il centro in periferia
di Pietro Clemente
Ho scelto un titolo che si potrebbe cantare sull’aria di “Parole parole” [1]. Potrei spingermi a citare ancora una volta Cesare Pavese [2]. Esiste una immagine consolidata dei paesi, costruita in gran parte dalla letteratura [3]. Da qualche tempo i paesi, chiamati sia con questo nome che con quello più ambiguo e selettivo di borghi, sono al centro della scena: da un lato perché, a partire dal 2010 circa, la Strategia Nazionale Aree Interne li ha messi al centro di progetti di sviluppo locale, chiedendo ai sindaci di mettersi in rete, dall’altro perché – più di recente – il PNRR ha fatto piovere sulle comunità di piccola dimensione molte risorse. In un certo senso, sembra di rivivere gli anni ’70, quando ogni paese poteva disporre di risorse per la cultura, scrivere la sua storia e avviare musei.
In Italia i comuni sono 7901, di questi 5.534 sono sotto i 5.000 abitanti, e rappresentano il 70,04% del numero totale. È strano osservare che il Piemonte e la Lombardia siano le regioni che ne hanno la più alta percentuale e non siano invece le regioni del Sud. Sono i tratti di una Italia diversa da quella che continuiamo a immaginare e sono anche l’oggetto del lavoro di ricerca e di proposta di molte associazioni [4]. Se si va più a fondo, si rischia di essere travolti dalla straordinaria varietà di storie e di esperienze di questi 5.534 piccoli centri. Di questi ultimi ho esperienza di un centinaio, per sentito e letto forse un migliaio, ma rimango sconcertato perché continuano a comparire sulla scena nomi di paesi a me del tutto ignoti. Anche in Sardegna, mia isola di origine, ci sono 377 comuni dei quali 314 hanno meno di 5000 abitanti, e benché frequenti e legga i temi della vita locale non arriverò mai a conoscerli tutti, nemmeno di nome.
Queste poche note danno immediatamente conto dei paradossi dell’Italia. I comuni al di sotto dei 5000 abitanti. messi in evidenza anche dalla legge 158/2017, sono i più numerosi [5], e sono anche quelli che dispongono di minori investimenti e che comportano più disagi per chi ci vive. Perché i governi non investono su di essi? Il segreto è presto svelato: questi comuni hanno pochi abitanti e quindi pochi elettori: i residenti sono 10.068.213 e costituiscono il 17% della popolazione nazionale. Sto semplificando una questione assai complessa, che tuttavia ci segnala che la scelta di ‘riabitare l’Italia’ e di investire sulle aree interne, deve partire dalle città dove circolano di più le idee. Riabitare le aree interne deve diventare il nodo centrale dei diritti da conquistare, e non solo una questione locale. Perché riequilibrare il territorio, restituire diritti a chi, per via dello spopolamento, non ha più l’ufficio postale, la chiesa, l’ospedale, talora nemmeno il bar o i negozi, è una grande questione nazionale. Non è questione che riguarda soltanto i singoli paesi ma tutti gli italiani. Purtroppo siamo ancora molto lontani dalla consapevolezza di questa coscienza.
Paesi miei
In queste pagine del Centro in periferia viene proposto il caso di Meana Sardo, un paese della Sardegna, che è qui oggetto di interventi nella direzione proposta. È un paese che mi è particolarmente caro perché è il paese natale di mio padre e della mia nonna paterna, è il paese dei miei primi anni di vita e delle mie villeggiature estive fino almeno ai 15 anni. Un paese di cui poi ho perso le tracce e dove sono tornato molto più tardi, grazie a un sindaco e una associazione culturale (S’Andala) che volevano ridare al paese vita culturale e progettualità. La ricerca e il progetto articolato da Meloni e Uleri mostrano che comuni come questo sono oggi di fronte a nuove prospettive di sviluppo. È finito il ciclo dell’abbandono e ci sono tempi maturi per una ripresa innovativa di agricoltura e pastorizia adeguata al presente. In una direzione che non sia solo quella del turismo, ritenuto da molti sindaci come unica risorsa.
