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Ostreopsis ovata. Narrazione e percezione di un epifenomeno antropocenico

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Sicilia (ph. Ivana Castronovo)

di Giuseppe Sorce

Il nostro nemico oggi è il maestrale. Quando arriva e si alza forte, dobbiamo rinchiuderci dentro casa. Non si può uscire. È pericoloso. Non si può uscire più. Ti gratta la gola. Ti gira la testa. Ti viene la febbre. I più deboli non ce la fanno. Abbiamo paura. Per i vecchi. Per i bambini. Qualche morto c’è già stato. I giornali non lo dicono perché ci sono altri problemi ormai. A nessuno interessa quello che accade qua. Siamo poveracci. Stiamo finendo.

È iniziato qualche anno fa. A nessuno interessava, sembrava una cosa anomala. Come quando peschi una cernia assai grossa. “Capitò quest’anno” sentivi dire in giro. E invece… Non si può più stare vicino il mare ma qui come facciamo che il paese è sul mare, che campiamo di mare? Manco una passeggiata. Il mare fa bene. Ormai è finita. Non c’è più niente da pescare già e ora con questa cosa manco vengono più dalla città a mangiarsi il gelato.

Questo posto sta morendo. I pesci sono sempre di meno e sono sempre più brutti da mangiare. Sembrano malati. Dicono che l’acqua ormai è troppo inquinata e allora dobbiamo andare sempre più lontano ma con le nostre barche non ci possiamo andare. Noi siamo pescatori della costa, peschiamo con le reti sul fondale basso. D’inverno non sappiamo che fare. Ci arrangiamo come possiamo, è d’estate che inizia l’incubo. Assurdo. Un tempo aspettavamo l’estate per uscire con la barca ogni giorno. Per guardare la gente che veniva a passeggiare. C’erano concerti qua – indica il centro più ampio del breve lungomare – si mettevano tutte le bancarelle fino a notte tardi. Ora è tutto finito perché quando arriva un po’ di vento dobbiamo rinchiuderci. Io l’ho detto ai miei amici, ai compaesani che incontro lo dico sempre: qua moriremo di fame o moriremo avvelenati.

Mi risuonavano ancora e ancora, le parole dette da F., pescatore di *. Tipico abitante di quel borgo sul mare, trascinava con sé le sue reti a ogni alba e le sue rughe (da uomo di mare) nulla c’entravano con le malattie che dovevano affrontare i pochi bambini del borgo. Come in altre zone del Paese, gli effetti del collasso ambientale dovuto all’inquinamento da parte dell’uomo erano ormai sotto gli occhi di tutti. Nessun governo riusciva più a tacerne. Cosa stava accadendo allora? Niente. Esattamente niente.

La gente, in * come nel resto del mondo che ancora per poco poteva dirsi civilizzato, non faceva nulla, immobilizzata dagli stalli dei processi elettivi, delle consulte parlamentari, dai dibattiti democraticissimi, rimaneva passiva, ma a ragione. In effetti non c’era più nulla da fare. La cosa buffa era che finalmente, proprio in quegli ultimi mesi, proprio i governi e i vari partiti, si erano mostrati interessati all’argomento “ambiente”. Facevano campagna elettorale su quello, “con noi affronteremo la crisi ambientale senza aumento delle tasse”, “al contrario di loro, noi faremo costruire mega strutture vicino gli scarichi…”. Sì, proprio quando non c’era più nulla da fare.

Ero andato a * a indagare sull’avvelenamento della costa causato da Ostreopsis ovata, un’alga tossica originaria dei mari tropicali che, a causa del surriscaldamento globale, proliferava ormai in quasi tutte le coste del Paese. Per questo motivo avevo intervistato F., il quale aveva vissuto il fenomeno nell’interezza cronologica della sua comparsa nei mari che circondavano il Paese, ormai caldi come quelli dei tropici. Si credeva che il problema a * sarebbe venuto soltanto dall’inquinamento delle acque, dovuto agli scarichi di * nel proprio mare insieme a quelli dei paesi vicini.

