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Omaggio postumo a un poeta dell’adolescenza

Exif_JPEG_420di Antonio Pane

«Gradirei avere un Suo parere». La notizia della scomparsa, a novant’anni, di Vincenzo Gentile, casualmente avvistata tra i marosi di Internet [1], si è irresistibilmente avvolta a queste sue parole, riemerse di colpo dalle polverose cantine della memoria, dove riposavano da un cinquantennio: le aveva proferite, porgendomi un suo smilzo libretto, nell’estate del 1965, in piazza Garibaldi, a Campobello di Mazara, e mi avevano a dir poco sbalordito. Ero allora un tredicenne fresco di Licenza Media e il mio interlocutore un adulto fatto e finito, un ‘personaggio’ noto in paese come «il maestro Gentile»: insegnante elementare e assessore alla Pubblica Istruzione. Ancor oggi mi chiedo perché mai, quello che ai miei occhi passava per un autorevole esponente della cultura locale, dovesse chiedere un «parere» a un pischello i cui calzoncini da calciatore in erba sventolavano sul prato sconnesso della ventosa Guàguana, la collina con vista cimitero dove si sgambettava alla selvaggia in mancanza di un campo da cristiani.

La mia unica referenza nel ramo letterario consisteva allora in due o tre poesiole apparse nei mesi precedenti su «Il Vittorioso», il settimanale per ragazzi che nella rubrica «MicroVitt» ospitava contributi (poesie, raccontini, pensieri, disegni, fotografie) dei suoi giovani lettori. Oltre che in edicola, il giornalino era gratuitamente distribuito nelle parrocchie e l’avventurosa collaborazione (anche per il fatto che sotto la firma figurava il mio domicilio) mi aveva evidentemente procurato la nomea cui ora, per così dire, stringevo la mano.

il-vittoriosoNon rammento quel che risposi. Introverso, ai limiti dell’afasia e dell’autismo, com’ero a quel tempo (e come, in gran parte, son rimasto), forse, insieme al mio solito sorriso sperduto, riuscii a tirare penosamente fuori una frase di qualche coerenza, ma non ci giurerei: il maestro Gentile (di cui rivedo i modi educati, la non alta statura, i capelli chiari e gli occhiali fumée) dové probabilmente prendere atto del mio sguardo da ebete e rassegnarsi a una realtà che aveva certo immaginato più propizia. Sono invece sicuro che, come aveva senz’altro intuito l’umile e cortese richiedente, il desiderato «parere» non fu emesso: né a voce né, tantomeno, per iscritto. Ma il fuggevole incontro lasciò il segno: un poeta in carne ed ossa mi trattava da ‘collega’, mi accoglieva anzitempo nel mondo dei ‘grandi’; un poeta in carne ed ossa ed un vero libro di poesia irrompevano sul mio orizzonte, sino ad allora occupato dalle sparse membra di versi raccolti dapprima nel libro di lettura (vi giganteggiavano le filastrocche di Renzo Pezzani e la Pioggerellina di marzo di Angiolo Silvio Novaro, «che picchia argentina | Sui tegoli vecchi | Del tetto, sui bruscoli secchi | Dell’orto, sul fico e sul muro | Ornati di gemmule d’oro») e quindi nell’antologia Consonni-Mazza, dove Pascoli e Carducci facevano gara con il maestoso Vittorio Locchi di La sera sull’Arno: «Come una nave immensa nel mare de’ piani ancorata, | sventola il Pratomagno gli stendardi dei nuvoli»[2].