Il progetto di sviluppo locale elaborato da Benedetto Meloni e da Francesca Uleri, è per me un ritorno, al paese della mia infanzia, alla sua particolarità, al suo stile di vita ormai trasformato, alle comunità parentali. Questi miei ricordi autobiografici sono di per sé significativi della complessità del mondo dei paesi nel Novecento: a Meana mio nonno, pugliese, ingegnere edile che veniva in Sardegna per avere vinto un concorso per la costruzione delle ferrovie, conobbe e sposò mia nonna, ragazza di buona famiglia di possidenti locali e da allora e per sempre fu legato alla Sardegna. Per tanti italiani i paesi sono queste strane realtà, abitano anche nella memoria, nelle genealogie, nei cimiteri, negli incontri che per millenni hanno reso i sardi non solo sardi. E i pugliesi non solo pugliesi. Per me sono ‘paesi miei’, ma Meana non lo è in modo esclusivo perché sento come “paesi miei” anche Tricarico, Aliano, e Castiglione d’Orcia. I primi due perché li ho conosciuti attraverso gli scritti di Rocco Scotellaro e di Carlo Levi, scritti che hanno fondato una nuova cultura dei paesi e del Sud nel secondo dopoguerra e con i quali mi sono formato. Castiglione d’Orcia è il paese in cui ho avuto il privilegio di fare per tanti anni ricerche antropologiche fino ad affezionarmici. E così ho tanti ‘paesi miei’. Un altro paese per me importante è Armungia in Sardegna, luogo natale di Emilio Lussu, luogo di ricerca con i miei studenti romani per tre anni, di dialogo e di avvio al mio interesse per i piccoli paesi attraverso l’esperienza di Tommaso Lussu, nipote di Emilio.
La mia storia e i miei studi si intrecciano quindi con un mondo di paesi: tutti noi siamo pieni di queste memorie che inconsapevolmente rischiamo di perdere. E avvertiamo la necessità di tornare almeno simbolicamente, colla memoria, nei ‘paesi nostri’, cercando di modificare il nostro sguardo sul futuro per un progetto di Riabitare l’Italia.
Mi sconcerta il numero dei paesi italiani e la stranezza e la varietà dei loro nomi. I nomi dei comuni sardi sono quasi sempre pronunciati dai giornalisti ‘continentali’ con gli accenti sbagliati. Narbòlia o Narbolìa per esempio, in provincia di Oristano. Ma voglio tornare alla grande quantità di paesi dai nomi sconosciuti. Essi si presentano spesso in liste lunghissime che sembrano non finire mai. Si è discusso, anche in campo estetico, sul valore delle liste [6]. Questa settimana sul 7 del Corriere della Sera, c’era una rubrica Mare e lago, con una lista di paesi che autorizzavano il titolo Storia&sport. La vita nuova dei borghi-gioiello. Proponevano un Hotel Promessi Sposi, un trekking, una ciclovia, un borgo della ‘dieta’, e così via. Una mescolanza tra immaginazione urbana e vita locale. L’idea che ne scaturisce è che i borghi sono oggetti turistici, da vendere. Ma quel che continua a colpirmi è che non conosco tutti i nomi nelle liste. Sembra normale conoscere il proprio paese e quello vicino (spesso rivale), la regione e la nazione di cui si fa parte, mentre gli altri paesi vengono considerati zone interne scotomizzate della vista, della memoria, della rilevanza. Forse anche da qui si può cominciare una educazione al riabitare l’Italia. Una trasmissione tra le più esecrate dagli ‘antiborghisti’ come Il borgo dei borghi a qualcosa può comunque servire.
«Il prestigioso riconoscimento de Il Borgo dei Borghi è stato assegnato quest’anno a Ronciglione, un affascinante borgo situato nel Lazio. Al secondo posto si è classificata l’incantevole località di Sant’Antioco in Sardegna, mentre il terzo gradino del podio è stato conquistato da Salemi, nel cuore della Sicilia. Il Borgo dei Borghi 2023 è Ronciglione in provincia di Viterbo. È stato il borgo più votato nella trasmissione @kilimangiarorai su RAI3 condotta da @camilaraznovich».
