Il panorama della produzione demoetnoantropologica siciliana si arricchisce di un nuovo apporto, che viene da un’area culturale di grande ricchezza e versatilità: il Messinese, o, per dirla con i vecchi cartografi, il Val Demone. Si tratta del libro di Mario Sarica, Orizzonti siciliani, edito nel 2018 dalla editrice Pungitopo di Gioiosa Marea (Me). L’autore vi raccoglie rielaborati i saggi usciti nel tempo in questo stesso periodico, Dialoghi Mediterranei. Ci viene spontanea la domanda: perché? Perché Sarica sente il bisogno di dare corpo fisico ai contributi pubblicati in rete, di perpetuare una modalità antica e mai dismessa legata al supporto cartaceo della scrittura, come al colore dell’inchiostro, o all’odore che promana dalla virginea carta bianca appena impressa dalla ferrosa impronta del carattere “tipografico”? Mondi diversi, si dirà, modalità contigue di trasmissione del sapere, che si arricchiscono vicendevolmente e che agiscono su platee di lettori parimente diversi: alla globalità dei navigatori on line (virtuale, per ovvi motivi sfuggente) fa da contraltare la piccola comunità degli amanti del liber, condensato straordinario di materia e anima, di corpo e mente.
Se questa esigenza di dare forma e vita alla scrittura è connaturato in chi scrive, lo è a maggior ragione nello studioso avvezzo alla ricerca di tipo demoetnoantropologico, abituato e quasi condannato al rapporto con le “cose”, oggetti, uomini, idee che hanno un rapporto strettissimo con la materialità e concretezza empirica del mondo popolare.
Mario Sarica, da raffinato esperto della ricerca folklorica, in tutte le sue varianti, che i saggi raccolti nel volume esemplificano e declinano in modo puntuale, non poteva essere da meno, ed ecco che dà corpo a una straordinaria produzione di articoli, che, siamo sicuri, ha già raggiunto le lontane, seppur imprecisabili, regioni del mondo della cultura del web. Non si riflette probabilmente mai abbastanza che per l’etnografo le parole – oralità o scrittura – hanno sempre un rapporto stringente con le cose, e con gli uomini che quelle cose nominano, producono, usano, trasformano: suoni, parole, flatus vocis, signum calami, mai fini a sé stessi, sempre in connessione a un universo fisico.
A questa esigenza di dare fisicità al sapere, fornisce concretezza editoriale la piccola e prestigiosa casa editrice Pungitopo, strenuamente impegnata nella valorizzazione delle culture locali e della ricerca storica regionale, in particolare nel settore della gastronomia siciliana, non trascurando la produzione certo “di nicchia”, ma di spessore, cosa che gli editori fanno sempre meno, smarrendo la loro identità di imprenditori culturali per omologarsi a quella di mediatori commerciali. Pungitopo è rara avis! Da vecchio editore, “puro”, Pungitopo ha capito il valore dell’operazione e ci consegna questo bel volume di 200 pagine che nel sottotitolo precisa con chiarezza l’ambito di ricerca dell’autore e il carattere del libro stesso: Forme del lavoro, Figure di festa e segni musicali di tradizione popolare.
Strutturato in quattro sezioni, ciascuna con un suo titolo, mai casuale, l’opera mostra una certa unitarietà, difficile da trovare quando si tratta di materiali pensati per stare da soli. «Forme del lavoro», «Figure di festa», «Segni musicali», «Territorio»: non sono titoli generici, “editoriali”, ma sintesi concettuali che racchiudono i temi di ricerca cari a Mario Sarica che, nella sua vasta attività di ricognizione etnografica sul campo e sui materiali archivistici, si è infatti occupato di cultura materiale contadina, di feste, di paesaggi musicali e sonori, tutti per lo più radicati in un territorio, il Val Demone e i suoi “casali”, ad indicare che l’etnografo, che si fa antropologo, storico, ermeneuta, ha sempre un suo orizzonte fisico di riferimento. Non la generica umanità, che già è tanto (troppo), ma una certa umanità: le classi popolari, i subalterni – contadini, pastori, tonnaroti, artigiani – giusto per usare le varie e mai definibili declinazioni delle società che hanno prodotto e producono saperi particolari, diversità che nascondono valori e arricchimenti per le culture cosiddette “egemoni”.
