il centro in periferia
di Letizia Bindi
Ouverture
In un celebre scritto di Ernesto de Martino dedicato all’intensa esperienza etnografica della spedizione in Lucania si riporta un canto scritto dal giovane poeta, scrittore, militante e sindaco Rocco Scotellaro insieme con alcuni contadini (fra i quali tali Rocco Tammone, Giuseppe Cetani e Giuseppe Paradiso) di Tricarico, in provincia di Matera (Mirizzi 2016; Clemente 1976, 2013). Nella cosiddetta “Canzone della Rabata”, parlando in prima persona, i poverissimi contadini di questo antico quartiere di origine saracena del paese lucano prendevano dialetticamente coscienza della loro soggettività culturale e politica e del valore dei saperi e delle pratiche che oggi come allora garantiscono la sussistenza alle città e a chi di loro scrive e fa oggetto di ricerca (Se nun fosse pe’ li cafoni/ve mangiassive li cuglioni). Soprattutto rifiutavano con forza e con sdegno, pienamente politico, la folklorizzazione/etnicizzazione del loro mondo di vita (Ce chiammeno Zulù e beduine / ca nuie mangiamme assieme a le galline. / Int’a’ Rabata nun ce sò signure / nun c’è né Turati né Santoro), pur avendo netta coscienza della liminarità e povertà indecorosa della loro condizione che imputavano a ragioni storiche senza alcun rifugio consolatorio nel magismo e nell’ordine del religioso.
Un ‘noi’ che si riconosce e si definisce come soggetto politico potenziale nella scena pubblica degli anni Cinquanta e della ricostruzione e che sarà in seguito messo a dura prova dalla frammentazione del fronte delle sinistre che separerà i contadini dal mondo operaio e dagli intellettuali consegnando la montagna e le campagne, specie quelle dell’Appennino centro-meridionale, allo spopolamento e a una inesorabile obsolescenza.
Dalla metà degli anni Sessanta in poi si avvia un processo di marginalizzazione e folklorizzazione del mondo rurale (Lombardi Satriani 1973, 1980; Castronovo 1980) che corre parallelo al progressivo slittamento delle vicende delle campagne e delle aree interne italiane nelle mani del Governo centrale, degli Enti Riforma e successivamente delle politiche nazionali di riprogrammazione delle attività agricole, dei primi dibatti europei sulla PAC (Politica Agricola Comune), sulla crescente industrializzazione, intensivizzazione e sedentarizzazione delle aziende agroalimentari e degli allevamenti. A questa tendenziale concentrazione delle attività agricole e alla crescita del ricatto produttivistico in merito alle produzioni agro-alimentari oltre che al sistema delle quote europee di prodotti previste dai diversi accordi internazionali è dipeso il crescente spopolamento delle campagne, dapprima frammentate dalla destrutturazione del sistema latifondistico e mezzadrile, poi trasformate – secondo le diverse aree del Paese – in sistemi di produzione agricola cooperativi, consortili o privati, esposti comunque in modo molto forte ai rischi del clima, degli imprevisti, caratterizzati – in una certa fase – dal crescente uso di pesticidi e da una scarsa sensibilità per la qualità del prodotto.
L’inversione sembra sopraggiungere all’inizio degli anni Novanta quando, sulla scia delle tendenze ambientaliste ed ecologiste – maturate in realtà nei Paesi del Nord-Europa a partire dagli anni Settanta – e di una serie di accordi internazionali, si inizia a diffondere una nuova narrazione del comparto agro-alimentare basata sul valore delle colture a basso impatto, biologiche e di alta qualità. Questo orientamento sfocerà con l’inizio del nuovo Millennio in speciali politiche in favore dell’agricoltura sostenibile e della rinascita delle comunità contadine e montane, nell’investimento su produzioni di nicchia sempre più richieste da un mercato alimentare metropolitano attento alla qualità, all’origine e alla territorialità dei prodotti.
