di Gaetano Sabato
Mi sono svegliato presto, stamani. Altrettanto presto ho lasciato la mia abitazione. Nella luce ancora tenue del mattino, l’aria frizzante di novembre ha sfiorato la pelle del mio viso e il mondo si è manifestato con la sua fresca delicatezza. È presto, ma le strade cittadine sono già preda inerme delle automobili. Non è una sorpresa. Io sono comunque ancora dentro i primi pensieri lenti della mattina. In auto, finalmente, il mondo, il “globale” mi dà il suo pieno buongiorno: trasmissioni radio e titoli di radiogiornali bussano alle porte della mia coscienza, cominciano l’indisturbato lavorìo di articolazione narrativa della nostra vita. Sembra il solito inizio di giornata. Incomincio a chiedermi tanti perché sulla narrazione in antropologia, perché un antropologo decide di iniziare a raccontare il suo campo, perché il presente etnografico diventa spesso la forma privilegiata del narrare, perché si sceglie una formula narrativa e non un’altra. La narrazione è ineludibile, in fondo, nemmeno poi tanto, in fondo; incominciare, in un modo o nell’altro, è altrettanto ineludibile. Il che consente molti incipit, molteplici punti di inizio, alcuni più efficaci, altri meno. Se, come afferma Lotman, la lingua è un «sistema di modellizzazione primario» (Lotman; Uspenskij 2001: 42-43), allora si potrebbe ugualmente affermare che la narrazione, con i suoi molteplici inizi, ha un potere (e un potenziale) modellizzante anche sui nostri stessi processi logici.
Sono uscito molto presto, stamani, per accompagnare una persona cara. Andiamo in ospedale per un ciclo di cure. L’attesa è lunga, i protocolli organizzati secondo precise sequenze. L’intera giornata fino al pomeriggio è stretta nella morsa lunga del tempo rallentato. La mente corre, forse per far fronte allo spiazzamento dell’attesa: un’attesa altre volte conosciuta, un momento forte che si carica di aspettative, ansie, paure, ma anche di riscatto, gioia, speranza per ciò che verrà; un’attesa, questa, come probabilmente molte altre attese importanti, che semantizza però il presente e lo rende già proiezione nel futuro. Ecco, forse, perché la mente corre lontano. La mente corre, ma si avverte l’esigenza di restare concentrati. L’ospedale implica presenza: mentale e fisica. Ci si sposta da un luogo all’altro, da un piano all’altro: ognuno di questi luoghi, per i pazienti che lo attraversano, è funzionale a un esame, un controllo, una visita. Le attese si moltiplicano: lo dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, l’esistenza di molte sale d’aspetto.
Un ospedale, a ben vedere, è molti luoghi insieme. Augé, forse guardando al loro uso, potrebbe chiamare alcuni reparti “nonluoghi” (Augé 1993): perché si attraversano e in essi si instaurano spesso relazioni momentanee, volte soprattutto alla fruizione/erogazione di un servizio. In generale, l’ospedale e le sue corsie “parlano” alle persone anche attraverso testi. Soprattutto, i pazienti all’interno di un ospedale acquistano un’identità comune, forse imprevista, solo per il tempo che vi rimangono dentro. Naturalmente, tutto sarebbe diverso nella prospettiva del personale che lavora all’interno di un ospedale: il caso che lo stesso Augé rilevava, per esempio, a proposito di Disneyland, dove i camerieri dei locali che si trovano all’interno del parco e i visitatori percepiscono gli stessi luoghi in modo molto diverso, se non perfino opposto (Augé 1999 e Augé 1997). O, ancora, nei termini foucaultiani un ospedale (non solo quello psichiatrico, di cui il filosofo francese parla espressamente) potrebbe essere una “eterotopia”: per i continui rimandi interni d’intersezioni fisiche, professionali, gnoseologiche che al suo interno inscrive e al suo esterno delimita e che tanto ricordano proprio il quinto principio di quella che Foucault chiama “eterotopologia” (ossia la descrizione delle eterotopie stesse): «Le eterotopie presuppongono sempre un sistema di apertura e di chiusura che, al contempo, le isola e le rende penetrabili. In generale, non s’accede ad un luogo eterotopico come ad un mulino. O vi si è costretti, è il caso della caserma e della prigione, oppure