Gli aggettivi qui sopra usati ci fanno capire quanta retorica ci sia. Ma scorriamo la lista dei competitori:
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Casoli (Chieti) in Abruzzo
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Miglionico (Matera) in Basilicata
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Diamante (Cosenza) in Calabria
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Cetara (Salerno) in Campania
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Bagnara di Romagna (Ravenna) in Emilia-Romagna
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Marano Lagunare (Udine) in Friuli-Venezia Giulia
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Ronciglione (Viterbo) nel Lazio
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Campo Ligure (Genova) in Liguria
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Bellano (Lecco) in Lombardia
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Esanatoglia (Macerata) nelle Marche
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Monteroduni (Isernia) in Molise
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Castagnole Delle Lanze (Asti) in Piemonte
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Castro (Lecce) in Puglia
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Sant’Antioco (Carbonia-Iglesias) in Sardegna
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Salemi (Trapani) in Sicilia
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Campiglia Marittima (Livorno) in Toscana
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Bondone (Trento) in Trentino-Alto Adige
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Citerna (Perugia) in Umbria
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Issogne (Aosta) in Valle d’Aosta
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Possagno (Treviso) in Veneto
E quella dei vincitori degli ultimi anni:
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2014 – Gangi (Palermo, Sicilia)
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2015 – Montalbano Elicona (Messina, Sicilia)
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2016 – Sambuca di Sicilia (Agrigento, Sicilia)
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2017 – Venzone (Udine, Friuli-Venezia Giulia)
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2018 (primavera) – Gradara (Pesaro-Urbino, Marche)
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2018 (autunno) – Petralia Soprana (Palermo, Sicilia)
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2019 – Bobbio (Piacenza, Emilia Romagna)
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2021 – Tropea (Vibo Valentia, Calabria)
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2022 – Soave (Verona, Veneto)
Se abbiamo visto qualche puntata della trasmissione, qualche luogo che ci era sconosciuto è entrato nella nostra memoria.
E i paesi della rete del Welcome chi li conosce? https://piccolicomuniwelcome.it/chi-siamo/#contatti. Sono almeno 50: potete consultarli nel sito con gli emblemi dei loro comuni. Il loro Manifesto ha al centro “accoglienza-integrazione”, tema delicato e difficile, poco presente nel dibattito sulle arre interne. Sono molte le associazioni che si occupano di questi temi: ecco un frammento da un sito:
«L’Associazione Riabitare l’Italia è partner del progetto “Le Comunità Resilienti ai Tempi del Covid-19”, promosso e finanziato dalla Fondazione Finanza Etica e coordinato da Bottega del Terzo Settore».
«Il progetto è stato elaborato dai soci dei Gruppi di Iniziativa Territoriale (GIT) di Area Centro e dal Coordinamento Soci Lavoratori, in raccordo con le progettualità definite dai GIT di Area Nord-Ovest (“Seminare Comunità. Percorsi formativi in agricoltura per avvicinarsi a nuovi modi di abitare le aree interne” – coordinato da Humus srl in collaborazione con NEMO – Nuova Economia in Montagna Soc. Coop.) e dai GIT di Area Nord-Est (“NUMES – Le Comunità che Supportano l’Agricoltura oltre l’emergenza: un nuovo modello agricolo per l’economia solidale” – coordinato da Arvaia Soc. Coop. Agr.)» (sito di Riabitare l’Italia).
