dialoghi intorno al virus
di Donato Santarcangelo
15 aprile
«Noi ancora non pensiamo autenticamente». Così M. Heidegger [1]. Che l’umanità sia progredita non c’è alcun dubbio, ma in quale senso, e a quale prezzo? Potremmo cominciare col dire sinteticamente, perché non è questa la sede di uno scritto esegetico, ma preliminare, che l’idea consolidata di progresso psichico, socio-culturale e scientifico si è schiantata già più di cento anni or sono. Come un inaudito e crudele killing joke, infatti, lo stesso progresso culturale, sociale, scientifico ed economico, ha portato tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso i tre grandi «maestri del sospetto» a travolgere per sempre il concetto consueto di società ed economia (Marx), di pensiero (Nietzsche) e di coscienza (Freud). L’essere umano ha assistito, allora, in estrema sintesi, dopo aver scoperto, appunto, neanche tanto tempo prima, la scienza e i suoi (relativi) rigori nomotetici, a cui giocoforza (ne scriveremo tra poco) aveva, probabilmente per effetto alone, dato poi un potere di spiegazione onnicomprensivo (una sorta di positivistico delirio di onnipotenza), alla rovina di tutte le sue acquisizioni meccanicistico-soggettocentriche. Ma il clima di generale e assoluto disorientamento si è instaurato anche (e forse soprattutto, pensando alla percezione attuale dell’insieme della società mass-mediatica) per la crisi, molto probabilmente irreversibile, dei valori borghesi del liberalismo economico e politico e della capacità di mediazione e contenimento delle grandi religioni.
I valori borghesi del liberalismo economico e politico (e le loro controparti marxiste) sono in crisi strutturale in tutto il range delle loro manifestazioni, perché hanno mostrato tutte le loro lacune e, a tutt’oggi, (e la pandemia in corso non può che acuirla…) presentano una sostanziale insufficienza (al di là delle pur enormi differenze locali) nel ruolo di garanti del benessere individuale, economico, valoriale, psicologico-sociale a livello collettivo. Naturalmente purtroppo, a livello di fenomeni grossolanamente manifesti, le derive fondamentalistiche, in senso politico e religioso, sono e saranno ben evidenti. Gli effetti di questo epocale Big Bang culturale, sociale ed esistenziale sono tutt’ora, quindi, in pieno svolgimento, le galassie della comprensione di noi stessi, di ciò che ci sta intorno e della loro relazione, si allontanano a velocità sempre più accelerata, proprio come le vere galassie. Vediamo allora meglio, brevemente, lo strano destino del progresso scientifico, progresso iniziato dalla «nascita della geometria» presso i Greci, secondo la nota asserzione di Husserl, e che secondo lo stesso autore, è andata in crisi irreversibile, come egli scrive nel suo fondamentale scritto del 1909, per il tradimento dei concetti di Logos ed Episteme, instaurati dalla cesura platonico-aristotelica. Per Heidegger la crisi (e condividiamo) si deve invece proprio all’instaurarsi dei due concetti nella tradizione occidentale.
All’inizio del secolo scorso, arrivarono come un ciclone le concezioni di fisica relativistica di Einsten che dissolvevano perfino i consueti concetti di spazio-tempo, fino al colpo di grazia della fisica quantistica, i cui effetti e conseguenze sono ancora in divenire, che arrivava addirittura ad un’assoluta indeterminazione della possibilità di calcolo della posizione dell’elettrone rispetto alla sua velocità (Heisenberg), facendo crollare così, forse l’icona più rappresentativa del metodo scientifico, la misurazione di un fenomeno fisico e della sua riproducibilità. Cosicché, così come la coscienza (vero enigma che disturba il sonno dei riduzionisti e crediamo degli stessi emergentisti) si traduce in un fluttuare di possibilità dell’io rispetto allo strapotere dell’inconscio (individuale ma anche collettivo), così la posizione dell’elettrone si traduce in effetti in una mera nuvola di possibilità.