occorre sottomettersi a riti e purificazioni.» (Foucault 2001: 30). E si potrebbe pure citare, a questo proposito, il concetto di frontiera “pensato e problematizzato” da Lotman che implica una dinamica culturale: «La frontiera divide lo spazio della cultura in continui che comprendono un punto o un insieme di punti. L’interpretazione semantica di un modello della cultura consiste nello stabilire le corrispondenze fra i suoi elementi (spazio, frontiera, punti) e i fenomeni del mondo oggettivo» (Lotman; Uspenskij 2001: 155). L’ospedale ha frontiere simboliche, culturalmente date: gli individui che varcano le sue entrate divengono pazienti, acquisendo uno status che può non terminare con il ritorno alla propria abitazione. Nel caso di cure prolungate, ad esempio, il paziente per i medici è tale anche fuori dall’ospedale: la frontiera si sposta. Proprio come il campo. Proprio come gli antropologi. Lo aveva intuito Clifford parlando di viaggio e pratica etnografica: nell’epoca dell’attuale globalizzazione l’antropologia deve diventare itinerante per cogliere in profondità il cambiamento (Clifford 2008).
Sono in ospedale, accompagno una persona cara. Attendo come tanti altri, accompagnatori e pazienti. E nell’attesa “sfoglio” e-book e riviste su internet di antropologia, mi interrogo al contempo sul mio coinvolgimento di persona comune e di antropologo. L’attesa ha un potenziale di stress non indifferente. Eppure, con un po’ di volontà, si può trasformare in concentrazione. E lo faccio: mi concentro. Torno a leggere, su Dialoghi Mediterranei, un articolo di Stefano Montes in cui si problematizza la questione del campo a partire dalla nozione di fuori campo. Nel suo secondo lavoro sui ‘lavavetri’ (Montes 2014), attraverso un lavorìo di posizionamenti e riposizionamenti, Montes affronta da varie angolazioni il contesto del suo fieldwork: ritagliato, letteralmente ‘fotografato’, per caso – sostiene l’autore con un’affermazione geertzianamente “densa” (Geertz 1998) – nella sua esperienza di campo. Così nel suo testo:
«Le mie foto scorrono: […] qualcuna è adatta al contesto scritto, qualche altra non ha niente a che vedere con i miei iniziali propositi scientifici. Sono comunque sorpreso […] quando mi capita sotto gli occhi la foto di un lavavetri di spalle intento a pulire un parabrezza. Noto sullo sfondo, sul muro davanti a lui […] una scritta nera a caratteri cubitali, facilmente decifrabile: dono. Non era intenzionale e non ci avevo nemmeno fatto caso sul campo, tutto preso com’ero dal processo in corso, immerso nell’azione. Nel mio scatto, non intendevo inquadrare volutamente la scritta e non mi ero reso conto che fosse lì, quasi in attesa di un fotografo che la trasponesse in un testo, oltre il suo contesto di appartenenza: un muro insignificante di una strada qualsiasi di Palermo, uno sfondo in apparenza irrilevante» (Montes 2014).
La scritta nera di cui parla Montes è una tag, il segno lasciato da un writer, probabilmente la sua cifra “artistica” (nel senso etimologico di “capacità di fare, di produrre in maniera adeguata”) e personale. Per una sorta di processo indotto, la modalità testuale utilizzata da Montes per il suo lavoro – apparentemente casuale ma programmatica ed elaborata efficacemente in un’ottica narrativa che trasversalmente si pone nella dinamica semiotica «virtuale, attualizzato e realizzato» (Greimas 2000) – mi trascina più o meno consapevolmente nel processo di mescolamento di pensieri in libertà e riflessioni scientifiche. Poco più di dieci anni fa Clifford affermava: «Mi sono concesso di sperimentare più di un solo stile all’interno di un unico libro. Sto consapevolmente remando contro la legge del genere […] nell’ambito di particolari forme di scrittura. […] Ma forse non sono l’unico a credere che la mia prassi di “pensare attraverso” un argomento […] avvenga secondo una quantità di registri. […] Ho voluto allargare l’insieme dei processi che concorrono a formare ciò che consideriamo essere il pensiero, e persino la ricerca metodica: una parte di questi molto ordinata e disciplinata, una parte molto più fluida e aperta» (Clifford 2004: 70-71).