E nel sito della Società dei Territorialisti/Territorialiste, troviamo una lista di associazioni in dialogo:
http://www.societadeiterritorialisti.it/wp-content/uploads/2018/05/schedaNovellino.pdf
Riace: un modello di città dell’accoglienza
LaPEI
Nuovo Municipio
ProBiUr
Società della Cura
Communia
Officina dei saperi
Laudato si’
Volere la luna
Machina
PerUnaltracittà
ATTAC Italia
ACTA
Comune.info
Comuni virtuosi
Riabitare l’Italia
RIES Rete Italiana Economia Solidale
Rete Ecomusei Italiani
Contratto di Fiume
Montagne in rete
Dislivelli
Salviamo il paesaggio
ReTe dei Comitati
Mondeggi Bene Comune
La prima Langa
Réseau des Territorialistes
Territorialist
Anche le interessantissime schede elaborate di una contro geografia affrontano molte realtà locali: Schede già elaborate: per una controgeografia territorialista – Società dei territorialisti/e ONLUS (societadeiterritorialisti.it)..
Paesi, paesi, paesi, borghi, comuni, frazioni, associazioni. Tutto questo dovrebbe dare il senso di una ampia conoscenza dei fenomeni, di reti in forte connessione e solidarietà. Mi pare invece che ci sia una grande dispersione in cui i fenomeni di vera interconnessione e condivisione di obiettivi su larga scala di tanti luoghi spesso sconosciuti è ancora lontana.
Facciamo un intermezzo. A scorrere i centenari si ha l’impressione che siano i nati nel 1923 ad avere fatto la cultura critica, aperta al sociale, solidale e ugualitaria che anima ancora il nostro mondo. Scorro sul web i nomi dei nati in quell’anno che conosco. Ne trovo tanti che sento assai vicini, fondatori di storie come la mia.
Si comincia con Rocco Scotellaro (Tricarico), poi Lorenzo Milani (Barbiana in Mugello), Saverio Tutino (Anghiari e Pieve Santo Stefano). Sono elencati con accanto i loro paesi del cuore. Per la mia formazione sono stati maestri di ‘paesologia’, anche se si tratta di cittadini fattisi paesani nel caso di Don Milani e Tutino, mentre nel caso degli scritti di Rocco Scotellaro si parla della rappresentazione della diversità dei territori e delle identità locali, della coscienza di luogo
Ma scorrendo la lista si trova Gianni Bosio con la sua Acquanegra sul Chiese, paese paradigmatico nei suoi scritti, e nella storia orale. Il suo libro postumo Il trattore ad Acquanegra è stato fondamentale per la ricerca storico-sociale e antropologica del paese. Si deve a lui con Alberto Mario Cirese e Roberto Leydi la creazione dell’Istituto de Martino.
Si trova Italo Calvino: dalle pagine di La strada di San Giovanni (Milano, Mondadori, 1990), ho raccolto tantissime suggestioni sui nessi tra i luoghi e i padri, sulla centralità della spazzatura come indicatore di storia di cittadinanza. Dalla lettura di ogni suo libro ho imparato qualcosa: sulle fiabe, sulle città, sul cristallo e sulla fiamma, sulla leggerezza e sull’esattezza su come si scrive.
E poi: Pio Baldelli (legato a Perugia e ad Aldo Capitini) è stato il primo critico cine/televisivo che ho incontrato all’Università di Cagliari. E ancora Peppino Fiori [7], straordinario giornalista radiofonico e televisivo, oltre che biografo. Le sue biografie mi hanno restituito il piacere di conoscere le storie illustri sottraendole alla comune retorica.
A guardare in Europa trovo Andrè Gorz [8] che è stato parte della mia formazione politica, Wisława Szymborska, conosciuta tardi, resta una grande poetessa della vita quotidiana; quella degli antropologi e dei piccoli paesi [9].
Da tutti questi nati nel 1923 è come se io, nato 19 anni dopo, avessi preso luce e avessi vissuto nella loro ombra. Il passaggio tra le generazioni ha avuto per me grande concretezza soprattutto tra coloro che hanno vissuto dentro il fascismo, dentro la ribellione contro di esso, e nei processi di emancipazione, di eguaglianza e di democrazia che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mondiale. Dentro le loro storie ci sono storie di paesi che per nascita o per adozione hanno fatto parte della vita culturale, della poetica, dei destini immaginati o criticati. Nella nostra cultura italiana non sono importanti solo i provinciali, ma molto più specificamente i ‘paesani’.
