È con un tono aspro, risoluto, talora cinico, ma in fondo assai addolorato, che Alberto Giovanni Biuso in Zdanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, Viagrande 2024) dialoga con il fenomeno che ha forgiato il XXI secolo dai suoi albori, denunciandone con veemenza le subdole nefandezze senza il timore di scorgerne le cause teoretiche, storiche e socio-economiche sottese.
Il politicamente corretto è disaminato nelle sue molteplici ed eterogenee declinazioni, sottoposto al vaglio teoretico di chi sa osservare e pensare il presente in modo critico e disincantato. Quanto emerge è, anzitutto, un triplice processo di manipolazione ontologica dell’umano operato rispettivamente sui suoi modi d’essere costitutivi del linguaggio, dell’alterità, dello stare nel mondo.
In prima istanza, le numerose implicazioni del politically correct, da Biuso qui magistralmente messe in luce, sembrano infatti rispondere a un comun denominatore: la manipolazione chirurgica – «ortopedica», per dirlo con Davide Miccione – del linguaggio; ovvero, a lungo termine, la dissoluzione di una lingua e la sua deliberata ri-articolazione in una neolingua orwellianamente quanto più spoglia, rimpoverita, prosciugata (dunque aleatoria). Il principio di tale operazione coincide con la decontestualizzazione sistematica di alcuni termini, con tutte le conseguenze che ciò reca in sede giuridica, facendo leva sulla fisiologica natura metonimica del linguaggio ordinario [1]. Questo non soltanto comporta che «si è falsamente libertari, significa che si vuole la libertà di parola per le parole con le quali concordiamo» [2]; comporta anche e soprattutto che, dal momento in cui il significato di un termine è essenzialmente il suo uso (come ben hanno evidenziato il Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen e i maggiori esponenti della pragmatica), il linguaggio è snaturato fin nelle sue fondamenta ontologiche costitutive. Sicché, a venire alterata nelle sue radici è la costituzione d’essere profonda di un ente, l’umano, che, come osserva un Biuso particolarmente heideggeriano,
«è l’animale che comunica. Non è l’unico, naturalmente. La relazione con i conspecifici è una caratteristica di gran parte del mondo animale. Tra gli altri strumenti e modalità, l’umano utilizza le parole. Esse costituiscono gran parte del suo mondo» [3].
Torneremo su questo punto.
Contestualmente al rimaneggiamento del linguaggio, un «sintomo» del politicamente corretto che pare all’autore prema ancor più analizzare è difatti la soppressione totale e metodica di quel modo d’essere fondamentale dell’umano che è l’alterità. Il dinamico giuoco di Identità e Differenza che sta alla base del dimorare umano nel mondo è lasciato morire attraverso l’imposizione di una sconfortante e totalizzante omologazione il cui fine è cancellare il concetto stesso di differenza nella sua medesima invocazione, ovvero mediante la rivendicazione della legittimità di un universo sociale esasperatamente multiforme – e sostanzialmente contraddittorio – di sole differenze, tutte di egual statuto ontologico. L’Identità è annegata in una incoerente pluralità di differenze; la Differenza è annegata nella pretesa che tutte le diversità siano riunite intorno a un unico rango, che non vi sia differenza fra le differenze, cioè in una Identità fraintesa e distorta. Esse sono lasciate scivolare, fino ad annichilirsi, vicendevolmente l’una nell’altra. Ma questa pretesa è vacua, oltre che insensata: «A un’equazione appartengono almeno due termini. Un A è uguale a un altro. […] La formula A = A parla di uguaglianza. Essa non nomina A come lo stesso» [4].
Heidegger ha mirabilmente condensato nell’uguaglianza matematica l’essenza dell’alterità, una trama di identità e differenza fittamente e necessariamente interrelate poiché autoimplicantisi. Con ciò si chiariscono le disastrose conseguenze che l’atto “sofistico” di ridurre il concetto di Differenza a discriminazione reca con sé: ad essere minata è, ancora una volta, l’ontologia intima dell’essere umano giacché «siamo con-essere sin nei gangli più profondi del βίος consapevole che vivendo diventiamo. Siamo persona comunitaria, fatti e intrisi di una identità anche biologica dalla quale veniamo dall’inizio alla fine attraversati» [5]. A un oblio dell’alterità siffatto Biuso risponde:
«L’umanità è nomade, plurale, meticcia; è Differenza. L’umanità è spazi, legami, comunità, è Identità. Non è possibile comprendere le vicende della nostra specie, la loro complessità, se non si è consapevoli di questa dinamica incessante di identità e differenza» [6].