Questo processo, tuttavia, segue l’andamento fluttuante delle diverse crisi economiche globali, delle incertezze in merito alla sostenibilità ambientale della crescita demografica, la cruciale questione delle risorse energetiche necessarie per produrre gli alimenti e la crescente pressione antropica ambientale e socio-culturale delle imprese agro-alimentari sulle comunità rurali e montane che giunge – più fuori dall’Europa che dentro, ma non senza casi eclatanti anche in contesto europeo – alla dispossessione, al land-grabbing, alla migrazione, alla dismissione imposta di alcuni insediamenti o allo spopolamento inesorabile per cause di disastri ecologici e idro-geologici.
La riflessione sui limiti della crescita indiscriminata, del produttivismo ed estrattivismo si riconnette così in modo inscindibile ai processi di globalizzazione dei commerci, delle produzioni e dei consumi e al neo-liberalismo caratterizzante le economie occidentali esteso col tempo a legge economica e di gestione delle risorse ambientali e umane in tutto il pianeta.
Le scienze sociali si sono misurate – come è ovvio – con le questioni connesse a questi processi: il dibattito tra globalizzazione e ri-localizzazione delle culture, il tema della mediazione sociale e culturale correlato all’essenzializzazione delle identità, il necessario ripensamento della relazione tra natura e cultura da sempre al cuore del dibattito antropologico sin dalle origini della disciplina e le eco-frizioni dell’Antropocene (Tsing Lowenhaupt, 2004; Latour 2014; Povinelli 2016) che finisce negli ultimi dieci anni, in particolar modo, per concentrare l’attenzione della ricerca e dell’analisi politica sulla responsabilità umana nei disastri ambientali, sul senso del limite e dell’incertezza connesso alla contemporaneità, sulle critica articolazione tra modi di vita rurali/montani e urbani/peri-urbani, sull’intreccio tra flussi demografici, pratiche culturali e politiche territoriali.
Si impone ad esempio l’urgenza di una analisi multidisciplinare in Europa dei fenomeni di abbandono delle aree interne e periferiche del Paese – ricerca socio-culturale sulle comunità rurali e studi sulle mobilità globali e le migrazioni – che sappia mettere in discussione le rappresentazioni relative alla capacità di rigenerazione e accoglienza delle comunità montane e rurali, le etnografie minute delle aree spopolate e fragili e le nuove esperienze di ripopolamento di aree europee marginali e periferiche.
Alcune domande tornano con forza al cuore di queste riflessioni: perché alcune aree hanno più di altre subìto processi di spopolamento? Quali “forme di vita” si sono mantenute in queste regioni? Quali atteggiamenti sociali e culturali si sono sviluppati in queste zone remote e periferiche?
Fa parte di questa riflessione una linea di studi e riflessioni centrata sui temi del “restare”, del tornare nei luoghi e del “riabitare i paesi” (Fenu 2020; Carrosio 2019; Bindi 2019; De Rossi 2018; Teti 2011, 2017, 2019) che ha conosciuto e sta conoscendo, proprio negli ultimi tempi, tra l’altro, una straordinaria fortuna nella riflessione non solo scientifica, ma direi più ampiamente nel dibattito pubblico e persino in una certa comunicazione mainstream.
Al tempo stesso negli ultimi anni una ulteriore linea di riflessione si è sviluppata sulla relazione tra rinascite possibili delle aree interne e migrazioni. Si tratta di un filone di ricerche interessante, ancorché controverso a tratti, che tenta di comprendere attraverso puntuali etnografie la delicata interazione tra luoghi piccoli e a lungo rimasti marginali rispetto ai grandi processi diasporici globali e nuovi arrivi e nuove tendenze della distribuzione capillare della popolazione migrante sul territorio nazionale, nuove politiche – se di politiche consapevoli sempre si possa parlare – dell’abitare e dell’integrare che sollevano importanti e cruciali quesiti intorno a cosa oggi si debba intendere per inclusione e per comunità accoglienti (Annunziata 2016; Cugini 2016; Corrado 2017; Bindi in press).
Il presente contributo cerca di tracciare una riflessione sul peso che le comunità rurali e montane possono avere nel ripensare le strategie contemporanee di sviluppo sostenibile, nel fornire alle popolazioni locali ragioni e motivazioni per restare e continuare a credere in un futuro possibile per queste aree in dinamica interazione con i nuovi potenziali o reali “arrivi” e i processi migratori a cui queste linee di mobilità appartengono.