Il CIP è un tentativo di dare visibilità ai processi di lotta contro la marginalità e la disuguaglianza territoriale. Di costruzione di una nuova centralità per l’Italia degli Appennini, delle Alpi e delle zone interne. Un tentativo di capire a che punto sono questi processi e se riescono a progredire. È un impegno molto difficile, a momenti scoraggiante. Gli scenari sono estremamente frammentati e differenziati nonostante le tante attività che si sono definite su questi fronti. Anzi talvolta queste attività mostrano le differenze, le non coerenze tra i vari progetti.
In questa fase la scena è dominata dal PNRR che ha imposto una sorta di ‘investimento finalizzato ai luoghi’, ma senza alcuna coscienza di una finalità collettiva. Per cui si palesa il rischio che le risorse destinate a tanti piccoli paesi si perdano senza lasciar traccia di nuovi progetti di sviluppo, e senza alcun potenziamento della linea della Snai. Da quel che si riesce a capire molti progetti sono stati finalizzati all’uso turistico dei territori o alle attività sportive. È come se si trattasse di denaro in eccesso, da spendere a fantasia. Tutti temiamo che il bilancio finale sia negativo, ma ancora non si riesce ad avere un chiaro quadro di insieme.
In questo numero del CIP (centro in periferia) troviamo nitide tracce di buone pratiche, di processi innovativi (locali), ma anche riflessioni teoriche, sociali e di politica culturale sullo stato delle cose.
Seddaiu (sulla Corsica) e la rete degli ecomusei piemontesi portano nella direzione della innovazione e delle buone pratiche. La piattaforma televisiva Allindi completa lo scenario di una Corsica laboratorio di nuova vita delle aree interne nel quadro di una nuova identità regionale. Suggerisce uno strumento assai avanzato di comunicazione, in uno spazio che siamo abituati a vedere come prodotto inevitabile di imprese di profitto internazionali.
«Allindi è una piattaforma streaming made in Corsica …Nell’era di Netflix e delle altre piattaforme contemporanee è spesso solo il mercato a decidere i contenuti e i palinsesti. Qui lo spazio dedicato e la scelta effettuata assume il valore di fonte non convenzionale…più di 800 lavori con il focus sull’area mediterranea che ha dato vita ad una teca indipendente di storie, di persone e di luoghi che raccontano scenari passati e contemporanei attraverso differenti punti di osservazione nel mondo».
Gli Ecomusei piemontesi, che in questo numero continuano a darci conto delle loro iniziative, mostrano la funzione attiva dei musei nello sviluppo locale. Sono forse le uniche istituzioni del patrimonio ad esserlo quasi per definizione.
«L’ecomuseo ha il potere non solo di raccontare, ma anche di far vivere il passato, la cultura, gli usi, le tradizioni di un luogo e di una comunità. Mestieri, quelli della montagna che sono spesso il trait d’union tra l’uomo e l’ambiente naturale. Mestieri, che diventano interpretazione del paesaggio. Mestieri, che sono sfide dell’uomo sulla natura, scenari di ingegno e impegno svolti per secoli e col tempo abbandonati al loro destino che l’Ecomuseo, per finalità e missione, sa fare rivivere ri-dandogli voce e importanza».
È questo un esempio forte di quel recupero di saperi e di competenze locali da mettere al servizio di un tipo nuovo di sviluppo locale. Non è sufficiente riabitare per farlo: spesso occorre riconnettersi con la grande esperienza di scambio tra uomini e territori, riattivare la molla (Becattini) plurisecolare aprendola al futuro.
