Nella sua Relazione sull’indagine promossa dal Centro didattico sull’educazione musicale nella scuola primaria (1969, consultabile sul sito Musicheria. Net) Emilia Tocco riportava due brevi risposte della maestra Edda Laghi Corrieri di Santa Fiora, ridente paesino dell’Amiata. Nella prima, sulle risorse disponibili, l’intervistata dichiarava asciutta: «La scuola nella quale insegno è dotata di pochi mezzi idonei per attuare l’educazione musicale fra i nostri alunni: è fornita soltanto di due registratori e di un giradischi, ma non di una discoteca, anche minima. Non vi sono strumenti musicali che, tuttavia, a quanto mi risulta, nessuno di noi insegnanti sarebbe in grado di utilizzare». Nella seconda, sulla pratica della materia, riferiva candida: «Mi sono dedicata soprattutto al canto, assecondando la più naturale disposizione degli alunni ed anche una personale inclinazione; ma ho introdotto già da anni anche l’ascolto di brani musicali, attraverso i quali ho sentito il bisogno di dare ai miei scolari un ulteriore modo di arricchire le loro conoscenze, la loro personalità, la loro cultura».
Questa cartolina di un’Italia d’antan (ma ancora attuale, se si guarda alle dimensioni e alla qualità degli investimenti sul sistema scolastico) mi è prodigiosamente apparsa sulla lanterna magica di internet, accesa per soddisfare una forse malsana curiosità riguardo alla a me sconosciuta intestataria del trittico che campeggia nella plaquette poetica Esseri umani, recentemente licenziata da Alessandro Fo per gli eleganti tipi di L’arcolaio di Gian Franco Fabbri, con una perspicua introduzione di Dario Ceccherini e pregevoli disegni di Francesco Balsamo (Le enormità che segnarono il luogo) e Marta Pegoraro (Ritratto dell’autore).
La discutibile indiscrezione si è per una volta dimostrata per così dire esegeticamente fertile: la persona che affiora dalle sobrie parole raccolte cinquant’anni addietro combacia a meraviglia con quella evocata dalle ingenue considerazioni che Alessandro Fo le attribuisce, con ciò rivelando uno dei caratteri precipui della sua poesia: l’aderenza alle cose, al nudo ‘esserci’ dei fatti della vita.
Il testo si limita a trascrivere fra virgolette, con un fiato di ritmo, frasi ‘rubate’ alla donna (che afferma fra l’altro di aver «già compiuto e passato i novanta») nell’occasione di tre successive visite alla Casa di riposo «Il Balcone» che la ospita. Frasi che parlano di una solitudine che «Non la si vince» ma che «si vince anche», se «si prende | quello che viene…», di un certo deficit di memoria che porta a confondere i tempi («Ormai i miei genitori sono anziani…»; «che mese sarà?»), della noia combattuta assumendo «minime mansioni», come quella di difendere l’albero su cui gli uccelli fanno il nido dagli assalti di ragazzi devastatori («Sto di guardia quasi tutto il giorno. | Ora, da quando ci sono qui io | non è successo più»), che tradisce una qualche attitudine, proprio da maestra, alla sorveglianza di minori irrequieti. Frasi che trovano suggello nella memorabile replica a chi chiede di non esser scordato: «Lei è troppo lungo per dimenticarla».
Tutto qui, se vi pare. Fin dal suo lontano esordio, con la breve silloge Le cose parlano (in 7 poeti del Premio Montale 1988, Milano, Scheiwiller 1989), Alessandro Fo ci ha insegnato, con l’autorevolezza di un maestro, che la poesia non risiede in cieli separati, in sedi privilegiate: è davanti ai nostri occhi, ovunque il guardo giri. Il poeta deve solo cercarla e, quando gli è dato trovarla, difenderne con cura le svanenti sembianze in cofanetti di versi, quasi ex voto per il dono ricevuto. Questo principio – che piace accostare a quel ‘metodo filologico’ che Giacomo Debenedetti attribuiva ad Antonio Gramsci e che si basa sul sacro rispetto del ‘dato’ appreso dal linguista Matteo Bartoli (Gramsci, uomo classico, «L’Unità» (Roma), 22 maggio 1947: 3) – ha costantemente guidato, con esiti spesso ammirevoli, le sue raccolte (Otto febbraio, Giorni di scuola, Piccole poesie per banconote, Corpuscolo, Vecchi filmati, fino a Mancanze, insignito del Premio Viareggio 2014) e continua a orientare questa produzione, che è ‘minore’ solo per l’esiguo numero di pagine occupate.