Campobello di Mazara, La torre dell'Orologio

Campobello di Mazara, La torre dell’Orologio

La scrittura in proprio – demandata a un quadernino scolastico della Cartiera Pigna in cui riversavo la ‘volontà di canto’ che aveva fatto seguito a uno stadio di acceso misticismo (spento da una molto istruttiva visita al Seminario Vescovile di Mazara), e volta a un quotidiano che comprendeva la Torre dell’Orologio e il pollaio visibili dalla finestrina della «mia stanzetta» (un oblungo stambugio con il tetto, ahimé, di eternit), il «cortile della mia scuola», e altre consimili epifanie, già tassate di pessimismo leopardiano – era il fatale sviluppo di una vocazione, se non di una patologia, che aveva in origine preso di mira le targhe stradali, le insegne dei negozi, i manifesti che compitavo estasiato ai miei orgogliosi e un tantino perplessi genitori, per trasferirsi a valanga sui fumetti (in testa Capitan Miki, Il grande Blek, Nembo Kid) divorati in quantità industriali, sulla bibliotechina delle elementari saccheggiata in ogni scaffale (da Senza famiglia a Pinocchio, e a quel Ventimila leghe sotto i mari con l’insulto dell’ultima pagina strappata), sul Vangelo tascabile vinto in una gara di catechismo, sui quotidiani giornalmente compulsati nel circolo del Movimento Sociale Italiano in via Umberto, sulle edizioni Bietti (dal Dumas dei Tre moschettieri, Il visconte di Bragelonne, Vent’anni dopo, Il tulipano nero, al Jack London del Richiamo della foresta, Zanna Bianca, Il vagabondo delle stelle, Jerry delle isole, Martin Eden, Il tallone di ferro) acquistate nella cartoleria del paese bruciando le rarissime mance, sui libri ‘seri’ (al vertice, traumatico, Il deserto dei tartari) che mi passava la signorina Mariella, l’amica di mia madre, anch’essa avidissima lettrice.

zanna-biancaInsomma, al momento del ‘battesimo’ impartito dal mite maestro Gentile ero così preso dal sacro fuoco, così ingolfato di parole, che non mi sarebbero forse mancate quelle per assolvere senza infamia il compito che mi si richiedeva. L’eccesso di pudore che allora me lo impedì esigeva una riparazione cui provvedo oggi, tornando a quel libro remoto. Lo rileggo nella copia conservata dalla Biblioteca Nazionale di Roma (ma vedo con piacere, nel catalogo SBN, che altre ne sopravvivono alla Biblioteca Nazionale di Firenze e alla Biblioteca della Regione siciliana). Ne sfioro la candida copertina (il cui titolo in rosso, Momenti o voci dell’anima, parla di fervori e ‘intermittenze’ cui certo dovetti, nella prima, del tutto obliata lettura, sentirmi vicino) e, correndo al frontespizio, constato che fu «finito di stampare il 30 giugno 1965», «a cura del Centro di Cultura di Campobello di Mazara» (istituzione cui si deve anche la monografia Campobello di Mazara, con la collaborazione di Michele Lombardo e Andrea Indelicato, Mazara, CORED, 1978), presso le edizioni SIA di Bologna. Arrivato alla Prefazione, sobbalzo alla firma di Giovanna Titone – la temutissima Preside della mia prima media (in seconda e terza mi toccò la meno spaurevole Lucentini), il cui nome mormorato in un soffio (Viene la Titone!) bastava a metterci sulla difensiva, in balìa di inenarrabili colpe –, firma che sottoscrive un profilo in cui il mio rarefatto ricordo è propenso a riconoscersi: 

«Ho conosciuto il Gentile a Campobello nel 1957, allorquando mi fu presentato in quella Scuola Media, di cui io, incaricata della presidenza, intendevo fare un piccolo cenacolo di cultura. Era un giovane un po’ dimesso, mi sembrò timido, impacciato, ma mi colpì il suo sguardo quasi trasognato. Ritornò dopo poco tempo e bastò che scambiassi con lui una breve conversazione, per aver avuto modo di intuirne un’anima semplice di poeta: io parlavo delle cose morte e delle cose che muoiono ogni giorno un po’, mentre egli sapeva parlare anche di tutto quanto vive nella morte; cercava e sapeva trovare il palpito della vita anche nell’abbandono della morte». 

terenzio-commedie-1953-utetDimesso, timido, impacciato, quasi trasognato, ma non privo di carattere, e capace di impegnarsi in concreto, promuovendo, anni dopo, l’istituzione di quella Biblioteca Comunale (a quel tempo allogata in via Francesco Crispi) in cui, negli anni del Ginnasio, potei continuare con agio la mia iniziazione all’universo dei libri (non scorderò mai i modesti scaffali in cui troneggiavano le opere complete di Giovanni Gentile e di Benedetto Croce, o quella elegante edizione UTET delle commedie di Terenzio, mio ultimo prestito): un esito consacrato dal verbale della delibera del Consiglio comunale (n. 156 del 27 novembre 1961) che ne certifica la nascita: 