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Sicilia (ph. Ivana Castronovo)

Ora, è importante notare che l’inquinamento del mare è stato sempre molto sottovalutato, principalmente perché i danni causati alla gente non erano immediati. Solo adesso, dopo decenni, gli effetti drammatici dell’inquinamento condizionano direttamente la vita di coloro che vivono a ridosso di quel tratto di mare. Prima, semplicemente, l’amministrazione locale si limitava a mettere dei divieti di balneazione “ma l’acqua è pulita”, dicevano. Sempre in quegli anni, girava voce – e quando “gira voce” in un borgo di due mila abitanti, la notizia può essere considerata come un’informazione da prendere seriamente in considerazione – che in occasioni delle burrasche, “mare agitato” nel gergo del posto, venissero aperti i depuratori. Questo significa che, approfittando di onde alte e mare in tempesta, il filtraggio dei liquami veniva interrotto e tutto fuoriusciva liberamente al ridosso delle spiagge. Capite bene come questa operazione, ripetuta per due decenni, non abbia di certo giovato alla salute dell’ecosistema di quella zona aggravando considerevolmente lo stato di salute globale del mare su cui * si affacciava già disastroso. L’aumento della temperatura media delle acque ha fatto il resto. Ci si renda conto che stiamo parlando di 1°/ 1,5° in più. Una bazzecola, come il mondo all’epoca gridava irridendo gli scienziati prima, gli attivisti poi, il senso comune alla fine. Alla fine sì, la fine è arrivata. Adesso il senso comune piange senza trovare ragione.

La questione è una: non abbiamo le strutture cognitive per comprendere una cosa complessa come il clima. Si può provare a immaginare il delicato sistema di equilibri microbiologici ma quello che poteva contare, allora, poteva essere il contenere i danni e prepararsi all’inevitabile. Il contenimento non c’è stato, la preparazione mentale al domani neanche. Oggi vaghiamo. Abbiamo cercato scorciatoie alle vie che si dovevano seguire e ora siamo nel bel mezzo di una enorme distesa desertica senza fine. Ero giovane all’epoca, troppo giovane. Ricordo persino i primi proclami proprio sull’alga tossica. Lo ricordo perché all’epoca avevo gli unici mesi che potevo passare a casa – vivevo all’estero – erano proprio i mesi estivi.

Ricordo allora che il nostro posto di mare preferito da un’estate all’altra è diventato impraticabile. All’epoca ci preoccupavamo noi, giovani e colti, a tutti gli altri sembrava un capriccio del caso. Così come a * già accadeva ma fummo ciechi all’epoca. Se avessimo saputo vedere cosa accadeva a * dove già l’alga da anni si presentava creando i primi disagi, avremmo avuto un indizio, una traccia da seguire per immaginare, intercettare, ripensare i giorni che sarebbero venuti. Invece no. Abbiamo guardato il nostro. La nostra piccola nicchia, la nostra piccola spiaggia. Qui non succederà, qui non accadrà. Ed eccoci. Due decenni dopo. A * la vita è a rischio. * scomparirà e non importa a nessuno. Sono andato a * per vedere cosa sta succedendo.

La gente di * se la prende con il vento. Il nemico è il maestrale. Ancora oggi l’alga invisibile nasconde alle vittime la vera causa del male che li sta decimando, direttamente e indirettamente. Da * si fugge perché non si campa d’inverno. D’estate è il Ostreopsis ovata. Cosa succede al di là del racconto popolare? Succede che il livello di inquinamento del mare è talmente alto che i pesci non ci sono più, si tengono a largo. E la gente di * non sa pescare a largo. Qualche barchetta malconcia si avventura di tanto in tanto. Anche lì, a largo, il pescato è sempre più scarso. Cercano di limitare l’uso del carburante. Montano delle specie di vele quando ci riescono utilizzando i materiali che trovano. Preferiscono usare il carburante che riescono a comprare per le stufe d’inverno. Lo miscelano in qualche modo, lo bruciano. Con la nafta per un’uscita in barca si riscaldano una settimana d’inverno.

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Sicilia (ph. Ivana Castronovo)

E quindi cosa facevate? Abbiamo iniziato a spingerci sempre più lontano. Le nostre barche non ce la fanno. Non sono fatte, anche con le modifiche, per andare a largo, non durano, ripariamo gli stessi scafi da quando io ho memoria. Ma poi chi ce lo ha mai insegnato a pescare a largo se avessi le barche giuste? C’è un mio amico, S. lo trovi sempre il pomeriggio tardi al molo. Si è messo a pescare tipo delle canne a largo che si fa lui. Perché costano assai delle canne nuove buone. Usa ciò che trova alla vecchia fabbrica che c’è qua vicino. Ha imparato a riparare sempre le stesse logore lenze. Le raccoglie con scarti di deragliatori di bici che ha trasformato in mulinelli. Ma alla fine, come ti ingegni ti ingegni, si pesca sempre poco, sempre meno.

Abbiamo preso dal mare quello che volevamo. Per anni. Ora non c’è più niente.