Tra comunità rurali fragili e grandi mobilità globali
Dalla fine degli anni ’90, il rapido e traumatico processo di globalizzazione e modernizzazione dettato dalla imposizione della crescita economica post-liberale ha generato una nuova linea di studi nelle scienze sociali che da un cliché tendenzialmente folklorizzante e semplificatorio ha spostato le etnografie delle comunità rurali e montane sulle dinamiche di trasformazione, sui processi di spopolamento e di potenziale contrasto a questa tendenza, sulle politiche territoriali di sviluppo veicolate da quadri globali e/o intermedi di intervento territoriale e la conseguente analisi dei poteri locali così come delle dinamiche micro-sociali, private, intime persino, dell’interazione con l’esterno e dell’accoglienza all’interno delle comunità della presenza non autoctona. Sul fronte dello sviluppo rurale e della rigenerazione territoriale si è approfondita l’analisi delle policies, ma anche del ‘ritorno alla campagna’ o della maggiore continuità città/campagna come nuovi fenomeni di carattere globale (Dematteis 2015). Ciò fa parte di quella “svolta patrimoniale” (Ducros 2015) che insiste sulla salvaguardia e valorizzazione dei paesaggi, sul valore delle identità locali e dei “beni comuni” (Figuereido, Silva 2013) non senza un certo grado di retorica e reificazione del patrimonio rurale in questi processi.
In questo senso ciò che in passato era considerata una forma di arretratezza delle società contadine e montane, oggi viene a essere qualificato come oggetto o ambito patrimoniale, come tema identitario, perfettamente funzionale ad alcune precise linee del marketing dei territori giocato sulle linee fortemente retoriche del discorso identitario sull’“autenticità contadina” – tra l’altro con un pericoloso potenziale esclusivista e marginalizzante – e una tendenza alla “nostalgia strutturale” (Herzfeld 2004) verso un passato mitizzato ed esaltato come fonte identitaria primigenia che in alcuni contesti si è connotato di tratti populisti e sovranisti (Ulrich-Schad 2018; Wuthnow 2018).
Accanto a ciò – lo si diceva in precedenza – è cresciuta una rappresentazione “resiliente” delle aree marginali, rurali e montane, una categoria di “restanza” (Teti 2017) che non ha impedito, però, che i territori continuassero a spopolarsi, che i paesi si riducessero a nuclei di poche decine di abitanti, che cessasse progressivamente un’economia diffusa, di piccolo commercio, di agricoltura ad uso familiare e di artigianato che pure aveva resistito ancora per decenni dopo la fase della ricostruzione post-bellica e gli anni delle grandi emigrazioni di massa dalle aree periferiche e montane del Paese e dai Sud infruttuosi, sfruttati e tecnologicamente arretrati.
Nell’ambito di questa rinnovata e modificata attenzione degli studi demo-etno-antropologici verso il mondo rurale vanno lette anche le ricognizioni dedicate anche gli studi dedicati ai temi della comunità rurali e montane in via di trasformazione, delle loro strategie di adattamento ai cambiamenti produttivi e di mercato così come a quelli più radicali del clima e dell’ambiente. La ricerca e le politiche, così, si ri-territorializzano trovando nelle aree fragili, marginali e spopolate di questo “Paese fatto essenzialmente di paesi” (Clemente 2018) il loro oggetto eccellente di indagine e la loro sfida.
Questo è avvenuto in particolar modo dinanzi al crescere dei progetti di inclusione e integrazione dei migranti in contesti non più metropolitani, sempre più a rischio di derive concentrazionarie, ma verso la provincia, i piccoli comuni e le aree rurali e montane, dove i piccoli borghi spopolati sembravano proporsi ‘quasi naturalmente’ come luoghi possibili di una nuova accoglienza (Balbo 2015). In tal senso i territori fragili e periferici divengono dei laboratori preziosi, perché fuoriescono dalla logica emergenziale che da sempre ha tristemente caratterizzato la gestione delle politiche dell’abitare e della pianificazione territoriale nel nostro Paese e si impone una riflessione sull’urgenza di pensare a progetti di innovazione sociale condivisi e stabili, capaci di generare occupazione e ricadute economiche tali da garantire la sostenibilità per le famiglie sopraggiunte.