«L’Assessore alla P. I., prof. Vincenzo Gentile, nell’illustrare l’argomento, non ha omesso di considerare quanto ardua sentiva la sua iniziativa al ricordo dei vani tentativi esperiti in quel tempo tra il 1920-24 dal prof. Saverio Minucci e più recentemente dal prof. Franco Buzzotta. Tuttavia egli non intende desistere dall’affrontare un così delicato problema, utile a tutti i cittadini, sol perché altri senza demerito non sono riusciti.
La Biblioteca comunale, secondo Gentile, “è l’unica fonte di vera cultura in ogni centro e specialmente nel nostro, ove tutto è assente, ove sono assenti gli svaghi che indirizzano sulla buona via. Solo attraverso la lettura di buoni libri, consentiamo ai figli del popolo di farsi un’idea nuova, diversa, del mondo. Avremo così contribuito alla formazione integrale, avremo dato il pane della scienza”.
Dopo avere evidenziato i grandi valori spirituali e formativi dei libri, il Gentile dichiara che era suo intendimento dotare la Biblioteca di libri che vanno dalla narrativa alla metafisica, dalla matematica alla poesia, dalla tecnica all’agronomia, dall’allevamento del bestiame alla veterinaria. Il citato atto deliberativo così si conclude: “Con la realizzazione di quest’istituzione avremo compiuto uno dei principali nostri doveri di amministratori della cosa pubblica, preparando in tal senso la strada maestra per i giovani del nostro paese. La cultura è la migliore e più grande premessa di un sereno avvenire di giustizia, di libertà e di pace”»[3]. 

L’episodio denuncia una vocazione confermata dalle scarne ma significative notizie biografiche offerte dai citati ‘coccodrilli’, che riferiscono del lavoro nella scuola (dapprima come maestro e in seguito come insegnante di Lettere alla Media e di Filosofia al Magistrale), del volontariato nell’AVIS (da socio fondatore e da presidente provinciale e regionale), della militanza socialista e delle due elezioni a sindaco (negli anni Settanta-Ottanta).

Considerando questo quadro, e il fatto che il nostro libello rimane, con le sue 64 pagine, la pressoché unica pubblicazione di Vincenzo Gentile [4], vien da credere che l’esordio poetico costituisca, piuttosto che un inizio gravido di promesse, l’esito di un percorso (lungo il decennio delineato dai titoli Pasqua 1954, Case di Budapest, Natale 1961), celebri la conquista della maturità allusa nella dedica «A mia figlia Maria Letizia Natalia» (oggi, a tener viva la fiaccola paterna, stimata dirigente scolastica): un esordio-congedo, in cui il trentaquattrenne autore, ormai sicuro in seno alla sua famiglia e alla sua comunità, può archiviare le fantasie giovanili, può indulgere ai travagli consegnati nel tempo al suo diario lirico, farne l’album da carezzare con qualche nostalgia.

Senza strutturarsi in una deliberata architettura (lo studio costruttivo che tradisce il poeta di professione), la nostra silloge presenta un ventaglio di temi privilegiati tra cui non posso non privilegiare quello che variamente riflette l’amore per il paese natio: anche se abbandonato a sedici anni (nel 1968, subito dopo il terremoto), Campobello rimane il bel campo che mi vide bambino e adolescente, il paesaggio primario, il teatro della mia formazione, la ‘piccola patria’ che non ho smesso di sognare.

i_ragazzi_della_via_paal_004Sussulto, quindi, al titolo Tre Fontane, che per me significa mare: il mio primo mare, il mare in cui ho imparato a nuotare. Mi riconosco nel «lido | maculato di verde», nelle «case disguide» (un aggettivo che fulmina la disinvolta proliferazione dell’abitato costiero), nella «torre | dagli anni tenuta» (l’antico fortilizio di avvistamento che è con la sottostante fontana a tre bocche il simbolo del sito). Mi commuovo all’evocazione del «monte | che vide un giorno | compiere il Calvario», ossia del Santo Monte, la piccola altura su cui presi parte, ma spaurito e in disparte, ad animose battaglie a lanci di pietre degne dei Ragazzi della via Pál (vi sorgeva un tempo una cappella con l’affresco del Calvario, cui i fedeli salivano in pellegrinaggio da una lunga scalinata tuttora esistente). Ritrovo, nell’«acre odor del mosto» e nel «cigolare dei carri sui selciati» di Ottobre, i giorni interminabili della vendemmia, pregni di dionisiache ebbrezze (e seguiti a ruota da quelli della raccolta delle olive e dell’estrazione dell’olio, con ugual traffico di carretti e altrettanto ‘acri’, sebbene dissimili, effluvi). E do corpo alle vaghe postille che sembrano voler racchiudere la quintessenza del luogo (il «sereno | azzurro | di mare», l’«eterno murmure marino», la «sabbia | arida | come l’anima | ammantata di dolore»), fino alla «nuda terra», al «greto verde cupo | del rio», al «rivo | solitario» che ne restituiscono il senso di rifugio, di quieto eremo.