Così è facile che il campo (e la riflessione sul campo) di un antropologo-scrittore-autore attivi la memoria di campi esperiti – ed esperti, “a distanza”, nello spazio e nel tempo, si potrebbe dire senza il timore di rendere polisemica la famosa formulazione giddensiana (Giddens 1994: 37) – da un altro antropologo-lettore-scrittore (in un complesso gioco figurale e speculare). E quindi, in un flusso di associazioni poco controllate, come non ricordare il campo sul writing condotto anni fa da chi scrive? Le interviste ad alcuni writers italiani, la loro percezione di “tag”, definita da alcuni, quasi tautologicamente, come la necessità/volontà di lasciare il segno (Sabato 2006). Quel “dono” di cui parla Montes che diventa la marca semiotica di un’altra semantizzazione, quella appunto di un writer che sul muro cittadino ha lasciato una parte virtualizzata del Sé. Esattamente come Montes osserva a posteriori, parlando del suo campo e contemporaneamente riflettendo sul processo che lo implica, la propria semantizzazione: la foto. Ciò richiama la necessità di inscrivere il campo e l’antropologo in una rete intricata di processi semantici che si rispecchiano e rimandano la propria immagine: la foto, il muro, l’intento didascalico dell’antropologo, quello artistico-egoistico del writer, processi comunicativi, enunciazioni che attivano negli enunciatari un ulteriore processo di produzione di senso. Insomma, in altre parole il testo e il contesto, come ricorda lo stesso Montes, fluiscono senza limiti precisi fra il campo e il fuori campo. Il fuori campo è per sua natura polisemico, addirittura poetico, non foss’altro perché permette diverse letture, nonché scritture. Come includerlo quindi nel processo di conoscenza antropologica?
Prendo le mosse da un altro passaggio, quello conclusivo dell’etnografia di Montes, che mette l’accento sul concetto di divenire attraverso l’uso della fotografia e della scrittura in etnografia:
«Credo […] che la fotografia debba giocare un ruolo sempre più importante in antropologia: non soltanto come testimonianza o prova di ciò che è stato, ma, anche, come strumento di analisi del rapporto che si stabilisce tra il campo e il fuori campo, tra le forme del visibile e del dicibile, tra il contesto e il testo. Più che servire come ancoraggio al testo scritto – o, peggio, come accompagnamento al testo il cui senso risiederebbe principalmente nel testo stesso – la fotografia può avere la funzione di elemento catalizzatore per la comprensione dell’alterità […]. Opponendosi alle convezioni stereotipate della scrittura, può contribuire a reinventare nuove forme di ‘scrittura etnografica’ e costituirsi luogo di identità mobili, in divenire.» (Montes 2014)
Tra un pensiero e l’altro, nel rimando dal campo al fuori campo, ritorno a me stesso, ai miei ricordi. Qualche settimana fa, infatti, mentre ero a Siracusa per lavorare a un progetto di alta formazione, a un semaforo mi imbatto (il presente etnografico, col suo carico di affermazioni e decostruzioni, si impone) in un immigrato africano che, a differenza dei ‘lavavetri’, non ha in mano un pulisci vetro. Incrocia il mio sguardo, congiunge le mani e si mette in ginocchio di fianco alla mia auto, inarcando le sopracciglia in un’espressione di dolore: una postura volta ad ottenere qualche spicciolo, confermata poco dopo dal gesto dei palmi esposti a raccogliere un’eventuale elemosina. Quel dolore immediato (forte, probabilmente “eseguito” ma pure “improvvisato”) mi aveva suggerito un atto di performance in quanto conteneva gesti che mi apparivano come codificati (o, ancora di più, ritualizzati) in un insieme sul momento fastidioso, perché esagerato ed esasperato. Eppure l’enunciato del migrante aveva lo scopo precipuo di esprimere un bisogno, volto a suscitare emozioni e una risposta immediata negli automobilisti!
