di Francesca Traìna
Patrizia Cavalli se n’è andata il 21 di giugno 2022, proprio nel giorno del solstizio d’estate. Nella sua ultima silloge Vita meravigliosa (2020) scriveva della morte e della malattia: un ossimoro, una contraddizione evidente tra il titolo del libro che inneggia alla vita e il suo contenuto dove vita e morte coincidono come sintesi e fulcro della visione poetica ed esistenziale dell’autrice.
Vita meravigliosa / sempre mi meravigli / che pure senza figli / mi resti ancora sposa.
È stato un modo, e solo lei, Patrizia la “poeta” come amava definirsi ed essere definita, avrebbe potuto preannunciarlo, di congedarsi dalla vita, dal mondo, dalle persone amate.
Ancora una volta – l’ultima – si serve della parola scritta per dire di sé, raccontarsi e come abile tessitrice accostare parole, le une alle altre, deporle su un morbido mantello dove avvolgersi per proteggersi e salvaguardare le sue fragilità, tenerle strette a sé per poi esploderle nell’aperto della pagina. Giocava così, Patrizia, con i versi, con se stessa, tra speranza e disperazione, contrasti e dissidi, armonie e disarmonie, preda di una “eterna paura di esistere”, pur sapendo di “non essere immortale”.
Ho conosciuto Patrizia Cavalli negli anni novanta, a Palermo. Un’amica comune me l’aveva presentata. Una sera andammo ai Cantieri Culturali alla Zisa per assistere ad un monologo di Piera degli Esposti. Lo spettacolo non era ancora finito quando Patrizia, visibilmente infreddolita, mi chiese di accompagnarla all’hotel Sole, dove alloggiava. Una lunga passeggiata in quella notte di tarda primavera tanto serena, ma tanto sferzata da un vento gelido di tramontana da far battere i denti. Parlammo a lungo di Palermo, delle sue contraddizioni e di poesia. La lasciai all’ingresso dell’hotel; la seguii con lo sguardo mentre con passi veloci raggiungeva la hall.
Ora lei si è incamminata lungo una strada senza ritorno, la stessa intrapresa poco tempo prima, da un’altra grande poeta: Biancamaria Frabotta. Mi sembra di intravederla nell’andamento musicale delle sue poesie, graffiare lo spazio e il tempo con l’ironia per compagna.
Quasi tutte le poesie di Patrizia Cavalli sono comparse in questi ultimi anni su riviste o su collane di prestigiose editrici. Non ci meraviglia questa scelta già compiuta dall’autrice nel 1992 in occasione della pubblicazione di Poesie dove infatti riunì altre precedenti raccolte tra le quali figurano: Le mie poesie non cambieranno il mondo, Il cielo, L’io singolare proprio mio e altre … .
Te ne vai e mentre te ne vai /mi dici: “Mi dispiace”. / Pensi così di darmi un po’ di pace. / Mi prometti un pensiero costante struggente / quando sei sola e anche tra la gente. / Mi dici: “Amore mio mi mancherai. / E in questi giorni tu cosa farai?” / Io ti rispondo: “Ti avrò sempre presente, / avrò il pensiero pieno del tuo niente”.
Fuori in realtà non c’era cambiamento, / è il morbo stagionato che mi sottrae alle strade: / dentro di me è cresciuto e mi ha corrotto gli occhi / e tutti gli altri sensi: e il mondo arriva / come una citazione. / Tutto è accaduto ormai ma io dov’ero? / Quando è avvenuta la grande distrazione? / Dove si è slegato il filo, dove si è aperto / il crepaccio, qual è il lago / che ha perso le sue acque / e mutando il paesaggio / mi scombina la strada?
(Poesie, 1992)
È il suo originalissimo stile percepibile anche nella scansione cronologica delle varie pubblicazioni e nella collocazione dei versi nell’arco temporale della poesia. I suoi sono piccoli passi di danza sospesi nella vastità di Roma, nella quotidianità, nelle piazze, nelle strade, nella casa. Movenze suggestive che preludono al ritmo finale di ogni singola raccolta, quasi un trionfo, dove i movimenti preparatori defluiscono, per esaltarlo, nel registro espressivo di un’arte inafferrabile eppure tecnicamente complessa, ariosa, sonora.