Il volto inutilmente macchiato dal sole e sferzato dalla brina tossica, le mani mangiate da anni e anni di sale, ogni mattina, ogni giorno. Il mare che muore, ogni mattina, ogni giorno. Nelle parole del signor F. e nei suoi occhi che strabuzzano di continuo si intravedono i margini dell’abisso umano che sta aprendo le sue voragini proprio lì, in quella misera baia. Il mondo sta inghiottendo *.

Il problema è che all’inizio avevamo pensato che prendere i molluschi poteva bastare ma anche cotti ci facevano male, molto male, perché si mangiano l’alga e se ti mangi una cosa che ha mangiato l’alga ti viene tipo la dissenteria. È terribile.

Quando la situazione è diventata così grave? Il problema è che con i cambiamenti climatici anche i venti sono impazziti. All’inizio, i primi anni i problemi dell’alga c’erano solo una o due volte a settimana. E noi eravamo tranquilli. Io ragazzino me ne fregavo. Ora il maestrale soffia cinque, sei giorni a settimana. Non ci dà tregua. Usciamo solo noi, i più vecchi, quelli che ormai abbiamo i calli. Io tossisco da vent’anni. Manco me la ricordo un’estate senza tosse.

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Sicilia (ph. Ivana Castronovo)

Dove sono le donne? Le donne stanno a casa con i bambini. È come se fossimo tornati indietro di settant’anni. I bambini e gli anziani devono essere controllati, non devono uscire, noi usciamo a pescare e loro rimangono a casa, siamo pochi ormai. Per fortuna la febbre dell’alga non è contagiosa, però uno si indebolisce avendo sempre la febbre e ti vengono altre cose che ti fanno stare più male e ti vengono poi cose che magari passi agli altri. I bambini hanno sempre la tosse. I vecchi rischiano a ogni febbre, non ce la fanno.

A questi poveracci è successo un po’ quello che è successo durante alcuni decenni del VI secolo d.C. all’epoca di Giustiniano alla gente che abitava quegli stessi luoghi. A causa di alcune annate molto fredde, dovute all’eruzione di un vulcano islandese, scarseggiavano i raccolti, parecchi capi di bestiame perirono, guerre e razzie distrussero svariati centri abitati sulla costa già falcidiati da un’epidemia, così la gente per sopravvivere fuggiva. Verso l’entroterra e le montagne. Fuggiva chi aveva più mezzi. I più sfortunati, i meno preparati, gli ultimi, rimanevano a fronteggiare l’inevitabile che spesso arrivava dal mare.

Quando misi piede per la prima volta a * per dare vita all’inchiesta che, censura permettendo, sarà pubblicata fra tre mesi – potrei però per quel tempo aver parlato già di un deserto – mi accorsi che non ci tornavo da decenni. Percorrevo l’unica strada che collega a *. Bisogna passare su di un ponte pericolante da chissà quanto tempo. La costa è rocciosa ai limiti della città, via via che si va verso est però la sabbia prende il sopravvento. Il litorale di * è quasi interamente sabbioso. Poco prima di arrivare alla vecchia piazza mi accorsi di strane pozze sulla sabbia. Erano grandi, vicino la strada, lontane dalla riva. Uno strano scenario, acquitrini di rifiuti, paludi di scarti e resti di un’abbondanza che era finita per sempre. Era qualcosa che avevo già visto altrove ma a * queste pozze erano particolarmente grandi e avevano scavato depressioni sul terreno di qualche metro. Ci si poteva specchiare. Erano tutte guarda caso vicino ai vecchi scarichi fognari. Si vedevano ancora gli argini cilindrici appoggiati di fianco sulla sabbia. Sembravano crateri di bombe e invece erano pozze profonde come laghi.

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Sicilia (ph. Ivana Castronovo)

Per qualche giorno ho esplorato la costa di tutta la provincia. Il disastro era annunciato. Da decenni. Gli archivi sono chiari. Gli articoli di giornali locali e nazionali aumentavano a ogni estate. Forse il problema era di tutto il continente che si affacciava sullo stesso mare, di sicuro l’alga era già arrivata nei golfi di altre città. Ma la mancanza di chi allora doveva pensare la complessità del fenomeno è stata letale. Non che si sarebbe potuto fare qualcosa ma almeno ci saremmo potuti preparare. Oggi la città ha arretrato come una falange oplitica in cui si insinua il terrore della sconfitta. Rimangono piccoli raggruppamenti agonizzanti sulla costa. * è uno di questi. Perché? Si chiederebbe qualsiasi di voi lettori di buon senso.

Perché il pubblico dovrebbe stare a guardare mentre il cinema va a fuoco? Perché quando un’auto a fari puntati ci viene contro ci immobilizziamo e non tentiamo di scartare a lato? È paralisi di fronte al pericolo imminente oppure è una forma di ipnosi da schermo in cui realtà e finzione si mescolano?