La “performance del dolore” è una delle più efficaci poiché veicola bisogni e aspettative, fondata sulla richiesta di un aiuto che passa per la comprensione, per l’empatia, ben oltre il concetto di empatia che lascia intendere Malinowski nella sua etnografia sui Trobriandesi (Malinowski 2011). La performance mi aveva colpito, aveva interrotto il movimento del mio spostamento in auto e quello della mia giornata di lavoro. Una parentesi “non gradita” che, colpendo l’emotività, in realtà colpiva a fondo, eticamente, la mia stessa pratica professionale. Non avevo previsto, né avevo progettato un campo sugli immigrati di Siracusa. Io lavoravo a un progetto molto diverso che assumeva Siracusa come destinazione turistica. Un’intrusione mi costringeva a una riflessione che distoglieva la mia attenzione da un altro progetto, antropologico sì, ma completamente diverso da quello che invece, adesso, il campo “inaspettato”, il campo “per caso”, il “fuori testo” esigeva: perché il dolore ha una dimensione gnoseologica di straordinaria portata e perché l’umano che utilizza (consapevolmente o no) la performance del dolore si esprime in una modalità che non lascia spazio alla negozialità (né ragionata, né istintiva), ma trae forza proprio dall’immediatezza del suo agire. Il dolore dell’immigrato, il suo habitus capace di smussare la distanza culturale fino ad annullarla e la diversità etnica creano nell’insieme una modalità partecipativa intensa e per certi versi destabilizzante perché apre alla durezza di una condizione, alla solitudine, alla speranza e, ancora, alla possibilità di concorrere al miglioramento di quella condizione di sofferenza nel coinvolgimento dell’altro, di me stesso. È la performance a sostanziare la richiesta, a inscriverla in un registro di senso; quest’ultima conferma le frontiere simboliche che stabiliscono un al di qua e un al di là, l’esclusione sociale del mendicante dal mondo e dall’esperienza dell’eventuale donatore, come ha sostenuto Godbout (Godbout, Caillé 2002: 232). Viene in sostegno di questa riflessione il fuori campo di cui parla Montes e il dono. L’elemosina, secondo Godbout, non è come il dono, non implica la reciprocità di cui parlava Mauss (2002); piuttosto apre alla posizione di Derrida citata da Montes (che è poi anche il dubbio dell’antropologo) secondo cui il dono non è del tutto compatibile con la reciprocità. Dunque l’elemosina è gratuità assoluta?
E qui, pur apparentemente in un processo di libere associazioni, una chiave comparativa può essere antropologicamente pregnante. La “performance del dolore” passa per una molteplicità di volti ed esperienze e scoraggia qualsiasi tentativo serio di una sua definizione che abbia carattere di immobilità. In più, essa esige enorme rispetto, come il divenire di una corsia d’ospedale: mi riesce infatti difficile avvicinarmi all’esperienza del dolore con un punto di vista critico, lucido e distaccato quale si addice ad una riflessione antropologica più convenzionale. È un paradosso, ma solo in apparenza: gli antropologi hanno evidenziato spesso l’aspetto processuale della loro prassi professionale, ma forse non hanno parlato volentieri del “fallimento” o delle “difficoltà” incontrate. Qualche significativo spiraglio aperto da una tendenza opposta (e, in particolare, dal Postmodernismo), forse non è ancora sufficiente a far ritenere veramente esplorato questo versante. Non che sia un aspetto ignoto anche nella prima ora della pratica di campo. Tutt’altro, ma il fallimento viene visto come elemento da superare grazie a una “giusta strategia” e, proprio per questo, continua a rimanere un argomento evitato. Del resto, il fallimento è un’esperienza con cui fare i conti, per qualsiasi antropologo si collochi sul campo investendo il Sé nella relazione con l’Altro: è vero, dai Trobriandesi ritratti nel diario “fuori campo” di Malinowski (1967) che fuggivano dopo aver preso il tabacco offerto loro dall’antropologo senza ricambiare il suo bisogno di documentazione, alla difficoltà di Geertz nell’essere accettato dai Balinesi (Geertz 1998), al dubbio esistenziale/professionale di Rosaldo (2001). Al di là del comune denominatore che è l’esperienza del fallimento, c’è una certa differenza – a volte sostanziale – nel modo in cui essa viene presentata, persino ostentata. I modi per esorcizzare il rischio di dover rinunciare alla comprensione dell’alterità diventano strategie etnograficamente efficaci che “vincono” l’esperienza del fallimento: non includerla nella monografia ufficiale (Malinowski), farsi inseguire dalla polizia per essere “come” i balinesi (Geertz), riposizionarsi sul campo dopo un evento tragico e luttuoso (Rosaldo) evitano la forza entropica e immobilizzante dell’alterità totale. Eppure queste modalità dicono molto del fallimento degli uomini-ricercatori che l’hanno vissuto. Ecco, allora, che il fallimento può assumere la parte di “fuori campo”.