Mi restano in mente elementi di arricchimento e di maturazione colti nella denuncia civile al centro del poemetto: “Aria pubblica” contenuto nel volume Pigre divinità e pigra sorte del 2006. Il poemetto brilla di una consapevolezza nuova che dà anche nuovo senso politico ai versi laddove rivendica la bellezza delle piazze di Roma ormai trasformate in lunapark, in distese di bottiglie e lattine vuote o ingombre di tavoli, ombrelli, sedie, cellulari, insegne. Tutto concorre a mortificarne la magnificenza e anche se si allontana da quelle piazze “vendute insieme alla città”, il chiasso la insegue, offende l’udito, attraversa porte e doppi vetri, si insedia nei pensieri.
Come faccio a non sentire quel rumore, / come posso, anche volendo, non vedere / quell’ingombro massivo e prepotente / che intralcia i passi e che la vista offende? / Le ignobili fioriere stercorarie / che a loro alibi hanno pianticelle / sporche e avvilite, a morte destinate? / I tavoli, gli ombrelli, le sediole, / le stufe a gas letali, i cellulari, / che attrezzano chiunque a far casetta, / con veranda. Le insegne tozze e storte, / di sbieco i cavalletti coi menù, / ferri sporgenti pronti allo sgambetto, / transenne traballanti e le ringhiere / che chiudono in recinto i più paganti. / Gonfi recinti svelti a dimagrirsi / quando arriva la finta dei controlli. / Come faccio a non vedere la fatica, / quasi ridicola, di chi si ostina / a spingere il pupetto in carrozzina? / E lui cosa vedrà, laggiù, nel basso? / Se non è merda, è piscio e noccioline. […]
[…] ci sono forse altre città nel mondo / che hanno piazze più belle delle nostre, / piazze perdute alla vista e al cuore / piazze vendute insieme alla città?
Questa è Roma, tuttavia amata e cantata da Patrizia Cavalli, quella stessa Roma che Gabriella Ferri seppe amare e cantare con l’intensità irriverente e magica degli stornelli. E c’è anche nei suoi scritti un accostamento inquietante all’idea di morte, tanto da intitolare Morti perché si muore, un segmento del libro Pigre divinità e pigra sorte.
Muoiono i vivi e pure i morti muoiono, / morti che durano e morti che scompaiono / morti dimenticati per i nuovi morti. / – Ho la faccia di chi deve morire? / Potrei risponderti: – Ognuno ha la faccia / di chi deve morire.
Tuttavia la morte non sembra essere attesa disperante per Cavalli, ma consapevolezza di qualcosa che verrà a donare il silenzio negato dalla vita. L’accento è sereno ma al contempo amaro, come se tutto trovasse improvvisamente giustificazione e desse senso ad ogni gesto, perfino alle “scandalose e stolte” feste di compleanno. Tranne poi a ripetere a se stessa e a chi è in ascolto:
Pietà per me che resto qui sospesa.
Si sposta solo il margine d’attesa poi giunge, ineluttabile, l’interruzione:
Ah, ma è evidente, muoio […] lo fanno tutti / dovrò farlo anch’io […] ma in questi istanti incerti / io sono certamente un’immortale.
(Pigre divinità e pigra sorte, 2006)
Ecco ancora la leggerezza, quel lieve straniamento che coincide con il punto più alto dell’autoirrisione.
E nelle sue dense raccolte non può mancare l’amore. Le donne amate o da amare, quelle con le quali condividere l’avventura triste e gioiosa della vita, sono parte dei suoi libri e lo sono con le delizie, gli errori, le cattiverie, di cui possono essere capaci l’amore e la vita.
Ma Cavalli sa raccontarle queste donne, senza ipocrisie, calandole nella fisicità della relazione amorosa o astraendole in un giuoco di immagini riversate nella parola poetica che, se pur leggera, ha la fine tessitura del dolore e raccontandole racconta se stessa, la propria intimità a dispetto delle ottuse convenzioni sociali:
Prendimi adesso tra le tue braccia / adesso sciolta da me raccoglimi / non per ridarmi forza / ma perché io possa arrendermi.
Rileggendo questi versi viene da chiedersi se sia stata la donna amata il riferimento o quella morte che da lungo tempo Patrizia Cavalli sentiva addosso, alla quale tendeva le braccia come amante fedele per arrendersi infine ma, ad armi pari, restando fino all’ultimo ludica e beffarda, drammatica e ironica, sofferente e insofferente, ma sempre fedele a se stessa.