Si deve uscire, insomma, dalle logiche usate del ripopolamento così come dai facili miraggi delle comunità di montagna e rurali come parcheggio dei migranti che altrimenti affollerebbero, in modo sempre più minaccioso, le aree urbane già molto e oggi sempre più sovraffollate – sebbene esistano esperienze di rigenerazione interessante anche delle periferie metropolitane (Broccolini, Padiglione 2017). Al tempo stesso questi territori potenzialmente salvifici non possono neppure essere evocati senza che si attivino politiche in primo luogo di housing e di collocamento a lavoro in grado di veicolare una accettazione meno controversa e conflittuale dell’ingresso di popolazione di origine straniera nelle piccole realtà paesane e rurali accanto a una progettazione strategica dell’assistenza alla crescente popolazione anziana così come a una capacità realmente innovativa di fare agricoltura, pastorizia e gestione delle attività di tutela territoriale e promozione turistica nelle nostre aree montane e rurali.
Per far ciò non è possibile evitare un serio dibattito sulla nuova opportunità che soprattutto con la pandemia si sarebbe venuta a creare per i territori marginali, montani, isolati e fragili che non a caso stanno guadagnando ogni giorno sempre più spazi sui nuovi e più classici media.
Il ‘piccoloborghismo’ come narrazione diffusa
L’ultimo anno si è caratterizzato per la crescita esponenziale di interventi e progettualità connesse al ripopolamento possibile delle aree rurali, montane, interne e periferiche del Paese (ma il dibattito ha attraversato e attraversa anche altri Paesi europei) nonché connesso alla crescente presa di coscienza della insostenibilità del modello di vita urbano-metropolitano e alle opportunità di recupero di ritmi e modi di vita e di lavoro più lenti e tollerabili, di distanziamento e persino di risparmio connesse alla vita nei piccoli centri abitati.
A questa riflessione sulla piccola dimensione degli insediamenti come valore si è aggiunto l’insieme delle narrazioni inerenti l’importanza globale e il senso di responsabilità civile intrinseco nelle esperienze di coltivazioni biologiche e biodinamiche, di riduzione del carbon-print nell’allevamento, dell’attenzione alla sostenibilità ambientale nel costruire e ristrutturare che viene da più lontano, ma che si è perfettamente incrociata con i discorsi inerenti la nuova situazione emergente dalla pandemia.
In molti, in questi mesi, hanno riannodato le fila di alcune importanti linee di riflessione e intervento sui territori degli ultimi anni.
In primis i “nuovi ruralismi” (Van der Ploeg 2008) che indicano l’adesione a un modello produttivo eco-equo-sostenibile coniugato con un riconoscibile stile di vita e con la multifunzionalità del comparto (Cersosimo 2012; Corrado, Dematteis 2014). Questo processo di ritorno alla campagna e alla montagna (Manifesto ‘Riabitare l’Italia’ 2018) è stato affiancato da un dibattito intellettuale e dalla elaborazione di specifiche policies che in Italia, ad esempio, si è sviluppato in modo particolare negli ultimi cinque anni intorno alla SNAI (Strategia Nazionale per le Aree Interne). La progettazione territoriale e l’innovazione sociale si sono così orientate al recupero e alla rigenerazione dei luoghi minori e delle aree marginali e svantaggiate e spopolate concentrando l’impegno sui servizi e i presidi territoriali fondamentali che rappresentano non solo una garanzia di sostenibilità degli insediamenti, ma anche il permanere di un senso di comunità, di memoria condivisa e di partecipazione che si costituiscono come nucleo stesso della vitalità dei luoghi. È per questa via che si giunge alla riflessione, fratta e molteplice, del recupero dei paesi o, più ancora, dei ‘piccoli borghi’. Secondo questa narrazione, divenuta mainstream nella comunicazione mediatica recente, la rigenerazione e il restauro dei piccoli insediamenti storici li trasforma in ‘luoghi di memoria’ e presidi di storia del territorio, ma anche in nuovi possibili luoghi di vita e di lavoro. Ciò risponde al desiderio, molto se non tutto urbano, di spazi ampi, di fuga dal sovraffollamento e dalla bruttura di certi contesti metropolitani destrutturati, al recupero di una dimensione del vivere associato a misura d’uomo, di una più alta qualità di vita e di un senso di appartenenza ritrovato e accresciuto.