Torno alla corsia d’ospedale. Il padre di una giovane paziente oncologica mi si avvicina e mi racconta della figlia, approfittando di una sua breve assenza. Usa un tono deciso ma pacato: «Prima di questa esperienza, prima delle cure, mia figlia aveva paura di tutto, perfino di essere punta da un’ape, se ne vedeva una. Se incrociava un cane, cambiava strada. A guardarla oggi, invece, è completamente diversa: ha il coraggio di un leone, lotta e affronta tutto con grande coraggio». Ecco la performance del dolore che ritorna. Ecco che il flusso della mia giornata, in un momento che non potrebbe essere più lontano da un campo antropologico, viene discretizzato da quell’interazione che mi tira dentro il processo e mi coinvolge. E mi fa riflettere, anche stavolta, non solo come osservatore ma, emotivamente, come partecipante. Entro allora in punta di piedi in questo difficile ambito d’indagine. Senza accorgermene mi ritrovo a osservare e partecipare, cioè in un campo. O meglio, in qualcosa che antropologicamente non appare molto distante da un campo. Manca soprattutto la progettualità. Ma a ben vedere c’è l’intenzionalità conoscitiva, riconoscibile dalle prime battute scambiate fra questo “inconsapevole informatore” e me, “incolpevole antropologo”. La performance del dolore però assume un’altra valenza: ha la stessa marca semiotica che è il bisogno e la voglia di condivisione, ma cambia modalità e sposta l’accento su altri aspetti. Ha affermato Le Breton: «In ogni dolore vi è in potenza, dopo la sua remissione, una dimensione iniziatica, una sollecitazione a vivere più intensamente la coscienza di esistere. Dolore significa essere strappati a sé, [alla] quiete in cui si radicava l’antico senso identitario: per questo il dolore subito è […] un principio radicale di metamorfosi […] È […] un modo di pensare ai propri limiti e di allargare la propria conoscenza degli altri» (Le Breton 2007: 217).
Nelle parole del padre da me incontrato ritrovo l’antropologo francese; ritrovo il dolore fisico della figlia e quello psicologico della figlia e del padre. La metamorfosi della figlia in donna è sotto i suoi occhi. La sua voglia di esternare, di socializzare il dolore anche con un estraneo come me è forse un modo per presentare, per cementare la nuova identità, per dare senso a uno status in grado di confondere se non si è saldi, se non si mantiene una possibilità d’azione nello spazio-tempo del quotidiano, in un tempo così speciale come quello della malattia in cui i punti di riferimento rischiano di essere cancellati. Come nel caso dell’immigrato africano, la performance del dolore è improvvisata e insieme codificata secondo una modalità culturale occidentale, con parole e gesti che riesco a inquadrare perché immerso nella stessa competenza del codice. Sono ancora io che sto discretizzando, ritagliando, o, come Montes, fotografando. Tuttavia, per quanto l’analisi di Le Breton sia fine e le sue parole delicate, il mio caso appare diverso: lo studioso francese parla della remissione del dolore. Nel mio inconsapevole campo il dolore è invece ancora vivo: c’è una persona in cura, in un lungo percorso chemioterapico, che ha già subìto una metamorfosi. Ma sì, credo che, anche qui, il dolore sia uno strumento profondo di conoscenza dell’alterità e del sé. Ancor di più perché c’è una possibilità di socializzazione e, dunque, di contestualizzazione.
