Giungere all’ex Fornace di San Calogero da San Ferdinando non è semplice. In automobile ci si impiega quasi mezz’ora, lungo una strada che circonda campi, terreni, agrumeti senza attraversarli. Certamente il 2 giugno di un anno fa, Soumaila, Drame e Fofana ci devono essere arrivati attraverso un percorso più diretto, una strada che taglia per i campi in meno tempo, consentendo loro di rientrare alla tendopoli di San Ferdinando prima del tramonto.
A un anno di distanza dall’omicidio di Soumaila Sacko, l’ex Fornace è sempre lì, abbandonata come allora ma oggi sottoposta a pigro sequestro da parte dell’autorità giudiziaria. La vegetazione incolta avvolge la struttura di quel complesso proto-industriale fatiscente, mentre l’inquietante cigolio di ferraglia ammassata e destinata ad arrugginire riecheggia sovrastando il primo frinire delle cicale: tutto concorre a creare un’atmosfera spettrale, tale e quale, forse, a un anno fa, quando i tre braccianti maliani della baraccopoli di San Ferdinando vi si recarono per recuperare delle lamiere con cui rendere meno precario il proprio giaciglio.
Baracche in lamiera, nonostante che i tre siano soggetti necessari alla riproduzione economica di un’area che li considera tuttavia ospiti sgraditi. Decine di chilometri percorsi per esser poi sparati e dipinti – per qualche ora – come ladruncoli, da stampa e istituzioni. Decine di chilometri a piedi, sotto il sole di giugno, dopo averne percorsi in realtà centinaia e centinaia da quella parte di Africa occidentale dilaniata dalle crisi ambientali e dalle mire post-coloniali delle potenze mondiali. Una terra in cui oggi dorme sepolto il corpo di Soumaila, accudito e ricordato dalla sua famiglia, dalla moglie e dalla figlioletta di cinque anni.
San Ferdinando-Sambacanou (Mali, regione di Kayes). Possiamo aggiungervi Mansura, città del Delta del Nilo di cui era originario Abd Elsalam Ahmed Eldanf, lavoratore e sindacalista, morto durante un picchetto a Piacenza, travolto da un tir durante una vertenza sindacale condotta dall’USB per la tutela del posto di lavoro di tredici operai. E ancora, Andria, in Puglia, dove in un rovente mattino di luglio nel 2015 è morta di fatica Paola Clemente. Certo l’elenco sarebbe lungo.
Questi nomi di donne, uomini e geografie dell’asservimento tratteggiano i nodi di un mercato delle braccia che vede sfruttati, oltre le pur evidenti differenze, esseri umani di varie nazionalità, sottomessi alle leggi falcidianti di un sistema economico che mira solo all’iper-massimizzazione degli utili, sullo sfondo dell’esigenza della competitività produttiva. Dinamiche analoghe sono all’opera in altri settori dell’economia, e la logistica certo rappresenta in modo assai esemplificativo il mutamento di paradigma in azione nel mondo del lavoro: cicli produttivi sempre più frammentati; atomizzazione del corpo lavoratore; frammentazione del rapporto tra questi e i detentori dei mezzi di produzione, con l’entrata in scena di società che appaltano (e subappaltano) la manodopera, in un mercato al ribasso in cui a perderci è la classe lavoratrice.
Eppure sia il comparto agricolo che quello della logistica segnano una crescita economica esponenziale, nonostante la crisi. L’Italia è il quarto produttore agricolo dell’Unione europea, con un valore totale della produzione di circa 55 miliardi di euro. Per quanto riguarda il settore della logistica, in Europa sono coinvolti 11 milioni di lavoratori, rappresentando dunque il 14% del PIL del continente. Come definire questi differenziali così lancinanti e nitidi, tra miserie umane e floridezza dei capitali? Lo squilibrio tra capitale e lavoro, nel quadro dell’indebolimento generale delle forze politiche e sindacali, ha ridisegnato le relazioni produttive, introducendo contesti di asservimento legalizzato per chi cerca la felicità nell’era dei “dannati della globalizzazione”. Forme di dipendenza materiale e simbolica rendono quote sempre più consistenti di esseri umani, formalmente liberi, a disposizione di altri. Mediante l’addomesticamento contrattuale degli uomini, un’industria sistematica della costrizione produce asservimento da un lato e profitto dall’altro, dando corpo a una formidabile quanto inquietante algebra sociale in cui proprietà e gerarchizzazione del e sul soggetto si fondono, rinnovando le forme storiche dei rapporti di dominio personale (Solinas, 2005).