Non possiamo, in questo contesto, dilungarci sull’assoluto stravolgimento della realtà e delle sue implicazioni, operato, come detto, dalla fisica quantistica. Ricordiamo, però, a titolo esplicativo, tra le possibili implicazioni, le rivoluzionarie tesi di Wolfgang Pauli, premio Nobel per la fisica nel ’45, per il principio di esclusione e di Carl Gustav Jung, rispetto ad una impostazione addirittura acausale della realtà, da integrare al consueto metodo nomotetico, di cui i fenomeni di sincronicità sarebbero la parte più evidente ed impressionante e a cui abbiamo dedicato un altro scritto [2]. Dobbiamo anche ricordare gli esperimenti sul non localismo quantistico (entanglement), perché determinerebbero addirittura l’esclusione del cardine del fondamento scientifico, il principio di causalità.
La fisica quantistica ci pone quesiti a cui mai avremmo pensato di dover dare una risposta, e ci sottomette ad un modello «standard» di esplicazione delle leggi del mondo subatomico, accettato per ora, per la sua universale esperibilità, ma sconosciuto nell’intrinseco funzionamento… Un po’ come l’infante che sa che con l’interruttore (quasi) sempre si accende la luce, ma non sa altro… Un mondo di disorientamento costitutivo dunque, mai esperito prima nel corso dei millenni di storia del sapiens sapiens, e acuito dalle contingenze sanitarie.
E ora, quindi, cosa non riusciamo a vedere? La maggioranza di noi è per lo più incapace di vedere in trasparenza, (e con sufficiente equilibrio) proprio come gli intrecci perversi che da sempre spontaneamente si attuano tra potere legislativo, economico, esecutivo, religioso, sociale, culturale e tecnico-scientifico, si amplifichino e, come per un’alchimia perniciosa, si distillino poi, e questo è il vero punto cruciale, nel fare di tutti e di ciascuno, analisi queste, anche piuttosto classiche nei loro fondamenti, anche se partono da differenti presupposti teorico-metodologico, e magistralmente condotte tra gli altri, da pensatori del calibro di Weber, Heidegger, Adorno, Marcuse, Canetti, Berlin, Cioran, Freud, Fromm, Jung.
Gli è che, allora, uno status quo imperante, a livello epistemologico, non è affatto ininfluente nei vari livelli della percezione inconscia, preconscia e cosciente degli individui, come se ci fossero una sorta di universali impensati che archetipicamente, secondo la lezione junghiana sottilmente ci coinvolgono, soprattutto per i sottili e non appariscenti percorsi che Kuhn e Feyerabend, tra gli altri, hanno indicato. Potremmo allora arrivare a chiederci se le questioni della «ragion pratica» non siano addirittura costituzionalmente co-appartenenti a quelle della «ragion pura», come pare suggerito dai lavori di Putnam e senza nemmeno la mediazione del «giudizio» in senso kantiano, e magari se non siano tutte e tre questioni compenetrate, come in un’impensata matrice quanto-psicoide una e trina, laddove l’arte stessa, sulla scia del pensiero di Hegel, Heidegger e Gadamer, si connoterebbe per una sua precipua valenza gnoseologica, seppur in senso simbolico-ermeneutico.
Fatale la questione del simbolico, che il Logos ha esizialmente eroso, e possiamo, a questo punto, riflettere sulla lezione di Heidegger:
«Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Più inquietante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca» [3].
E se, allora, i nuclei fondamentali delle maggiori questioni epistemologiche, in campo scientifico, della conoscenza in genere e, appunto, le sconfortanti analisi degli autori su citati non fossero, appunto, da relegare nel ristretto novero degli addetti ai lavori? Non dovremmo allora cominciare seriamente a chiederci qual è la pandemia che veramente ci ha contagiati? Forse quella dello stesso Logos? Logos con il quale Socrate, suo malgrado (in quanto inconsapevole autore dell’epìtome avviata all’avvento del nuovo paradigma ab Mythos), ha strutturato la via dualistico-metafisico-soggettocentrica dell’Occidente e divenuta poi pantocraticamente onnipresente?