In Paese e paesi, Pietro Clemente (1997) rifletteva sulla dicotomia tra identità di paese contrapposta alla dimensione cittadina e sulla complessa relazione tra villaggio (uno dei sinonimi di paese/pagus) – inteso come singolo insediamento locale – e Paese/Nazione – innalzato per successivi processi di astrazione ed essenzializzazione identitaria a dimensione nazionale. Lo faceva, non a caso, all’interno del lavoro curato da Mario Isnenghi sui “Luoghi di memoria”, insistendo sulla «natura spaziale (oggettiva) e sentimentale (soggettiva)» del paese, «parola identitaria per eccellenza dotata di una forte variabilità storica e territoriale» (Clemente 1997: 6). Vi accostava le nozioni di “villaggio” e di “borgo” che ne accentuavano il tratto di “luogo natío” e di “senso di appartenenza” accanto alla caratterizzazione di “rurale” che lo riconduce alla dialettica, cruciale per la storia italiana, di città-campagna.
La retorica dei piccoli borghi, però, si è imposta negli ultimi anni dando crescente peso e valore agli insediamenti di carattere ‘antiquario’ (declinati sulle antichità greco-romane o etrusche, ad esempio) o ancora a quelle medievali, cinti di mura, caratterizzati in genere da storie rilevanti di tipo commerciale, artigianale e persino finanziario e per ciò stesso contrapposti alle periferie del mondo culturalmente e socialmente avanzato anche nel passato e al mondo rurale con la sua parcellizzazione insediativa, la rarefazione delle relazioni sociali.
La centralità dei borghi nella recente narrativa del ritorno ai luoghi piccoli e a dimensione umana risente in modo prepotente della ‘archeologizzazione’ e ‘medievalizzazione’ imponente della storia e del ‘folklore’ urbano: quella che ha dato forza alle rievocazioni storiche in costume, al recupero ‘pittoresco’ di palii e giostre, alla mise en théâtre della comunità saldandosi in modo cospicuo con le nuove forme di costruzione delle destinazioni turistiche e di branding della località (Clemente, Mugnaini 2001; Bindi 2013). Inteso come abitato storico circondato da mura e caratterizzato da monumenti di rilievo e una riconoscibile struttura urbanistica, si lega all’immaginario antiquario dei borghi toscani e umbri e degli agglomerati urbani di piccole dimensioni e nobili radici storiche del Nord Italia e del Nord Europa.
Il “piccoloborghismo” si costituisce, nel dibattito contemporaneo, intorno al valore delle aree interne e marginali, alle nuove opportunità in ragione del nuovo bisogno di distanziamento e di nuove condizioni di vita sostenibile e in armonia con l’ambiente circostante. ‘Borghi’ diviene, così, un termine nobilitante, una “patina” applicata alla «vita sociale degli oggetti» e dei luoghi (Appadurai 1986, 1996) che allude al gioco comunicativo ed economico del marketing territoriale, segnala la preminenza di un modello musealizzante dei piccoli centri, in cui tutto diventa una rappresentazione del passato, una sorta di packaging della storia funzionale alla promozione turistica. Accanto a ‘borgo’ si affianca la nozione altrettanto ambivalente di ‘comunità’ che rischia di veicolare l’erronea idea che gli insediamenti e le persone che vi risiedono siano un corpo univoco e compatto, mentre al contrario sono sistemi sempre complessi, anche quando di piccole dimensioni.