La forza di Patrizia Cavalli, ammirata e osannata dalla critica, da intellettuali e filosofi come Giorgio Agamben, ma anche dalla gente comune, dalla gente del popolo, risiede proprio nella lingua, una lingua che sa raccontare il quotidiano, apparentemente banale, fatto di piccole cose; una lingua che riesce a contenere le contraddizioni, le false costruzioni di una società malata, noncurante della Bellezza fino a distruggerla e calpestarla, così come le esistenze soggettive e collettive attraversate dalla gioia e dalle sofferenze. Si può affermare, a mio parere, che i versi di Cavalli coniughino istanze di cultura alta a modelli espressivi pop.
La sua poesia, breve e immediata, è uno staffile che incide la mente, folgora di luce inaspettata e sorprendente. La poeta scrive di stelle, di cieli, di natura, con la stessa intensità con cui scrive della sua gatta, del whisky, dei farmaci che assume o della sua mente “nemica”, dell’antidepressivo che in Vita Meravigliosa definisce: “solerte messaggero dei neuroni”.
Come non ricordare la sua casa a pochi passi da Campo de’ Fiori. Mi trovavo a Roma per lavoro e le telefonai; mi invitò a casa sua. Andai a trovarla in un tardo pomeriggio di aprile. Una vecchia casa dove avvertii subito la maestosità delle pietre intrise di tempo e di memoria. Una sorta di labirinto stravagante, surreale, onirico e al contempo museale. Non ricordo quante rampe di scalini mi separarono dalla meta, ma alla fine c’era lei sulla porta ad aspettare e ti scrutava come se non ti avesse mai conosciuto, come se volesse metterti a nudo il corpo e l’anima.
La casa aveva il fascino di Patrizia, la rispecchiava: stanze e stanzette infilate le une alle altre (come in una matrioska) le conferivano una sorta di magica seduzione, come seducente era la padrona di casa. Trascorremmo qualche ora insieme a conversare, ma lei ti conduceva sempre sul suo terreno argomentativo preferito che tuttavia variava in modo contraddittorio; ti sorprendeva con la sua ironia ed empatia; a volte ti spiazzava mostrandosi cinica, umorale, ma in fondo sentimentale, singolare e libera. Era il suo modo di essere: la contraddizione e l’armonia insieme, proprio come la sua poetica, quella che ci ha consegnato e che continua a scandire nel tempo una delle più originali esperienze della poesia contemporanea.
Il suo primo libro, Le mie poesie non cambieranno il mondo del 1974, lo dedica ad Elsa Morante: un incontro importante nella vita della poeta che ha contribuito alla sua formazione artistica e umana senza peraltro influenzare il suo stile lirico che resta unico e non accostabile a nessun altro/a poeta, perché possiede la rara qualità dei classici che si autogenerano senza suggestioni esterne o remote discendenze. Eppure ha avuto, e forse ancora ha, detrattori che hanno voluto forzare la sua vocazione diaristica considerandola un limite, un ritorno monotono sui medesimi argomenti: l’amore fra tutti. Ovviamente quei detrattori non hanno saputo o voluto cogliere il valore che Cavalli sapeva costruire tra l’occasione esistenziale generante la scrittura e la perfezione stilistica con cui quell’occasione traduceva in parola poetica ineguagliabile nella forma, nella rima, nelle soluzioni metriche. Non un limite, dunque, ma il suggello di un’arte libera e inclassificabile.
E nella sua poesia c’è evidente la costante disponibilità all’avventura erotica e sentimentale calata nella sapienza della rima e delle strofe; si avverte il suo lamento di insaziabile e tormentata innamorata, ma non è il lamento a prevalere bensì la sua bellezza, un lamento che nel suo procedere si fa musica, solo musica che cattura mente e cuore di chi legge e sente. La poetica di Patrizia coincide con la sua più intima esistenza ed è il suo modo di stare al mondo, quello che si è dato, che ha voluto e scelto. Consapevole sempre dell’esistenza del dolore, cerca di schivarne l’urto con la poesia, il mezzo, lo strumento che le impedisce di identificarsi con la propria sofferenza perché capace di rivestirla di un perenne sorriso autoironico. Non a caso scrive:
Amor che fa la rima / sta un po’ meglio di prima. / Amor che rima fa / tanto male non sta.