Soggettività della rivolta
Di questo e molto altro ancora scrive Aboubakar Soumahoro, sindacalista dell’USB, nel suo Umanità in rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità, edito da Feltrinelli (2019). Richiamando gli eventi del suo vissuto esistenziale che aprono orizzonti più ampi e dalla portata collettiva, il libro presenta una prosa asciutta e talvolta ellittica, che tuttavia schiude scenari di indubbio interesse e complessità.
“L’uomo in rivolta” di Camus, colto nell’atto di esprimere un rifiuto, assume una postura propositiva. Esprime un’azione creatrice con cui dissipa il non-senso e l’indifferenza della storia. Dalle faglie delle violazioni sistematiche dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori dell’oggi può sprigionarsi l’energia di una soggettività politica che riumanizzi l’economico e ripoliticizzi il sociale? Sembra essere questo il fil rouge dell’opera di Soumahoro, sul cui sfondo aleggia lo spettro della crisi delle organizzazioni sindacali e della politica, intesa questa come progetto comunitario volto alla trasformazione progressiva della società.
E il lavoro? In un precedente numero di “Dialoghi Mediterranei” (n.30, 2018), ci ponevamo il seguente quesito: Cosa resta oggi della securitas nell’epoca della precarietà elevata a paradigma ontologico dell’essere umano, in cui il capitalismo contemporaneo si alimenta della «capacità di calcolo del rischio» e dello «sfruttamento predatorio della ineguale distribuzione di questa capacità nel manipolare lo stesso confine tra rischio e incertezza» (Mancuso, 2017)?
Come si può parlare di lavoro nell’epoca in cui questo non è più limitato alla fabbrica fordista e tylorista, nella quale le relazioni economiche e politiche situate nel solco dei rapporti di produzione consentivano l’elaborazione di una soggettività operaia pregna di una cultura politica oppositiva rispetto al capitale, una cultura sovente definita in termini di coscienza di classe?
Il sindacato oggi deve confrontarsi con l’impossibilità di dedurre aprioristicamente la soggettività politica (la coscienza rivoluzionaria, si sarebbe detto un tempo) dei lavoratori dalla loro collocazione nei rapporti di produzione. Nell’era del lavoro terziario (‘improduttivo’) e della progressiva decadenza di quello in fabbrica (‘produttivo’) vi è da chiedersi, ricollegandosi alla teoria marxiana della produzione del valore economico a partire dal lavoro operaio, e dunque dello sfruttamento del plus-lavoro che genera plus-valore per il capitalista, sino a che punto possa insorgere, oggigiorno, una nuova contrapposizione al capitale, accantonata la stagione del lavoro in fabbrica (Simonicca 2012). Come può iterarsi la riproduzione sociale della classe lavoratrice congiuntamente alla riproduzione culturale di una soggettività politica critica e contestatrice cui tuttavia manca quel contesto storico-economico che ha visto nascere e lottare per i propri diritti il proletariato?
Già nel 1988, Richard Sennett paventava le conseguenze del lavoro flessibile sulla soggettività contemporanea. Il progressivo indebolimento del riconoscimento del Sé che il lavoro flessibile produce, insieme all’annacquamento delle peculiarità individuali permeano le traiettorie esistenziali del tardo-capitalismo neoliberista (Vignato, 2010). Per ricercare stabilità e continuità biografica, i soggetti non possono fare altro che attivare un’ermeneutica riflessiva, con cui risignificare la propria esistenza entro dimensioni della vita sociale diverse dal lavoro. La narrazione di sé e la tematizzazione della propria soggettività appaiono viatici efficaci per non smarrirsi nei circuiti labirintici e atomizzanti del mercato.