Con le parole di Andolfo:
«Si possono qualificare come “logocentriche” tanto la cultura greca (e quella occidentale che ne è derivata) quanto la cultura egizia e tutte le culture del vicino Oriente antico, da quella mesopotamica a quella giudaica e a quella musulmana. La differenza fondamentale, tuttavia, è che la prima è incentrata sulla nozione di logos inteso come ragione, mentre le altre sono incentrate sulla nozione di logos inteso come parola. Come sottolinea Luisa Terzi, mentre in Occidente, a partire dal “concetto” elaborato dai Greci, la parola attiene al conoscere, nell’antica Mesopotamia, come nell’antico Egitto e nelle religioni del Libro, la parola attiene all’essere. Il logos della filosofia greca è la ragione soggettiva dell’uomo che si volge alla realtà sì al fine di comprenderla, ma persuasa della totale intelligibilità dell’essere, ossia della sua piena trasparenza al pensiero umano, che per tanto è in grado di leggere dentro (intus-legere) il reale esperito dai sensi, sorretto da una granitica fiducia nella corrispondenza della struttura profonda della realtà alle leggi del pensiero soggettivo, capace di discernere il vero dal falso anche contro la testimonianza dalle apparenze sensibili. Ecco che il logocentrismo filosofico greco acquisisce la forma di un pensare per concetti o universali logici basato sul pdnc (principio di non contraddizione). [...] Il logocentrismo orientale, invece, è ancorato al rapporto tra l’essere e la parola e non tra il pensiero del soggetto e l’essere [...]» [4].
Vi è allora, crediamo, la necessità assoluta di ripensare, non più in maniera settoriale, a pensieri strategicamente più ecologici, più sostenibili, più solidali, perché questa strada di stendere in senso più etico un impasto che i suoi limiti etici sembra proprio averli già raggiunti, non può essere più produttiva, di quanto lo sarebbe voler leggere i fenomeni della fisica quantistica in senso kantiano (e l’esempio è probabilmente più adeguato di quanto possa sembrare, proprio perché in entrambi i casi apparirebbe sensato a prima vista, continuare con il classicismo dello status quo). Vitale è la necessità di un altro pensiero, perché il nostro, metafisico e fondamentalista è giunto, plausibilmente già da oltre un secolo, alla fase implosiva caratteristica dell’avvento di un nuovo paradigma, auspicabilmente quello di un Mythos mercuriale questa volta compenetrato alchemicamente dall’amara lectio del Logos saturnio. Non lo stesso pensiero del Logos che si corregge nelle sue determinazioni etiche, psichiche ecologiche, economiche, valoriali e socio-politiche, ma la trasmutazione stessa del pensiero. Un pensiero capace di rispondere alla domanda di senso, disperatamente chiesta dall’essere umano schizoide del XXI secolo, umano, e forse ancora troppo umano per le volizioni inconsce della Téchne. Un XXI secolo nel quale il simbolico diventa davvero marcusianamente ad una dimensione, per esseri umani parcellizzati e appiattiti dal letteralismo digitale della onnipotente tecnica. Un pensiero che pensatori come C.G. Jung e M. Heidegger hanno visto forse traslucere in filigrana:
«Con Jung e con Heidegger l’interrogarsi sul Simbolo e l’essere diventa l’unica possibilità, quasi teurgica di intravedere, lontani dal greve fondamento della metafisica, in trasparenza, le tracce del sacro, del Dio impensato e impensabile che secondo Heidegger, solo, può salvarci, così come la luce del Numinoso junghiano probabilmente alberga come latenza nel fondo quanto-psicoide dell’Atman-Sé» [5].
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] M. Heidegger (1952), Che cosa significa pensare, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991: 95.
[2] T. Cantalupi, D. Santarcangelo, Psiche e realtà, Tecniche Nuove, Milano 2014.
[3] M. Heidegger (1953), La questione della tecnica, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991: 36.
[4] Cfr. M. Andolfo, L’uno e il tutto. La sapienza egizia presso i greci, Ares, Milano 2008.
[5] T. Cantalupi, D. Santarcangelo, Psiche e realtà, cit.: 80.
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Donato Santarcangelo è psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista junghiano, membro della International Association of Analitic psychology. Già docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, attualmente insegna all’Accademia di Brera di Milano ed è direttore del Dipartimento di Etica, Epistemologia e Filosofia della Scienza dell’Università Meier di Milano. Giornalista pubblicista, i suoi studi professionali sono a Milano e Parigi.
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Pan-demos. Alla ricerca di un nuovo pensiero