Ieri sono andato a * per l’ultima volta. Questa volta mi sono coperto la mascherina con un ulteriore panno retinato a filtri. Avevo cominciato a tossire da qualche giorno. Il mare era cristallino più che mai. Due ragazzi stavano portando via una carogna di cane dalla strada. Ho rincontrato F. che stava rivestendo una crepa nella plancia della barca con una lastra di metallo riscaldata saldandola al resto della plancia con una soluzione collosa di resina, alcol e plastica fusa. Vedendomi mi salutò e mi fece segno con la mano di fermarmi a qualche metro da lui per evitare la vicinanza con i fumi che quella strana colla emanava a contatto con il metallo caldo. Mentre aspettavo sopraggiunse qualcuno. Era il figlio di F., poco più di trent’anni. Si fermò accanto a me.

Prima o poi ‘sta barca si aprirà mentre siamo a mare. Non ne può più di riparazioni. Come un moto di disperazione mi colse e allora gli parlai con tutta la sincerità che possedevo. Ma tu che ci stai a fare ancora qui?

Lei che ci fa qui?

Io? Voglio raccontare quello che succede.

Ormai è tardi.

Nessuno l’ha fatto in passato. Non potete rimanere senza voce.

Lei crede di averne abbastanza pure per noi?

Per fortuna in quell’istante arrivò F. Ci guardammo. Tutti e tre. Nel silenzio rivolgemmo tutti lo sguardo verso il mare. Il maestrale. Non ne voleva sapere di calmarsi.

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Sicilia (ph. Ivana Castronovo)

Ostreopsis ovata è vera. Il resto no. Potrebbe esserlo. Così come il luogo descritto.

Nessuno è morto per complicazioni dovute a Ostreopsis ovata. Dovremmo chiederci quando e se la presenza di Ostreopsis ovata costituirà un grave problema della salute pubblica? No. Sarebbe interessante chiedersi invece come la presenza e la diffusione, esponenziale, di Ostreopsis ovata nei nostri mari si collochi all’interno dei mutamenti climatici ed ecosistemici in ciò che ormai è noto come Antropocene. Il punto non è quando o se Ostreopsis ovata diventerà mortale. Il punto è: come viene percepita e raccontata Ostreopsis ovata oggi alla luce del collasso ambientale già in corso? Mi spiego meglio. Quale è il rapporto tra la percezione del fenomeno Ostreopsis ovata e la sua narrazione? Come l’alga tossica intercetta le narrazioni dell’Antropocene e come ne influenza la percezione.

 «La fiction è azione, la fiction è la via praticabile. La narrazione, ogni narrazione, sposta percezioni corpi denaro. C’è una grande fiction della Guerra fredda. Nei think tank, nei dipartimenti di studi strategici, nelle war room, in film e romanzi, paesi, missili, personaggi chiave e moltitudini venivano mosse, eradicate, infusi dai coni di luce dell’osservatore e del pensatore. Nell’ora attuale si tratta di subire racconti o di riscriverli, bisogna opporre racconti chiari a racconti oscuri. L’ultimo cambiamento antropologico globale è già avvenuto, si chiama Antropocene. L’Antropocene è una cosmologia a base scientifico-emotiva che ha modificato in modo irreversibile l’immaginario umano [1].

Quindi creare una narrazione sull’alga tossica per sviluppare un immaginario che serva come campo d’azione virtuale. Ostreopsis ovata è un epifenomeno, certo, ma la sua percezione e la percezione delle dinamiche di crisi climatica ad essa collegata è molto scarsa perché la sua narrazione è quasi inesistente. A parte qualche articolo di giornale locale, qualche avviso comunale.

Quello che ho scritto è più vicino a un esercizio di antropo-fiction. Sono partito da voci vere per sviluppare una narrazione. Sono partito da una percezione reale che sta fermentando in un luogo reale per elaborare una narrazione. Questa non vuole essere una modalità allettante per sensibilizzare. Non c’è nulla da sensibilizzare perché il collasso sta avvenendo e proseguirà in ogni caso e Ostreopsis ovata è soltanto un frammento di ciò che arriverà.

«La “fine del mondo” è uno di quei famosi problemi che, secondo Kant, la ragione non può risolvere, ma che non può fare a meno di porre. È il modo in cui lo fa passa necessariamente attraverso la forma di una fabulazione mitica o, come oggi piace dire, di “narrazioni” che ci orientano e motivano. Il regime semiotico del mito, indifferente alla verità o alla falsità empirica dei suoi contenuti, si instaura ogni volta che la relazione tra gli umani in quanto tali e le loro condizioni generali di esistenza si impone come problema della ragione» [2].