Esaudita la mozione nostalgica, mi soffermo su altre ‘invarianti’, a partire dal sentimento religioso che detta poesie come Signore, non mi lasciare solo, Il mio volto («attendo | di riconoscermi in Te | mio Signore. | Tu mi darai un volto riconoscibile | Il mio volto sarà uguale al tuo»), Preghiera («Dio, voglio aspettare | con gli occhi levati al Cielo»), Non mi resta che attendere («attendere in ginocchio | davanti alla lampada votiva | che arde: un bagliore | di gioia infinita»), e che ha il suo corrispettivo terreno nei versi d’amore, distribuiti fra il ‘nuziale’ di Il nostro giorno («Io e te saremo alla vita attaccati | come l’erba nuova ai sassi | a ridosso d’un muro | per custodire un fiore: | il nostro fiore»), l’’amor de lonh’ di Piove e tu sei con me («Tra le gocce d’acqua | intravedo il tuo volto | che mi dà il brivido») e il dannunzianesimo di Sulle ali della musica (con quell’ardito «bere | il calice della tua voluttà | colmo di fremiti»); motivi che poi confluiscono nell’emblematico conflitto registrato in Ho bisogno di pace («Ho bisogno di pace, | di libertà, libertà dalla carne) e ribadito in Pace («Pace, grido dell’anima | che trema sotto il peso | della carne affranta»), la cui ultima strofa («Pace, grido di sangue versato | sui sentieri del mondo | in attesa di cieli, | riscatta l’Umanità | che lentamente | all’orizzonte s’avanza | sorridendo») potrebbe anche richiamare la prima marcia per la pace, promossa da Aldo Capitini il 24 settembre 1961.

Osservo altresì che il predominio della nota contemplativa ed estatica, sostenuta da parole-tema come «sole», «luce», «amore», «gioia», «speranza», «sogno» (in E tutto sarà solitudine spinta fino alla distopia che curiosamente riecheggia nella canzone di Guccini incisa nel 1967 dai Nomadi: «E noi, noi non ci saremo | e tutto sarà solitudine | e il grillo salterà indisturbato | tra il verde dei pampini | e le cose diverse»), non esclude diversioni ‘politiche’ (Terra di mezzogiorno segnalerà la «svolta» del Sud, e Case di Budapest il «sadico piombo» della catastrofe ungherese del 1956) e mostre di disincanto, talora un po’ atteggiato e ‘proverbiale’, dinanzi alla crudezza e al nulla dell’esistere (Amaro sarcasmo, La vita, La noia, Fratello): spie di tendenze destinate nel tempo a prevalere; indizi di una natura che, pur esposta alle altalene e agli affanni della giovinezza, è tutt’altro che ondivaga, si mantiene anzi – antidoto alle «Parvenze che discolorano» (Parvenze) e alle «ombre | vaganti» (Inquietudine) – ben salda, e incline all’incontro, alla condivisione, se non al servizio prospettato dal titolo Dare.

Un’indole che può essere ben dipinta dall’immagine del muro (declinata in «muro d’amore», «muro della speranza», «barriera d’amore»), e che sono tentato di collegare, se mi porto sul piano stilistico, alla concisione del dettato, al laconismo sovente appeso a versicoli che contemplano elementi di una sola sillaba (ad es. «notte | di | pianto»; «le gote | che | svegliano | un bacio»; «ma l’anima mia | è | di pietra»): ascendenza ungarettiana flagrante in Stasera (dove la triade «Appoggio stasera il capo | alla stanchezza, ho tanta | amarezza che trabocca» deferisce senz’altro a quella in cui si risolve la lirica con lo stesso titolo di Allegria di naufragi: «Balaustrata di brezza | per appoggiare stasera | la mia malinconia»), così come la seconda strofa di Amaro sarcasmo («Ognuno | sta | legato alla terra | con un filo | d’amore | di vario colore | di lunghezza | diversa») riconduce al Quasimodo di Ed è subito sera (implicato anche in Cuori in attesa: «Sparse | foglie | d’autunno | in grembo | alla terra | ravvivate | da un raggio | perduto | di sole»).