Mi trovo a riflettere su un punto che costituisce la sintesi di quanto fin qui detto: il campo “casuale” (che non ho progettato, né articolato come istanza conoscitiva mettendo in atto tutta una sequenza di atti preparatori, di strategie discorsive e di assunti teorici) assume i contorni del campo vero e proprio, eppure sfumato in un ritaglio che potrebbe essere un “fuori campo” come quello di cui parla Montes. Come il suo ritaglio casuale, nel quale entrano elementi di primo acchito non visibili, si è trattato di accogliere, mio malgrado, elementi apparentemente casuali, benché selezionati in qualche modo dalla mia interazione (consapevole o meno) con l’altro, passando per una relazione dirompente quale l’esperienza del dolore rappresentato e socialmente inaccettabile (come quello dell’immigrato) o rappresentato e socialmente accettabile (come quello della ragazza in cura). E, in tutto questo, rimane il fatto che io entro comunque in relazione, volente o nolente, con i miei possibili “informatori” secondo una modalità assimilabile all’osservazione partecipante. Dunque, per ricapitolare, dove comincia e dove finisce il campo? Posso ancora definirlo così? Nel mio caso non c’è una finestra temporale ‘significativa in sé’ (per esempio, un inizio e una fine), ma ci sono esperienze disseminate, come quelle descritte, che sono state molto ‘significative per me’. C’è, insomma, un esterno al mio quotidiano che riconosco avere forme e status simili a quello che potrebbe essere un “fuori campo” antropologico, ma che è pur sempre parte integrante del mio quotidiano, al suo interno.
Se il “fuori campo” è riconoscibile come tale, allora è stato escluso volontariamente dal ricercatore: è stato operato un ritaglio e includerlo significa trasformarlo nuovamente in campo. Questo non impedirà tuttavia l’esistenza di un “fuori campo” un po’ più in là, da un’altra prospettiva. Spostarne i confini un po’ avanti implica il rischio di dover includere altri elementi della “realtà” che prima sembravano fuori, ma che ora incominciano ad assumere lo statuto di ciò che deve rimanere dentro. In questo caso, il concetto di frontiera elaborato da Lotman aiuta a comprendere l’alternanza “dentro/fuori”, con uno spazio del “noi” omogeneo e uno dell’“alterità” disomogeneo. Il campo può includere ed escludere, secondo ciò che è l’intento gnoseologico ed epistemologico; operato il ritaglio, poi, non si può trascurare la rilevanza di ulteriori significazioni, in una dinamica che articola priorità della disciplina e limiti o trasgressioni dei ricercatori. Bisogna quindi, in linea di massima, affermare una maggiore labilità dei contorni del campo: si deve affermare la necessità, come ricorda Montes, di includere i ritagli esterni non solo per rendere ingenuamente “obiettivo” il campo ma per dotarlo, soprattutto, di maggiore efficacia conoscitiva, amplificazione del senso e consapevolezza individuale e collettiva. Più sinteticamente, si può dire che il “fuori campo” ha dunque una dimensione “casuale” associata alla conoscenza, ma non necessariamente slegata da una progettualità stabilita a priori. Per finire, tutto ciò rende forse meno semplice definire il campo una volta per tutte, ma, allo stesso tempo, consente di sminuire l’assunto teorico forte secondo cui il campo deve sempre essere soltanto deciso, ritagliato e indagato aprioristicamente.
Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Riferimenti bibliografici
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Gaetano Sabato, dottore di ricerca e attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Palermo, si occupa di geografia del viaggio e del turismo, di globalizzazione e di teorie della contemporaneità. Ha insegnato Geografia Culturale all’Università degli Studi di Palermo e ha tenuto corsi di alta formazione parauniversitaria su vari aspetti del turismo. Ha pubblicato diversi articoli scientifici nell’ambito della riflessione sul crocierismo e sul rapporto fra spazio, esperienza del viaggio e narrazione, nonché alcuni studi sul teatro di figura orientale.
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