Nelle comunità, infatti, convivono l’anziano che non se ne è mai andato – come il Nuto de La luna e i falò (Bindi 2005) –, il pendolare con la città più vicina che preferisce viaggiare e vivere in un contesto più piccolo e a misura d’uomo, l’immigrato che trova casa a minor prezzo e spera nella piccola dimensione per tentare una più agevole via all’inclusione, i nuovi intellettuali e architetti che sostengono e progettano nella logica del “piccolo è sostenibile” e del recupero di una dimensione poetica del vivere. Abitare, risiedere, andarsene, tornare, intreccia una relazione articolata, mai lineare con ciò che Pasolini definì, già negli anni Cinquanta, la “piccola patria” (Bindi 2008): il paese piccolo e caro, in cui parlare la lingua delle madri, ma da cui pure era necessario partire per aprirsi alla complessità del mondo, fuori dalle pagine delle riviste patinate e dai siti promozionali delle destinazioni turistiche.
Il dibattito intorno ai piccoli borghi e alla dimensione riposta delle aree periferiche e interne come risorsa. Il dibattito ha preso forme diverse, tutte molto interessanti, con linee dominanti riconoscibili, stili, questioni. Si tratta di uno spazio politico sostenuto, tra l’altro, da misure e quadri di finanziamento che non hanno tardato ad essere stanziati, secondo una linea di progettazione e policies dello Stato centrale che mirano a segnalare prossimità e sensibilità verso i contesti più fragili (aree marginali, svantaggiate, disastrate, segnate da attardamenti storici) e su cui, ugualmente, è necessario riflettere. Il ‘piccoloborghismo’ diviene così un habitat discorsivo nel quale proiettare le rappresentazioni incensatorie della genuina e sana vita di paese, del ritorno alle aree interne, dell’appartatezza e dell’isolamento come elementi fondativi di una poetica della bellezza e dell’isolamento felice. In realtà – come ci ha opportunamente e intensamente ricordato Vito Teti in molti suoi recenti scritti (2014, 2018, 2019) – abitare e appartenere intrattengono una relazione delicata e complessa col viaggiare e con l’allontanarsi dal luogo natío. Migrare intrattiene una tensione dialettica con il ritornare, con la nostalgia e il senso di riscatto delle terre minori, in una lettura antropologica di questo “sentimento del presente” (ancora Teti 2020) come critica implicita e radicale agli abbagli della contemporaneità e al tempo stesso come uno schierarsi dalla parte più fragile delle nostre società.
Dietro all’idea del tornare ai piccoli borghi si nasconde, inoltre, il nodo della sostenibilità economica, sociale e culturale delle aree interne, dei territori spopolati e fragili. La narrazione prevalente è che lo smartworking permette di tornare a vivere in montagna o nelle aree periferiche, ma vi sono nodi cruciali da affrontare perché questa prospettiva sia verosimile. Le ricerche di sfondo e la progettazione sviluppata nel quadro della Strategia Nazionale per le Aree Interne e negli ultimi mesi le nuove prospettive aperte dal Recovery Fund e dei Contratti Istituzionali di Sviluppo mostrano, però, come per rigenerare realmente le condizioni di abitabilità e ripopolamento ci sia necessità di ripensare la mobilità, la connettività digitale, la presenza e ripristino dei servizi di prossimità fondamentali (sanità, istruzione, pubblica amministrazione), così come le politiche di sviluppo sostenibile per l’agricoltura e l’artigianato locale necessario perché le campagne, la montagna e i paesi possano tornare a essere luoghi abitabili.
Senza una pianificazione attenta dello sviluppo territoriale rischia di essere improbabile la continuità di questo momentaneo ritorno ai piccoli borghi, di questa poetica della piccola dimensione abitativa, della ruralità e dell’ethos della montagna come valore, indipendentemente da qualsiasi criticità che pure hanno determinato la marginalità e l’isolamento. Senza un pensiero concreto della rigenerazione territoriale il ‘piccoloborghismo’ rischia di tingersi di populismo, di retoriche consolatorie per quelle aree ‘left behind’ (Ulrich-Schad, Duncan 2018; Carrosio 2020) o, peggio ancora, di retoriche sovraniste e neo-fasciste di quelle aree che si percepiscono come dimenticate, trascurate e marginali rispetto ai grandi quadri politici di carattere nazionale e sovra-nazionale. Trattiene nella sua stessa definizione un’assonanza con quell’idea ‘piccolo borghese’ che ricomprende tutte quelle espressioni minori dell’appartenenza al ceto medio delle nostre società contemporanee, caratterizzato da piccola proprietà contadina o piccoli commercianti e artigiani allineati ideologicamente sia per stili di vita che per posizioni politiche con il blocco culturale e sociale di potere, esprimendone sovente gli aspetti più retrivi e volgarizzati (Povinelli 2011).