(Datura, Il Conveniente Amore 2013)
La sua ultima raccolta, Vita Meravigliosa, procede per opposizioni dialettiche; alterna la consueta ironia con la comicità vera e propria riuscendo perfino a sfiorare con leggerezza il tragico laddove, nel testo, si respira un senso di oblio, di solitudine, di morte. Ma sono versi salvifici che la strappano alla dimenticanza, al dissolvimento della memoria sempre più minaccioso. E c’è una poesia, tra le altre, che sembra una riflessione sulla vita nell’imminenza della fine. Patrizia sente prepotente tutto questo e lo esprime come solo lei sa fare:
E me ne devo andare via così?/ Non che mi aspetti il disegno compiuto / ciò che si vede alla fine del ricamo / quando si rompe con i denti il filo /dopo averlo su se stesso ricucito / perché non possa più sfilarsi se tirato. / Ma quel che ho visto si è tutto cancellato. / E quasi non avevo cominciato.
(Vita meravigliosa, 2020)
Evidente in questi versi l’analogia tra la scrittura e il cucito, la tessitura che dà forma, costruisce la trama della nostra esistenza, la capacità della poeta di tenere insieme la trama e l’ordito, (concetto che fu già di Platone), l’intreccio dei fili che rappresentano le sequenze dei giorni, il loro fluire nel tempo della vita. In Cavalli non c’è scudo né artificio nell’affrontare il mondo, la quotidianità, la malattia. C’è la narrazione poetica di un sé che mostra la propria fragilità e al contempo forza pur nella disillusione, quasi nell’incredulità di dover davvero andare via così.
Non posso non pensare alla sua prima raccolta Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) per dire che certamente, quelle poesie, non hanno cambiato il mondo, ma hanno in gran parte contribuito a cambiare, in coloro che l’hanno letta, lo sguardo sul mondo, sulla quotidianità, sulle sue noie, sofferenze o gioie, sulle cose piccole e grandi che compongono una vita.
qualcuno mi ha detto /che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo. / Io rispondo / che certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo.
La sua seconda silloge Il Cielo (1981) è una conferma della grandezza della poeta come scrisse Giovanni Raboni. La strada era quella del lancinante nitore con il quale esprimeva la flagranza dolorosa di ogni sentimento al di là dell’amore. Probabilmente Patrizia Cavalli cercava, a volte trovandolo, una sorta di equilibrio tra i bisogni dell’anima e del corpo e il desiderio di libertà. L’amore, tanto osannato, includeva sempre una mancanza, un’assenza, una nostalgia tanto da farle scrivere un verso che suona come una sentenza:
Non esiste l’amore, esiste chi ami.
E ancora:
Che tu ci sia o non ci sia, / ormai è la stessa cosa, / comunque sia io ho la nostalgia.
Nel 1992 Cavalli pubblica, sempre per Einaudi, la silloge L’io singolare proprio mio (anche questa presente nel volume antologico Poesie) e, come recita lo stesso titolo, nella raccolta prevale la concentrazione su se stessa; la poeta rivolge lo sguardo all’interno di sé riuscendo a narrare poeticamente la sua costante battaglia contro quella che definisce la “nemica mente”. Tutta la silloge, infatti, alterna sommovimenti interiori ed emotivi a poesie lucidamente pensanti, mentali e riflessive. Con L’io singolare proprio mio si radicalizza il discorso sull’identità fino a toccare una dimensione di completezza/fusione con l’ambiente circostante:
Tutti i miei sensi raccolti in uno / che era tutti e non era nessuno. / Un impasto densissimo amoroso / che riassorbiva il mondo nel riposo. / Si mostrava nella forma di un sorriso / che era di tutto il corpo non più diviso, / luce e riflesso della luce d’ogni corpo, / mi visitava tenerezza di nascosto.
Puro dolore è il tempo / non occupato da pensieri o gesti, / il tempo vuoto che non ambisce e langue / quando nel male discosti da se stessi / si assiste a quel noioso funerale / dell’ora meridiana che s’impenna / e morta cade.
Ormai è sicuro, il mondo non esiste / la sua materia labile che si trasforma / in gioia o dannazione. Quella parete / quella parete, quella strada, quel muro, / quell’occasione infetta che è nella mia testa. / I pensierini. Il tempo. / Mi scivola via l’anima / e io non la trattengo.
Ma il tempo trascorre e la malattia la insegue e la abita, così nella penultima raccolta Datura (2013), cede all’impeto di utilizzare anche il turpiloquio. Le poesie di Datura sono umorali, a volte sfrontate. Patrizia Cavalli gioca con il corpo esprimendo il dolore che quel corpo tormenta, tanto da scrivere:
Ma adesso/ che cazzo vuole da me questo dolore/ al petto quasi al centro! Che faccio, muoio?