Il libro si apre con un appassionato saggio dal significativo titolo, La terra fecondata, il grano. E non poteva essere altrimenti. Tutta la ricerca etnoantropologica dagli anni sessanta in poi è “condizionata” da un materno-paterno rapporto con la “civiltà contadina”, con una ruralità che ai tempi delle organiche rilevazioni degli anni ‘80 del ‘900 era ancora viva e pulsante di memorie sedimentate nelle ancora intatte genealogie agricole presenti nei territori. É il caso della famiglia Truglio, che Sarica incontra nelle rilevazioni etnografiche tra il 1986 e il 1989. Con questa patriarcale genìa lo studioso intreccia un rapporto che non è tra lo “scienziato” e il reperto in vitro, ma tra un uomo e gli uomini, non tra altri, ma tra simili, pur nella dovuta e doverosa separazione dei ruoli.
Interessante quanto il contadino dice a proposito di “migrazioni” delle ciurme verso le “marine di grano” dell’Ennese. Ci ricorda come anche in questo mondo, così apparentemente statico, agivano le dinamiche delle trasmigrazioni materiali e culturali, per cui si capisce come i canti di mietitura o di “pisata” si ripropongono spesso sorprendentemente simili in contesti culturali lontani e apparentemente non comunicanti. Gli incontri culminavano, ne siamo certi, con una solenne e quasi sacrale “mangiata” di maccarruna cu firrizzu, impastati con la farina delle campagne di Galati, a sancire col pasto amicale, dal significato augurale, la fine di una giornata di ricerca e di emozioni. Ci vengono in mente, allora, le belle parole di Antonino Uccello, ad apertura del suo La civiltà del legno in Sicilia:
«Avverto che le persone, gli oggetti, la campagna di cui qui parlo non costituiscono per me una tarda riscoperta attraverso il filtro della cosiddetta scienza demologica. Gli uomini appartengono alla mia stessa estrazione di contadini e braccianti; gli utensili e gli attrezzi di lavoro sono spesso quelli dell’uso quotidiano che ho visti in opera; i luoghi son gli stessi che mi hanno visto nascere [...]. Uomini luoghi manufatti, prima di costituire documenti etnografici [...] sono stati per me lo scorrere della stessa vita».
Basta scorrere il saggio introduttivo al libro a firma di Antonino Cusumano per rendersi conto che ci troviamo dinanzi a un notevole lavoro culturale che, se in linea con la ricca e prolifica “scuola palermitana” dei Buttitta e dei Pasqualino, pur tuttavia, come tanta antropologia “di periferia” (absit iniuria), mostra quella singolarità propria di luoghi e ambiti territoriali diversi, di profili storici, dinamiche sociali e radici popolari peculiari, di retroterra e contesti umani con produzioni orali e materiali originali, spesso uniche. Singolare è il modo con cui le “forme del lavoro”, gli “universi sonori”, le “figure di festa”, sapientemente descritti nel volume, mostrano una vitalità e una persistenza in un oggi orientato alla obliterazione del passato, o alla sua radicale trasformazione, o, peggio, al suo travisamento.
Ecco che nel libro non si parla di passato ma di presente, per cui chi volesse verificare può benissimo recarsi a Casalvecchio Siculo, o a Saponara, a Gallodoro, o a Rodì Milici, o alla “periferia” di Messina, a Bordonaro, per assistere a cerimoniali vivi, partecipati, perfettamente strutturati nella cultura locale, dove si può verificare che esistono carnevali “altri”, feste di fuoco che sono rituali di reviviscenza popolare nell’era dei computer, figure mitologiche che presentificano l’arcaica esigenza di rifondare il tempo nella speranza di esorcizzare in qualche modo la finis temporum. Si tratta di aree e comunità resilienti in grado di ritrovare e sviluppare fattori identitari, valori di coesione sociale in alternativa spesso alla disgregazione e all’alienazione, o al semplice appiattimento omologante.
E Sarica entra in questi ambiti etnografici, in queste cerimonialità delicate e fragili, con la discrezione e naturalezza di chi è parte di quel mondo, che è poi il modo in cui si esprime quella “perifericità” di cui abbiamo parlato prima. Ci fa capire, forse, cosa intendeva Lombardi Satriani, quando a più riprese ha scritto di “intellettuali periferici”, per indicare quella ristretta e raffinata scuola di studiosi che vivono “in periferia”, lontani dai clamori delle accademie e delle spesso insopportabili dispute, vicini all’oggetto di studio, tanto da esserne spesso emotivamente coinvolti, riportando magari “ferite” culturali, salvifici danni da eccesso di “compartecipazione”.