Virtualmente, tutto ciò che si può dire sulla crisi climatica diviene, per definizione, anacronistico, sfasato; e tutto ciò che deve essere fatto al riguardo è necessariamente troppo poco, ed è ormai troppo tardi [3].

Danowski-De_Castro_Mondo_cover.inddAllora l’unica cosa da fare è prepararsi mentalmente al domani. Allora l’unica cosa da fare è rimettere in moto l’immaginazione per poter ripensare il Mondo. Pensare scenari possibili, ipotesi di pensieri corali che mai si verificheranno ma che possono come un germe proliferare nell’immaginario collettivo per ricominciare a rifertilizzare l’immaginazione, ossia quella facoltà che ha permesso all’uomo di sopravvivere. Non solo la fiamma dell’invenzione meramente tecnologica, ma la brace perpetua dei sogni.

Si potrebbe per esempio iniziare a ragionare su come costruire una narrazione sociale, politica, poetica sul mare, poiché presto sarà realmente tossico a causa dell’aumento del livello di acidità. Si può iniziare allora a ripensare il mare attraverso nuove narrazioni e non è necessario immaginare chissà quale evento catastrofico.

Perché costruire una nuova narrazione (poetica?) del mare? Partiamo dal dato sociale e politico attuale. Esso è già spia di una svolta nell’ordine dell’immaginario che riguarda il mare. Non ce ne siamo accorti forse più di tanto ma le narrazioni attuali, quelle nocive, quelle obnubilanti (quelle della politica, quelle della politica sociale di massa, nazionale) stanno inquadrando il mare sempre di più come agente potenzialmente assassino e portatore di distruzione. Non più il “mare nostrum”, ponte fra civiltà, collegamento di terre, idee, ricchezze, bensì il mare come barriera mortifera a doppio senso. Da un lato del mare ci siamo “noi” occidentali, dall’altro “loro”. Così il mare diventa mortifero per “loro” (quando non ce la fanno a portare a termine la traversata oppure semplicemente muoiono prima di arrivarci), oppure, secondo “certe narrazioni”, il mare diventa mortifero per “noi”, invasi, scippati, società e valori frantumati.

Una narrazione distopica o post-apocalittica, in cui dal mare arrivano agenti patogeni letali, in cui il mare diventa talmente tossico da diventare assassino per contatto o per inalazione della sua brezza, può funzionare sullo stesso livello dell’attuale storytelling dell’“invasione dei migranti”.

Per questo ho provato a costruire una breve narrazione sull’alga tossica. Poiché è un epifenomeno della crisi climatica e in quanto tale rappresenta in piccolo le difficoltà e i pericoli che saremo costretti ad affrontare già domani. Dell’alga tossica la percezione è minima e con essa è minimo il discorso sull’intero “Sistema Terra” che porta con sé. Ecco perché attivare una narrazione sull’alga in termini di fiction.  Il fatto che il pericolo reale per le nostre civiltà sia riconducibile al grado di acidità delle acque marine la dice lunga sul grado di percezione delle cose (della “realtà”). Se allora il regime percettivo si è spostato ormai su un regime di finzione (narrazione, storytelling, fiction), se allora l’opinione pubblica, le masse sociali, il sentire popolare, si (s)muove solo sulla base di narrazioni (non c’è nessuna “invasione dei migranti”, i migranti non sono il problema né, in nessun caso, il “pericolo” per la società) e allora con le narrazioni che si agisce: fiction is action. Ripeto: ecco perché è necessario elaborare narrazioni sul mare che riflettano il vero pericolo (inquinamento, innalzamento delle temperature); ecco perché ragionare a partire dall’immaginario e lavorare alle narrazioni.

L’immaginario è la chiave di volta per comprendere il qui e ora [4]. L’immaginario serve a spostare il qui e ora e spostarci con esso. È questa la chiave per affrontare il collasso [5].

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
 Note

[1] In Fiction is action, la Grande Estinzione – 1/07/2019, https://lagrandestinzione.wordpress.com/2019/08/19/fiction-is-action/.
[2] Danowski D., Viveros de Castro E. 2019, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano: 29-30.
[3] Ivi: 35.
[4] Si veda Meschiari M., La grande estinzione, Doppiozero, 12/06/2019, Doppiozero.com, https://www.doppiozero.com/materiali/la-grande-estinzione.
[5] Qualcuno è già a lavoro. Si rimanda a https://lagrandestinzione.wordpress.com.
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

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