Oggi dietro al ‘piccoloborghismo’ possiamo intravedere un ceto medio intellettuale, altamente scolarizzato, in larga parte garantito da attività lavorative stabili – statali o para-statali, di grandi aziende o banche – che ha beneficiato, in questo anno di distanziamenti e lockdown, di condizioni relativamente sostenibili di lavoro a distanza (insegnanti, impiegati della pubblica amministrazione, artisti, scrittori, ricercatori) e ha iniziato a utilizzare in modo più diffuso le seconde abitazioni già in loro possesso in aree periferiche e riposte del territorio nazionale o a considerare come auspicabile un ‘ritorno alle aree interne’, un ‘riabitare l’Italia’ minore e appartata come riserva di salubrità, di spazi e silenzi rigeneranti, di tempo disteso, senza considerare forse quanto questo rientri in una lettura per certi versi elitaria dei piccoli paesi e dei territori svantaggiati che non raggiunge il cuore delle criticità che a suo tempo ne determinarono il progressivo spopolamento e la relativa obsolescenza.
Nel contempo il tema è stato disseminato e fatto proprio dagli specialisti della valorizzazione turistica e patrimoniale dei luoghi minori e delle aree interne e rischia di trasformarsi in un nuovo abbaglio se inteso come unica soluzione e via d’uscita alla depressione economica, allo spopolamento e alle criticità di carattere logistico e dei servizi fondamentali di queste aree delicate. Se da un lato, infatti, le tendenze più recenti del turismo sostenibile, esperienziale e slow, della promozione dei cammini [1] e della prossimità alle comunità locali oltre che dei paesaggi incoraggiano e danno sostanza ai processi di rigenerazione delle aree fragili, dall’altro il rifugiarsi solo sulla prospettiva del mercato turistico rischia di rappresentare una fragilità ulteriore rispetto a queste aree, dipendente dalla stagionalità e dalla sostenibilità ambientale e sociale delle attività ricettive. La questione, infatti, non può essere solo connessa al ritorno in smartworking nelle aree montane o nei piccoli paesi come potenziale di rigenerazione locale, se non si attivano una serie di azioni mirate di ripresa delle operazioni commerciali e dei servizi fondamentali con al centro il tema della mobilità e dell’approvvigionamento dei beni di consumo, la garanzia di una qualità della vita non solo più salubre e di un modo di vita più lento e sostenibile, ma anche di opportunità e occasioni di socialità e ricreazione tali da rendere gli spazi paesani abitati gradevoli e partecipativi. Al tempo stesso non si può neppure condannare gli abitanti di queste aree e paesi all’attesa compulsiva di turisti e cittadini delle metropoli circostanti, ma occorre iniziare a progettare e riprogettare i centri abitati – i ‘piccoli borghi’ della vulgata mediatica – così da rendere quei territori produttivi e autonomi in termini economici grazie alle loro attività agricole, pastorali e artigianali.
L’agricoltura e l’allevamento sostenibile, ad esempio, devono essere calibrati su modalità smart e di precisione in particolar modo e tarati specificamente per i territori periferici e di montagna, la promozione di forme di innovazione sociale come le cooperative di comunità, i bio-distretti e le forme più o meno informali di condivisione. Accanto a questo è necessaria una sapiente rigenerazione dei territori e degli insediamenti (bio-architettura, risparmio energetico, smart-housing, co-housing, ecc.) capace di rendere queste aree non solo gradevoli da visitare da parte di turisti e viaggiatori esterni, ma sostenibile per i residenti stabili grazie a progetti e infrastrutture pensate per facilitare il pendolarismo, incentivare l’accoglienza, rendere i territori sempre più attrattivi verso l’esterno e in particolare verso le generazioni più giovani.