L’autore riprende qui felicemente un modulo di cui chi scrive è stato felice vittima: quello di mettere in versi ‘a tradimento’ corrispondenze amicali in cui ha visto splendere una luce, o guizzare uno ‘spunto’, da preservare. Avviene in Lettera da Firenze, il cui estensore denuda un «cuore tutto petillante | di parole d’affetto» e il desiderio di «vivere soltanto di poesia. | La sera, andando a letto, | solo due gocce di versi. E dormire», in Come salvarsi agevolmente la vita in caso di grave crisi, con le «istruzioni» diramate da Sara per un lenitivo soggiorno presso la libreria Shakespeare & Company di Parigi («Cinque i posti letto, | sistemazione spartana, nel cuore dell’universo»), ma anche, lateralmente, in Kay Kent, sapiente e delicata versificazione di notizie giornalistiche sulla morte della celebre sosia inglese di Marylin Monroe (omaggio che va a aggiungersi a quelli dedicati a Audrey Hepburn, Cindy Crawford e Randy Ingerman, leggibili in Vecchi filmati).
Altrove i materiali epistolari o i detti carpiti al volo si combinano con le tracce impalpabili, ma altrettanto luminose, lasciate da presenze ormai disperse, componendo rapidi profili disposti a sommesso epicedio. Penso a Minimi incontri, parabola di un’apparizione, quella di Annamaria, che evolve nel tempo in intermittente amicizia e quindi in irrevocabile perdita, a Opere ed omissioni, che commemora la crepuscolare esistenza di Felicina («Un po’ avanti con gli anni, | il volto lesionato, senza più un occhio, nascosto dagli occhiali, | in chiesa spesso leggeva all’altare») nel segno dell’istantaneo oblìo seguito alla sua improvvisa scomparsa («Nemmeno il parroco l’ha rammemorato. | Come se niente»), a Doni, che plana dall’elisoccorso «Pegaso» sul lascito di una donna ferita dal dolore delle creature: «Io che, da viva, non servivo a niente, | servirò a qualche cosa almeno morta».
Un discorso a parte meritano le tessiture che, forse non a caso e certo a sorpresa, incorniciano il libro. Quella incipitaria, Fuori Monaco, è incentrata sul «noi» di una escursione al Lager di Dachau, coscienza collettiva chiamata a interrogarsi sul chi o cosa «ha congelato | come in un museo le enormità | che segnarono il luogo», sul ‘male assoluto’ che ha tuttavia restituito «un ricordo annacquato, | disciplinato, sottomodulato», e soprattutto sul comportamento dei visitatori al ritorno: «Poi ci accalchiamo alla fermata, preoccupati | che il bus di linea non ci carichi tutti, | pronti a saltarci sopra a ogni costo, | anche passando davanti a qualcuno». La poesia epilogale (ed eponima) è invece battuta su un percussivo «voi», adibito a una biblica invettiva che investe i molteplici atti che oggi declinano la disumanizzazione del mondo; «voi» consegnato in chiusa al monito congiunto di Dante e Primo Levi: «considerate la vostra semenza, | considerate se questo è un uomo».
Confesso che l’antiestetica foga, mille miglia distante dal ‘tono’ del poeta, di questo catalogo di nequizie che non risparmia nessuno − a partire dai «voi che in alto mare o a cento metri da riva | gettate in acqua i profughi a affogare», passando per i «voi che strozzate popoli e nazioni | col debito, voi | che conculcate libertà e istruzione», fino ai ripugnanti «voi che per denaro operate chi è sano» − mi ha fatto sulle prime sobbalzare; ma, ripensandoci, devo dire che si può in fondo ricondurre alla stessa ‘mozione di realtà’ che ispira le ‘poesie poesie’ di Alessandro Fo: prende in carico, per maledirlo, tutto l’obbrobrio che ci infesta.
Dare parola alle ‘epifanie di luce’ attinte nel nostro percorso, elevarle alla dignità della poesia per risarcirne l’oscuro destino, forse oggi non basta. Forse oggi è il momento di afferrare il microfono, di gridare, se necessario, il nostro no alla barbarie che avanza; il momento, battezzato da un recente appello di Roberto Saviano, di «prendere posizione».
Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
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