Soumahoro è nato in Costa d’Avorio, dove già dall’adolescenza si è imbevuto di una socializzazione anticipatoria dell’esperienza migratoria in Italia. Sarà per questo che contrassegna la sua attività di sindacalista con frequenti citazioni di un altro sindacalista, italiano, evidentemente ormai caduto nell’oblio delle classi dirigenti, politiche e sindacali del nostro Paese: Giuseppe Di Vittorio.
Categorizzare per alterizzare
Nell’affrontare il tema dell’emergenza e dell’organizzazione di lavoratrici e lavoratori posti l’uno contro l’altro entro quella che viene comunemente definita ‘guerra tra poveri’, ovvero una concorrenza al ribasso, è innegabile che se la riduzione delle tutele è crescente e riguarda la totalità del corpo lavoratore, una porzione di questo gode di uno statuto giuridico e politico ancor più precario. Si tratta dei lavoratori migranti, costantemente sospesi sull’orlo dell’invisibilità sociale, fagocitati da un perverso meccanismo istituzionale che lega l’ottenimento del permesso di soggiorno (condizione necessaria ma non sufficiente alla possibilità di condurre un’esistenza felice e sicura in Italia) ancorato al doppio criterio del merito (è il caso dell’audizione presso le commissioni territoriali nell’ambito della richiesta di protezione internazionale) e di un rapporto di lavoro contrattualizzato. Ciò prevede del resto la recente legislazione italiana, strettamente vincolante tanto per il cosiddetto ‘migrante economico’ quanto per il beneficiario dell’ex protezione umanitaria, oggi ‘permesso per casi speciali’, e non rinnovabile.
No, i lavoratori non italiani non sono lavoratori come tutti gli altri. Essi sono al centro di processi complessi di razzializzazione dalla matrice istituzionale, che oggi toccano indistintamente il welfare e il mercato del lavoro. La razzializzazione si accompagna al suo corollario giuridico e culturale, che è la categorizzazione dei soggetti mediante l’ipostatizzazione della loro identità etnico-culturale, declinata in modo tale da rinviare a un altrove minaccioso e non integrabile nel contesto della ‘civiltà occidentale’. I registri della ‘classe’ e della ‘razza’ tendono a essere sovrapposti, entro una distribuzione razzializzata della sofferenza sociale e della marginalizzazione. La governamentalità contemporanea si articola attraverso un complesso sistema di esclusione, che fonda così la divisione sociale del lavoro. Lo statuto sociale (ma anche politico e giuridico) dei soggetti al lavoro costituisce così l’esito di una trasposizione di distinzioni quali la razza, la classe, l’etnicità, il genere in un’esclusione formale dai diritti e dai beni sociali. Lo Stato opera una ruolo centrale nella regolamentazione di questi sistemi di esclusione attraverso l’istituzionalizzazione di gerarchie strutturate della divisione del lavoro (Gregory, 2004).
Del resto, il razzismo oggi si presenta con forme molto più fluide che in passato, sebbene persista il suo contenuto volto alla gerarchizzazione di tipi culturali. I razzismi contemporanei non ammettono palesemente, al netto di alcune eccezioni, la superiorità o l’inferiorità delle razze. Anzi, introiettano gli assunti più moderni del relativismo culturale. In questo senso, sono differenzialisti. Ma questa postura viene assolutizzata, conducendo all’irrigidimento delle differenze culturali e alla postulazione dell’impossibilità per le culture e i loro portatori – ovviamente assunti come un concentrato omogeneo di disposizioni apprese e immutabili – di progettare convivenze, a meno di non mettere a repentaglio l’identità culturale propria e altrui. Da qui all’“aiutiamoli a casa loro” il passo è breve.