Non è un caso che il titolo del libro sia “Datura”, fiore dal colore tenue, esteticamente gradevole, una sorta di campanula rivolta verso la terra, da cui, tuttavia, si estrae una sostanza dagli effetti ipnotici tali da provocare sonni allucinatori. Probabilmente un accostamento allo stato d’animo della poeta, una similitudine, una metafora che lega la poesia al corpo e al suo linguaggio. E non sembra nemmeno un caso che la lirica Datura dove Cavalli rende omaggio al fiore, dia il titolo all’opera.
Che dipenda da me la sua apparenza, / che ne sia io la sola responsabile,/ questa è la gioia fiera del mio compito,/ qui è il mio valore. Io valgo più del fiore.
Ma io non voglio andarmene così, / lasciando tutto come ho trovato / in questa scialba geografia che assegna / l’effetto alla sua causa e tutti e due consegna /all’umile solerzia dell’interpretazione. / Un altro è il mio progetto, la mia ambizione / è accogliere la lingua che mi è data / e, oltre il dolore muto, oltre il loquace / suo significato, giocare alle parole / immaginando, senza un’identità, / una visione.
E strizza l’occhio, la poeta, al libero arbitrio, ad un individualismo esasperato e sapiente nella mancata resa, nella forza di non volersi concedere alla sorte segnata esprimendo in tal modo autodeterminazione e potenza affermativa:
Così schiava. Che roba! / Così barbaramente schiava. E dai! / Così ridicolmente schiava. Ma insomma! / Che cosa sono io? / Meccanica, legata, ubbidiente, / in schiavitù biologica e credente. Basta, / scivolo nel sonno, qui comincia / il mio libero arbitrio, qui tocca a me / decidere che cosa mi accadrà, / come sarò, quali parole dire / nel sogno che mi assegno.
Negli ultimi anni di vita, Cavalli, mostra palesemente l’afflizione e il disappunto di non riuscire più ad innamorarsi, le terapie cui si sottopone la deprivano di quell’energia interiore, fisica e mentale in grado di proiettarla verso l’innamoramento e di farle vivere intensamente i piaceri e le sofferenze dell’amore. E non manca di ricordare il suo primo innamoramento – aveva appena dieci anni – per Kim Novak alla quale dedicò i suoi primi e incisivi versi:
Chi sei tu dunque / Kim, Kim, Kim Novak? / Sei forse l’angelo che appar di tratto? / Sei forse luce, calore e sogno? / Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza. / Credo, in te credo con l’anima mi’ intera.
Di questa esperienza preadolescenziale parla nell’intervista rilasciata al Corriere della sera il 28 agosto 2020, nella quale tiene a sottolineare di aver utilizzato l’elisione “mi’” nella certezza che questa fosse l’espressione più alta della poesia e della peculiare attenzione al linguaggio. Questo episodio, pur cronologicamente circoscritto, preannuncia la futura grandezza della poeta, l’obiettivo semantico che avrebbe dato corpo alla sua poetica, la sua ampiezza sonora, le concatenazioni verbali che ubriacano quanti/e la leggono, fino a condurli ad una sorta di narcosi e di straniamento.
Alfonso Berardinelli osserva, infatti, che il lessico di Cavalli «è misto e ibrido, ma la sua dizione è immancabilmente pura. [...] Quando una cosa è precisamente detta, la mente guarisce dal malessere, dalla malattia dell’imprecisione». È del tutto chiaro che la poesia di Patrizia Cavalli coincide fin dall’esordio con il corpo e con la sua fisicità tradotta in parola poetica; basti notarne le astuzie seduttorie, la rima, le allitterazioni, gli enjambement, le antitesi. anche se alla base c’è sempre il tentativo, in parte riuscito, di aderire ad un equilibrio linguistico come misura di un equilibrio esistenziale.
E non si può chiudere il discorso sulla poeta senza parlare del suo unico scritto in prosa del 2019, Con passi giapponesi, libro di superba e al contempo visionaria consapevolezza. A me, viziata di versi, apparve subito strano che Patrizia scrivesse in prosa, ma non avevo fatto i conti con il testo che mi condusse, funambolicamente, su quel filo che dovrebbe separare poesia da prosa, ma che, in questo caso, il linguaggio e l’intreccio delle parole, riusciva quasi a cancellare.
