori tradizionalisti, vegani detentori di virtù etica, no carb sabotatori dei carboidrati, crudisti negazionisti dei prodigi della scoperta del fuoco, fastfoodiani idolatri di spumosi grassi dai colori sgargianti, reduceriani, riduzionisti alimentari pronti a trasformare ogni pasto in un complesso calcolo degli equilibri eccelsi, virtuosi figli della chimica da bilancino, attenti gestori dell’entrata in deposito delle merci di transito, e puristi del BIO speranzosi ricercatori del non contaminato, sono solo alcune delle molteplici categorie in cui si dividono le tribù contemporanee delle tavole più ricche del mondo: c’è chi insegue l’immortalità, chi il conformismo visivo al proprio clan mediatico, compartecipi alla costruzione del variegato mosaico dei trasversali usi alimentari.
Il rapporto con il cibo sancisce il legame di identificazione in un sistema, tenuto insieme da una struttura di regole e da un comune approccio etico-filosofico all’esistenza, e questo fa sì che si dia luogo a schieramenti, scuole, chiese, partiti, conflitti verbalmente feroci, scissioni interne, derive assolutiste, religiosamente integraliste, segnate da reciproca insofferenza e malcelato disprezzo, eccessi e rischi per la salute.
Il cibo si riqualifica come forma commestibile non solo dell’estetica ma anche dell’etica, diviene ambizione alla virtù alimentare, modello ispiratore di una vita lunga e sana, epurata dalla corruzione fisica, figlia della colpa dello sfruttamento animale: il cibo diventa baluardo pratico dell’ideologia della salvezza illuminata. Ma diventa al tempo stesso, sull’altro fronte, segno dell’impavida noncuranza ribelle e adolescenziale, della dissolutezza e del piacere del rischio, della misura e della dismisura condivise entro il proprio clan.
Focalizzando lo sguardo sui due poli di principale distanza troviamo il mondo vegano da una parte, proclamatosi sinonimo di etico e sano, e il lucido e gonfio mondo dei panini big-super-maxi, esaltatori di standardizzata bontà dall’altra. Così, mentre su un polo si tacciono gli effetti delle coltivazioni massicce, non più legate alla necessità locale, capaci di alterare gli equilibri di intere zone, in nome della contrapposizione intransigente alla brutale pratica onnivora, distorta dagli antagonisti fino ad essere dipinta come innaturale, sull’altro polo si ignorano i danni alla salute e quelli culturali legati alla perdita di cibi unici nella loro geospecificità soppiantati dall’unisona diffusione globalizzatrice di merce standard.
I virtuosismi salutisti, spesso sfocianti in veri e propri ascetismi, ovvero in estremismi privazionisti della cucina del senza e della finzione, del falso formaggio o della falsa carne, si scontrano sul terreno dei social con gli ostinati fastfoodiani da multinazionale, pronti ad affrontare con costanza ogni sorta di minaccia coronarica, pur di coltivare l’abitudine media- ticamente sviluppata a ogni sorta di grasso ingeribile, per qualsiasi cosa abbia l’aspetto finale di un prodotto da tabellone standard, immagini fumettistiche o cartoonistiche propagatesi di città in città, portando nel mondo il mito di un immaginario goloso universale farcito di grassi soffiati.
Il popolo del fast food si è diffuso su gran parte del globo. Le grandi catene hanno travolto e stravolto il sistema e gli stili alimentari della cultura tradizionale. Le varie forme del cibo di strada, che esitavano in una poliedrica fantasia cangiante da luogo a luogo, sono state surrogate con i moderni e polimerici grassi insaturi, standardizzati in una formula che rende il prodotto sempre uguale, da Pechino a Roma, da New York a Casablanca.