Ebbene, stante questi processi di razzializzazione e categorizzazione, per Soumahoro solo un movimento meticcio potrà farsi carico dell’infelicità di una classe operaia che non può in alcun modo essere compresa nella voce dei ‘lavoratori migranti’. Le differenze, pur esistenti, vanno ricomprese entro una progettualità in grado di farsi carico della complessità e della pluralità dell’esistente.
Pratiche decoloniali per una politica della emancipazione globale
Ecco che la de-categorizzazione della soggettività migrante appare come una pratica decoloniale, volta a costituire un laboratorio politico anti-egemonico. Vari movimenti sociali, in tutta Europa, ormai adottano la prospettiva della socializzazione delle rivendicazioni politiche. Nei luoghi deputati alla discussione politica e all’elaborazione dei processi decisionali, come le assemblee, italiani e stranieri si affiancano, e la traduzione diviene la pratica con cui operare un doppio switch: da una lingua a un’altra, certo, ma anche da un punto di vista ‘culturalmente’ orientato a un altro, al fine di individuare quel terreno comune su cui imbastire rivendicazioni politiche e sociali. Tutto questo, peraltro, favorisce il superamento del registro compassionevole (Fassin, 2005) o assistenziale con cui lo sguardo clemente o meno di istituzioni e varie agenzie si posa su migranti e, in generale, soggetti non nati in Italia, anche al di fuori di dispositivi totalizzanti o repressivi.
Ciò non deve comportare l’automatica obliterazione della diversità culturale, che è la condizione preliminare – e universale – di qualsiasi appello al ‘restare umani’. Ma tale diversità si ramifica in un agire politico cosmopolita, che trasforma gli ideali costituzionali borghesi in forme quotidiane di consapevolezza ed emancipazione (Appadurai, 2013).
Se Soumahoro richiama costantemente Di Vittorio per seminare il futuro del sindacato alle prese con le sfide del lavoro globale, forse è perché, traendo ispirazione dalla notoria empatia del grande sindacalista pugliese, vi è il bisogno di formulare un’espressione critica dell’oggi che conduca a nuove e più inclusive categorizzazioni della vita umana (Riotman, Bouyssou, 2000). Istituendo così connessioni profonde e amichevoli tra i luoghi del mondo e il diritto alla felicità.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Riferimenti bibliografici
Appadurai A., Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Milano, Raffaello Cortina, 2014 (2013).
Cordova, G., “Della cultura del lavoro nel tempo della crisi”, in Dialoghi Mediterranei, n. 30, marzo 2018.
Fassin D., “Compassion and Repression: The Moral Economy of Immigration Policies in France”, Cultural Anthropology, vol. 20, n° 3, 2005: 362-387.
Gregory Steven, Infrapolitics, in D. Nugent, J. Vincent (eds.), A Companion to the Anthropology of Politics, Hoboken, Blackwell Publishing, 2004: 282-302.
Mancuso A., “Incertezza, precarietà, capacità di immaginazione del futuro e modernità. Un confronto tra Appadurai e De Martino”, in EtnoAntropologia, 5 (1), 2017: 21-51.
Roitman J., Bouyssou R., « Economie Morale, subjectivité et politique », in Critique internationale, vol. 6, 2000: 48-56.
Sennett R., L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli. 1999 (1988).
Simonicca A., Introduzione, in P. Willis, Scegliere la fabbrica. Scuola, resistenza e riproduzione sociale, CISU, Roma, 2012 (1977).
Solinas P.G., Presentazione, in Id. (a cura di), La dipendenza. Antropologia delle relazioni di dominio, Lecce, Argo, 2005: 7-13.
Soumahoro Aboubakar, Umanità in rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità, Milano, Feltrinelli, 2019.
Vignato S., Introduzione – Per un’etnografia della soggettività al lavoro, in Id. (a cura di), Soggetti al lavoro. Un’etnografia della vita attiva nel mondo globalizzato, Torino, UTET, 2010: XI-XXXI.
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.
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