Gli ultimi due decenni hanno tracciato alcuni passaggi nella concettualizzazione dei paesi – come preferisco definirli – che la concitata fase attuale ha velocizzato. Hanno registrato – come già notava Clemente alle soglie del Duemila – una crescita di individualismi che ha paradossalmente spinto «verso le radici familiari, verso la comunità, ma le rilegge nella forma dei ricordi, delle nostalgie dei singoli» (Clemente 1997: 22). Il paese recuperato, rifunzionalizzato, il borgo ripensato alla luce delle politiche del ‘riabitare’ perde i suoi vincoli alla terra e alla fatica di un tempo, si sgancia dai sentimenti di vergogna, dal sessismo e dai pregiudizi che lo hanno storicamente contraddistinto, rappresentandosi nella forma di nuove narrazioni come quella della “nostalgia strutturale” e del recupero che danno vita a moderne ideologie. Il paese non è più il luogo dove restare perché non ci se ne è mai allontanati – tornando sempre alla rappresentazione dei paesi delle Langhe narrati da Pavese –, ma al contrario il luogo scelto e ritrovato, con nuova consapevolezza, ma anche con gesto innovatore che per ciò stesso impone una lettura del tutto nuova delle azioni e delle aspettative che a questo ritorno vengono agganciate, “patria culturale” (de Martino 1967) prescelta, entro la quale riappaesarsi e trovare un senso.
Nella Canzone della Ràbata gli abitanti del poverissimo quartiere di Tricarico trovavano la forza di definire sé stessi come forza positiva di cambiamento (Nuie simme ‘a mamma d’ ‘a bellezza), gioventù del mondo, quasi a voler uscire con le vocali aperte e l’immagine ampia, dai vicoli stretti, umidi e bui del quartiere dove vivevano. Non erba da pascolo né avanzo di nessuna altra civiltà. Forse questo orgoglio e questa gioventù del mondo indicano una strada da seguire per le nuove comunità paesane che si sono formate e si vanno rigenerando, incubatori di innovazione sociale e nuove modalità dell’abitare, ‘mamme della bellezza’ sullo sfondo della contemporaneità inquieta e fragile che stiamo vivendo.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Nota
[1] A Ottobre 2020 il CAI ha presentato ufficialmente, nella sua Assemblea Annuale svoltasi emblematicamente proprio ad Amatrice, il “Cammino Italia”; a Novembre 2020 l’Assemblea annuale ANCI e il MiBACT hanno organizzato un Webinar (23/11) su “I cammini quali opportunità di sviluppo e valorizzazione di borghi e piccoli comuni’. Su questi temi si muove da anni con impegno FederTrek e il suo Presidente, Paolo Piacentini, oggi referente proprio per il MiBACT delle attività di valorizzazione dei Cammini italiani. Cfr. Piacentini 2018.
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Letizia Bindi, docente di discipline demoetnoantropologiche e direttore del Centro di ricerca ‘BIOCULT’ presso lo stesso Ateneo molisano. Presidente dell’Associazione “DiCultHer – FARO Molise” per la piena attuazione della Convenzione di Faro nel territorio regionale molisano. Si occupa di storia delle discipline demoetnoantropologiche, di rapporto tra culture locali e immagini della Nazione nella storia italiana recente e sulla relazione più recente tra rappresentazione del patrimonio bio-culturale e le forme di espressione digitale. Su un fronte più strettamente etnografico ha studiato negli scorsi anni i percorsi di integrazione dei migranti, alcuni sistemi festivi e cerimoniali, la relazione uomo-animale nelle pratiche culturali delle comunità rurali e pastorali, la transumanza dinanzi alle sfide della tarda modernità e della patrimonializzazione UNESCO. Visiting Professor in varie Università europee, coordina alcuni progetti internazionali sui temi dello sviluppo territoriale sostenibile e i patrimoni bio-culturali (EARTH – Erasmus + CBHE Project con Università Europee e LatinoAmericane) e il Progetto ‘TraPP (Trashumancia y Pastoralismo como elementos del Patrimonio Bio-Cultural) in collaborazione con le Università della Patagonia argentina.
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