Ma come si fa a non compartecipare il cerimoniale del Camiddu di Casalvecchio Siculo, di Nofriu, di l’Omu sabbaggiu, dello Scacciuni, del sempre ritornante mito dell’età in cui uomo e natura convivevano, e il “dominio” dell’uomo sul sabbaggiu era improntato al reverenziale rispetto per le forze feconde del caos? Come restare indifferenti agli universi sonori dei Peloritani e del Messinese in generale, dove puoi sentire ancora il suono del flauto di Pan, con una suggestione che non è la solita fascinazione del “cittadino in villa”, ma cifra interpretativa di fenomeni che un tempo si sono chiamati “sopravvivenze”, e che noi definiamo persistenze ancora perfettamente vitali e funzionali nei contesti sociali di riferimento. Pur tuttavia Sarica sa che occorre in qualche modo fissare e strutturare questo universo mondo in forme che, se pur reificate, mantengano e riconsegnino sub specie aeternitatis (si spera) alle future generazioni l’insieme di oggetti, suoni, immagini, altrimenti destinati all’oblio: da qui nasce il Museo della Cultura e Musica popolare dei Peloritani.
«Dall’etnomusicologia alla cultura materiale, alla letteratura orale e alle prassi rituali, lo sguardo dell’autore è orientato a tessere l’invisibile trama di fili che connettono il mutamento al tenace ordito delle permanenze, l’alto e il basso, il locale e il globale. Una dialettica feconda che nell’indagare analiticamente su aspetti diversi del patrimonio etnografico del Messinese offre un significativo contributo alla conoscenza ed esplorazione del paesaggio antropologico della Sicilia»
Così scrive Cusumano nella densa nota introduttiva alle pagine di Sarica, il quale non è solo un consumato etnomusicologo, allievo di Roberto Leydi, ma è anche un esperto museologo, fondatore di un piccolo e prezioso Museo, che mette insieme gli strumenti della musica popolare e quelli del lavoro, coniugando e contestualizzando nel paesaggio e nella storia del territorio quanto è solitamente tenuto separato: l’arte e l’estetica da un lato, le tecniche e la cultura materiale dall’altro.
Chiude il volume l’interessantissima sezione finale dal titolo Il paesaggio dei Nebrodi tra natura e cultura: un tema complesso, delicato, affascinante, quello di restituire la «fisicità del territorio», di raccontare la persistenza di un paesaggio dalle segrete e millenarie bellezze, che si possono cogliere solo a sapere scostare la tenda, la cataratta opaca calata da un malinteso sviluppo, oggi non più sostenibile. Lo ribadisce chiaramente l’autore:
«Il museo demoetnoantropologico è dunque uno strumento di analisi della realtà, meglio è un modo di rappresentare e documentare, qui e ora, una porzione di territorio da noi distante nello spazio e nel tempo o nella struttura sociale, cui annettiamo un senso particolare in forza della sua capacità testimoniale e/o della sua potenzialità di dialogo e scambio di conoscenze, nel rispetto delle diversità, che contrassegna la nostra modernità».
Infine, ma non ultimo, il libro presenta un prezioso allegato in cui l’artista Togo (Enzo Migneco, nipote di Giuseppe) “commenta” a suo modo il testo di Mario Sarica e lo fa con una grafica efficace e “popolare”, avvicinandosi il più possibile al contenuto, all’oggetto, alle parole che lo esprimono.
«In questo piccolo ciclo di opere grafiche – scrive Mosè Previti nella quarta di copertina di questo allegato – Togo affronta i temi della cultura contadina, delle feste popolari e, più in generale, dell’identità siciliana. Si tratta del grande pozzo dal quale l’artista attinge l’energia della sua produzione pittorica più nota e apprezzata. Tuttavia qui il pittore cambia registro, muta l’accento, abbraccia nettamente la figurazione mantenendo il suo inconfondibile stile. Con la freschezza della favola, la semplicità del racconto orale, del parlato che imbambola giovani e vecchi, Togo affronta la tradizione con la felicità d’intuizione che lo contraddistingue».
Se Togo ci “imbambola” con la sua grafica affabulante, Sarica ci ammalia con la sua intelligenza vigile e la sua sagacia di osservatore attento che, sotto la ruvida scorza della ricerca scientifica, fa intravvedere il fuoco prometeico della sua passione per Forme, Figure, Suoni, Paesaggi della nostra amata Sicilia.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa.
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