Le scelte alimentari, soprattutto quelle che esulano dalle consuetudini sociolocalizzate, rese possibili dall’appiattimento omologante della globalizzazione, contribuiscono a promuovere l’affermazione di un nuovo sé autocostruito sulla contrapposizione col tradizionalismo alimentare e con le altre nuove tavolate mediatiche. Si proclama l’appartenenza, la conversione a un nuovo che volutamente tende ad allontanarsi da quella tradizione dei sapori su cui la collettività ha costruito la propria storia, individuale e sociale. Attraverso il cibo ci si iscrive così all’interno di un nuovo nucleo umano, di una nuova tribù che condivide lo stesso sistema di regole e proibizioni, fondamentali non meno delle prescrizioni, nella costruzione di un noi che tende a distinguere quella tribù alimentare dalle altre. Nutrirsi diventa espressione di appartenenza a un gruppo non geograficamente connotabile ma artefice della formazione di nuove microgeografie umane trasversali, una comunità unita dal professare lo stesso credo alimentare, indignata o impietosa rispetto alle convinzioni e alle abitudini delle altre sette, rigorosamente assertoria – nella scelta dei prodotti e nelle regole del consumo – di ideologie sostanzialmente fondamentaliste. Si giunge così a veri scontri tra filosofie, attacchi e diatribe che prendono vita sul terreno comune dei social media, blog e pagine di facebook si trasformano in moderni campi di battaglia dove tutto confluisce, dai violenti attacchi verbali e visivi, disturbanti o derisori, alle più utili, e rare, argomentazioni, al dialogo del conoscersi e del comprendere reciproco.
Nella lotta tra eserciti potentemente equipaggiati e ciecamente schierati si perde di vista il concetto di equilibrio, di giusta assunzione del cibo e di corrette politiche di coltivazione e allevamento, ci si dimentica dei popoli e delle foreste divorati dall’avanzare delle ruspe e dei campi, si perde il senso profondo dell’etica alimentare che dovrebbe avere come suo nucleo fondante l’onesta e equa distribuzione delle risorse, il rispetto della Terra e delle altre vite, parte come noi di un unico insieme che, senza le nostre derive smodate, avrebbe saputo mantenere i propri equilibri.
Mentre si polemizza sulle reciproche scelte alimentari, il mondo continua a essere diviso tra coloro che sono sfruttati e sottoalimentati e coloro che sfruttano e si sovralimentano, si mette in scena proprio in questi mesi il grande spettacolo dell’EXPO, internazionale fiera dedicata al cibo che, nella profonda dicotomia tra intenti e risultati, porta chiaro il segno di questa scissione. Forse andrebbe fatta una riflessione sulle contraddizioni che questo fastoso palcoscenico alimentare lascia in ombra. Si pensi solo ai sistemi di produzione e di distruzione di quei cibi che lì sono decantati e che sono sovente frutto dei diritti negati ai tanti lavoratori dei campi costretti a ricatti, a racket, alla violenza dei soprusi e delle prevaricazioni.
Destinata alla sensibilizzazione, alla promozione delle specificità locali, e al diritto universale, enfaticamente proclamato, a un’equa distribuzione, questa grande esposizione appare in realtà una gigantesca e stupefacente macchina scenica che, pur nella apparente bontà dei fini e degli intenti e nella logica di un sicuro profitto, dà spazio all’esclusione tipica della globalizzazione non sostenibile, copre il cibo, suo protagonista ufficiale, col rutilante linguaggio delle immagini e del raccontare tipico dei messaggi pubblicitari che si susseguono di padiglione in padiglione, tra spettacoli, proiezioni e prodigi dell’eccesso, trasformando così, ancora una volta, il cibo da cultura a mero oggetto mercificato del consumismo globalizzante.
Dialoghi Mediterranei, n15, settembre 2015
Riferimenti bibliografici
Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione, trad. it., Il Mulino, Bologna, 2003.
Dora Gireco, Laura Mencherini, Guida al vivere vegan, ed. Sonda, Casale Monferrato, 2013.
Marco Mamone Capria, Le scelte alimentari tra scienza, cultura e politica, http://www.dmi.unipg.it/~mamone/sems/mamone_bi10b.pdf.
Marino Niola, Non tutto fa brodo, Il Mulino, Bologna, 2012.
Marino Niola, Homo dieteticus: viaggio nelle tribù alimentari, Il Mulino, Bologna, 2015.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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