Altri contributi hanno un carattere più marcatamente concettuale e politico. Tarpino, in una densissima recensione, introduce la nozione di ‘impersonalità’ nel rapporto uomo-natura. Impersonalità come mondo oggettivo, come la ‘negatività’ della dialettica hegeliana, la natura estranea che si fa terremoto, inondazione, e che come tale dobbiamo porre al centro della riflessione per cui, con un gioco di parole, potremmo dire che “l’impersonale è politico”. L’impersonale però non è negatività. È piuttosto alterità per i soggetti che possono cercarne il senso, le logiche, le differenze fino a «incontrare la mente di un luogo». Temi che stanno tra la coevoluzione territorialista e la dialettica mente-natura di Gregory Bateson, utili da introdurre nelle nostre riflessioni:
«Tuttavia incontrare la mente di un luogo – secondo la sua espressione prediletta – è una difficile precondizione per divenire-insieme perché le identità locali sono processi in divenire e non solo radici. Ci vuole del tempo, i processi, come le radici, sono lenti» (Tarpino).
Anche Ferreri riflette su temi di ampio respiro che pongono in un certo senso le condizioni generali di una idea del riabitare che non sia di natura meccanica, di risulta, di rifugio, ma si collochi su una prospettiva strategica di civiltà nuova.
«Ritematizzare sia la dimensione poietica che quella funzionale e soprattutto il loro raccordo può fare dei borghi e delle aree interne un grande laboratorio di creazione, sperimentazione e rinnovamento del “senso” – del senso dell’esserci, del restare e dell’andare, dell’abitare. L’immaginario, poi, non è in contrapposizione al materiale, alle pratiche territoriali concrete: l’immaginario è il terreno di coltura indispensabile per ripensare quei luoghi che un determinato modello di sviluppo ha posto al margine, abbandonato o ridotto a riserve da sfruttare. Come le pratiche innovative producono nuovo immaginario, così un immaginario disintossicato è premessa indispensabile per nuove pratiche, per pratiche realmente trasformative» (Ferreri).
Abbiamo bisogno di queste istanze per tenere aperta la dimensione più generale e politica del riabitare le zone interne, collocarle in una idea strategica di umanità futura, che misuri successi e difficoltà in questa davvero difficile prospettiva di lungo periodo.
Lupatelli segnala, nell’ambito del riabitare, il gravissimo disagio legato al depotenziamento della formazione, schiacciata ormai su una sorta di licealizzazione attenuata e poverissima di saperi pratici e specifici. Questo testo mi ha fatto pensare al Gramsci della educazione politecnica e alle tante esperienze di licei tecnologici dove non c’è nulla dell’abilità pratica, artigiana, corporea dei saperi ma allo stesso tempo non ci sono neppure più l’italiano e la storia degli antichi licei. Lupatelli segnala il mondo difficile del territorio appenninico dove prima si emigrava in cerca di lavoro mentre oggi, pur in presenza di una forte offerta di lavoro, i giovani non rispondono non avendo progettualità duttili, innovative, trasversali ma essendo appiattiti su modelli lavorativi medi, banalizzati, burocratizzati. E pone il problema di un cambiamento radicale della cultura formativa: «Esperienze che propongano la “capacità di fare”, l’espressività e “l’intelligenza delle mani” come obiettivi importanti del processo educativo e come veicolo di affermazione della personalità».
Meloni e Uleri, sul paese di Meana Sardo mostrano un caso di progettazione, di diagnosi e di prognosi territoriale che è paradigmatico e che ha la caratteristica di porre al centro del futuro di una comunità l’agricoltura e l’allevamento, visti non più come ‘passato’, ed anzi come condizione di un turismo locale sensato. A mio avviso, il tema delle agricolture contadine, oggetto di una legge approvata dalla Camera e bloccata al Senato, è uno dei temi da approfondire su tutti gli scenari dell’azione sulle zone interne. Così come è del massimo interesse lo sviluppo di una nuova forma di pastoralismo e di corsi di formazione, di cui abbiamo dato notizie commenti e linee progettuali in numeri precedenti del CIP.
Brusadelli e Uleri infine propongono una riflessione sulla formazione dell’immaginario rurale e dei processi per costruire competenze e progettualità in ambito contadino. Questo tema è già stato segnalato nel quadro dell’Erasmus rurale osservato in Corsica e più in generale negli scambi europei.