97665-consonni-mazza-poesia-e-prosaQuesti influssi o imprestiti (cui aggiungerei il «vo contando» di Sulla spiaggia, che sembra arieggiare il leopardiano «vo comparando») configurano una cultura poetica che non eccede il perimetro di una buona formazione scolastica, da cui deriveranno il consumo ‘fuori tempo’ di apocopi («affioran»; «s’incontran»; «odor») e anastrofi («alto un muro»; «lieve si posa»; «Nuove due stelle»; «nuovo un sole»; «nuova una lunula»), la pacifica adozione di termini desueti («m’addormono»; «opre»; «vaniscono»), o ‘finezze’ metriche come la rima equivoca di E tutto sarà solitudine («e le pergole alte, stecchite | nel delirio del sole | e le erbe tutte | cresceranno sole»), la rima interna di Fratello («Non vedi che il tempo sovrasta | e ti basta solo per farti | la croce e dire l’ultima parola») e (in Pace) l’accentazione «òccasi» (a fronte dell’ortodosso «occàso» di Lasciatemi cantare).

Un background certo non straordinario, ma in grado di alimentare una voce non priva di spunti originali, tra cui si fanno distinguere il deciso colpo di pollice che modella, fino a farli tangibili, i «giorni | sepolti dai giorni» (Tre Fontane), il cielo «simile ad un ciottolo | pescato nel fondo d’un fiume» (Pomeriggio d’estate), il «silenzio | eloquente del linguaggio | che sale al cielo | in un giubilo | di voci» (La tua gioia), la «Corsa sfrenata d’aerei carri | sulle strade di nebbia» (Temporale) o, all’altro capo della tastiera, il fervore fantastico di Sorvolo («Fuggono le colline | verso il cielo | percosse | da una pioggia | di luce. || Gli occhi | attoniti | fendono | le nuvole» || Sorvolo | isole di gioia | aggrappate al grembo | infocato | della squallida terra») e l’accensione mistica di Barlume («Segreto | barlume | traspare | dalla gabbia | terrestre | che chiude | quest’anima | sbilenca | posata | sulla cresta dell’onda | di fuoco | dai riverberi d’oro»); una voce ferma e, a suo modo, sobria, insediata in una sana dimensione terrestre, mossa da un’onestà che per lo più la preserva da estetismi e sfoggi muscolari e che smorza il piglio oratorio a regime anaforico di poesie come Dare, Valgono, Pace, attingendo anzi una sussurrata e persuasiva dolcezza in Vieni: «Vieni a tenermi compagnia, | anima stanca; | io ancora con gli occhi | sul limitare t’aspetto | a braccia aperte. || Vieni. Ascolto ancora | la tua voce, che mi culla, | che mi dondola, | che mi fa crescere più alto | nel silenzio della lontananza. || Vieni. Io so ancora | ripetere il tuo nome: | segreto bisillabo delle mie labbra | serrate nell’attesa. || Vieni».

Giunto al termine di questa imprevista quanto gradita rilettura, devo solo aggiungere che cinquant’anni fa ho avuto la fortuna, allora del tutto immeritata, di avvicinare un poeta: minore quanto si voglia, periferico quanto si voglia, ma poeta. Poeta nel suo solo libro come, credo, nell’intera sua vita che, si può dire, parafrasando il celebre motto di Carl von Clausewitz, ha continuato la poesia con altri mezzi.

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] Registrata il 13 agosto 2021 dal sito web «CastelvetranoSelinunte.it» e, due giorni dopo, da «TP24.it».
[2] In Elegie del sereno, «L’Eroica», Milano, 1921.
[3] Vd. Roberto Calia, La provincia di Trapani, vol. II, Cinisi-Terrasini, Arti Grafiche Abbate, 2020: 154.
[4] Vi si aggiunge la prefazione a L’anticu nun sbagghia mai. Raccolta di filastrocche, modi di dire e proverbi siciliani, del concittadino Rocco Riggio, Castelvetrano, Creative, 1998 (rist. 1999).

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).

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