In quest’opera, vincitrice del premio Campiello 2020, Cavalli racconta con grande intensità il bisogno umano di fare spazio alla realtà nonostante “l’io” imperante e dilatato la spingano altrove. Le pagine si susseguono come ritratti, bozzetti cesellati su cose e persone che mettono in scena la vita e il bisogno della poeta di raccontare “tutto quello che c’è da vedere”. E poi c’è l’inimmaginabile: avendo trascorso la maggior parte della mia vita in una carezzevole immaginazione mai generica, per carità, ma esattissima.
Ma nella farcitura del libro è lei ad emergere, lei che si fa scena, “sempre aperto teatro”, platea, protagonista e comparsa. Cavalli realizza un piccolo capolavoro attraverso una prosa poetica contorta e al contempo nitida, inafferrabile; una scrittura dallo sguardo femminile che dà corpo alla parola e si appropria della fisicità restituendola nel linguaggio perché “noi siamo il nostro corpo”, scrive la poeta.
Racconta, infatti, i suoi cronici mal di testa che la svuotano e sono rivelatori di parti di un sé prima sconosciuto; dei farmaci che è costretta ad assumere, del cortisone, dei sedativi. Attraverso gli effetti delle medicine sul corpo studia se stessa in relazione all’ambiente, al clima, al tempo atmosferico. Capire, capire tutto e approfondire coscienza e conoscenza di sé per capire anche ciò che è fuori di sé. È un’operazione difficile che le consente, soprattutto, di comprendere appieno il corpo, le sue variabilità, le complessità, quelle che lei definisce “periferie”, “distaccamenti laterali” che chiedono di essere ascoltati, ma non di essere risolti perché costituiscono una “incerta sostanza”.
E resta indimenticabile questo libro, insieme a tutti gli altri, perché racchiude il mondo, il detto e il non detto e diventa risposta alle necessità più intime, ma anche razionali, della poeta e della donna. Non posso non citare alla fine di questo excursus una parte del libro in cui Patrizia parla della madre con la spietatezza e la compassione di una figlia che assiste, respingendola a tratti con repulsione, alla sua decadenza:
L’immagine di mia madre mi si è deformata davanti agli occhi senza che io me ne accorgessi, senza aver fatto in tempo a preservare i tratti di lei che mi piacevano. Il suo cambiamento mi ha colto di sorpresa, quando non si conosce la nostalgia e il passato, ma soltanto l’adesione al presente. Mi è sfuggita di mano, e mi ha fatto brutalmente conoscere la dimensione del tempo e della rovina.
Purtroppo, Patrizia, ha conosciuto sulla madre e poi su di sé la dimensione del tempo e della rovina se con queste dimensioni si intende, come credo, la fine del tempo e la morte al cui mistero certamente non possiamo attingere; possiamo solo tremare per paura, per assenza di verità, per durezza, per fragilità, per la consistenza di un mondo che respinge o inghiotte, ma quando la parola poetica ascende alla sommità dell’arte, allora anche la morte ha la capacità di allearsi agli stupori senza appesantirne il respiro; anche la morte non è più silenzio, ma vita che vive nelle opere e nelle parole chiamate a sostare sulle pagine dei libri. Da quei libri, da quelle pagine, Patrizia Cavalli leverà ancora la sua voce sul mondo.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
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Francesca Traìna, vive a Palermo dove fino al 2015 ha diretto uno dei più antichi istituti scolastici della città. Studiosa di letteratura e poesia italiana e straniera con particolare riferimento alle figure femminili, ha vinto il “Premio Internazionale di Poesia Eugenio Montale” e ha ottenuto altri numerosi riconoscimenti. È autrice di saggi sulla poesia contemporanea e critica letteraria pubblicati su volumi collettanei, antologie, periodici e riviste. Ha fatto parte della redazione della rivista “Issimo. I Segni della Poesia” e “Mezzocielo”, bimestrale di politica, cultura e ambiente pensato e realizzato da donne. Ha pubblicato numerose sillogi poetiche: Luce obliqua, Il Vertice Palermo; Il Poeta muore, Vanni Scheiwiller, Milano; Dentro gli anni, Salvatore Sciascia CL/Roma; Neve di Marzo, CD con musiche originali dell’armonicista Giuseppe Milici, Istituto Gramsci Siciliano Palermo, nella ricorrenza delle stragi di Capaci e via D’Amelio; Linee di ritorno, racconti e poesie, Manni, Lecce; Trame del mondo Diecirighe; Cronaca poetica e iconografica dalla rivista Mezzocielo con fotografie di Letizia Battaglia e Shobha, Navarra Sicilia.
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