«La ruralità – scrivono – risulta essere un concetto in continuo mutamento che deve la sua interpretazione al contesto storico-sociale in cui è calata, connessa, definita, interpreta o utilizzata, va compresa dunque alla luce di bisogni e esigenze mutevoli (es: formazione) che riflettono mutamenti sociali più ampi. Allo stesso modo, la costruzione dell’immaginario rurale si sviluppa e trasforma anche grazie ai molteplici tipi di mobilità che compongono, attraversano e infine rimodellano in misure differenti questi territori. Le mobilità contribuiscono a plasmare il rurale attraverso il confluire di svariati attori, i quali si incontrano e scontrano in un continuo scambio di idee, attività e modelli legati a pratiche multiple, alle volte incanalabili in solide strategie di sviluppo se opportunamente organizzate».
I contributi che vengono dalla sociologia dell’ambiente e del territorio (e in particolare qui dall’ambito dell’Università di Cagliari e dalla scuola di sviluppo locale di Seneghe) hanno una densità propositiva particolarmente interessante.
Ruralità è una parola poco usata e spesso usata negativamente, come a denunciare una ideologia legata a un mondo che non si conosce più ma si mitizza, e spesso a scopi mercantili. Come i campi di grano nel loro nesso fittizio con i biscotti o i finti mulini che accompagnano finti prodotti legati a luoghi non contaminati del tutto inesistenti. È interessante invece connettere il termine alla progettualità agricola e alle possibili immaginazioni di vita nei territori rurali del nostro tempo. In questo quadro, il recente libro di Pietro Meloni Nostalgia rurale. Antropologia visiva di un immaginario contemporaneo [10], sembra un interessante contributo. Frutto di una ricerca antropologica sul campo durata più anni, e denso di incontri e di narrazioni di molti protagonisti (spesso l’antropologia regala paesaggi umani ricchi e plurali che è difficile trovare in altre discipline sociali), il libro pone al centro Iesa, una piccola comunità, frazione di Monticiano, a sua volta fatta di frazioni e di nuclei isolati e insieme connessi. Come in tanti luoghi del mondo ex contadino degli ultimi 30-40 anni, ci si trova di fronte ad una stratificazione di presenze e di rappresentazioni, di dialoghi e incontri che connettono pendolari indigeni e stanziali stranieri, abitanti andati via e ritornati, ex hippies indigenizzati, stili di vita del tutto diversi, che producono strane e ormai ‘classiche’ neocomunità spesso intorno a leadership esterne.
Iesa è una sorta di laboratorio di idee e di pratiche della ruralità. E nello scenario di Pietro Meloni appaiono i temi classici della globalizzazione, della mercificazione, della gentrificazione. Temi spesso gestiti in modo da precostituire atteggiamenti e pratiche ma utili – in presenza di significative etnografie – anche a rivelare e a favorire discussioni e riflessioni che aiutano a vedere mondi continuamente innovativi e dinamici con i quali confrontare lo sguardo sulle aree interne.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Canzone di Leo Chiosso, Giancarlo Del Re, Giancarlo Del Re, Gianni Ferrio, resa celebre dalla esecuzione di Mina in duo con Alberto Lupo
[2] «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», in C. Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950
[3] Ne ho scritto in P. Clemente, Paese/paesi, che sta nel volume a cura di Mario Isnenghi, I luoghi della memoria. Struttura ed eventi dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1997: 5-39
[4] In particolare su questi aspetti si veda il volume Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, a cura di A. De Rossi, Roma, Donzelli, 2018. Da questo volume è nata l’Associazione Riabitare l’Italia. Segnalo inoltre la Società dei territorialisti e delle territorialiste
[5] “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni”: si tratta di una legge di fatto inutile sul piano operativo e del riequilibrio, ma che avrebbe potuto fare da riferimento per il PNRR
[6] Umberto Eco, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009
[7] Nativo di Silanus in provincia di Nuoro
[8] Nato a Vienna, ma viveva a Vosnon, un paese di 204 abitanti nell’Aube del Nord Est francese, dove pure ha scelto di morire con sua moglie
[9] Nata a Kórnik un comune urbano-rurale polacco del distretto di Poznań
[10] Roma, Meltemi, 2023.
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.
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