Quanto fin qui succintamente trattato converge verso la terza e più significativa struttura ontologica umana lesa dal politicamente corretto che abbiamo menzionato in apertura; la più significativa poiché ingloba olisticamente le due precedenti: lo stare nel mondo dell’essere umano è, invero, per lo più uno stare in un mondo-linguaggio e uno stare in un mondo-altri (cioè MitSein), oltre che uno stare in un mondo-utensile. Alterati il linguaggio e il concepimento ontologico dell’Altro fin nelle loro radici, si è pertanto già manipolata una larga parte della Welt esistenzialmente intesa. Come infatti ha sopra ben appurato Biuso, parafrasando l’Heidegger di Sein und Zeit [7], le parole costituiscono da sole gran parte del nostro mondo.
Allo sfondo ontologico, che permea il saggio tutto e che intende mettere in luce – come s’è or ora visto – le modalità in cui il mondo della vita è subdolamente violato, Ždanov. Sul politicamente corretto affianca nondimeno una puntuale riflessione di matrice storica e socio-economica la quale non soltanto si impegna a far emergere le cause remote del fenomeno oggetto di studio, ma si propone anche di elaborare a partire da ciò una solida pars costruens che ne arresti il tumultuoso imperare.
Secondo il punto di vista di Biuso, l’uso propagandistico delle arti, la delega dell’autorità a intrattenitori falsamente esperti, l’iconoclastia nei riguardi della letteratura classica (e la sua conseguente riscrittura “politicamente corretta”), il rigetto verso le proprie radici storico-culturali nonché biologiche, la crescente moralizzazione di questioni eminentemente politiche – tutti «sintomi» di un drastico regnare del politically correct – devono esser riuniti sotto una medesima e ben precisa causa remota che l’autore scorge nelle tendenze postmoderniste e decostruzioniste (o, per meglio dire, in una loro deviata esegesi americana) della seconda metà del secolo scorso. L’elemento politico decade in luogo di quello morale e psicologico, sicché si giunge a «trasformare semanticamente e giuridicamente alcuni legittimi desideri individuali, figli di ben precisi contesti storici, in dei diritti naturali» [8]. In un contesto di questo tipo, la categoria di “vittima” non può che divenire posizione ambita e privilegiata per la quale concorrere anche ferocemente, il vittimismo è eretto a metodo – questo, il nucleo essenziale del wokismo –; ma, rammenta risolutamente Biuso, «la struttura dei fatti sociali è, ancora una volta, marxianamente, economica» [9] ed è da ricercare primariamente nel colonialismo imperialista attuato dagli USA (soprattutto a partire dalla fine del bipolarismo) nei riguardi di un’Europa costretta al guinzaglio al pari di un animale da passeggio, coartata, sguarnita di quell’“occidentalità” che le è propria e di cui è innervata; un colonialismo schiavile squisitamente ideologico, ancor prima che politico. Sarebbe questo a far pervenire l’autore alla forse affrettata (ma difficilmente confutabile) conclusione che «capitalismo e devastazione sono inscindibili» [10].
Fare del dilagante problema politico-economico un problema etico-psicologico significa convogliare il nucleo della questione in un orizzonte che lascia spazio all’arbitrio del singolo, all’interpretazione acritica, all’operare sulle parole con la convinzione di star operando sul reale. Deve allora avere gran ragione Nietzsche nel dire: «La morale è nient’altro che questo. – “Tu non devi conoscere” – da ciò deriva tutto il resto» [11]. Da qui, la mossa di Biuso di architettare un intero capitolo Contro l’etica.
Sembra che vi sia, in ultima istanza, un solo modo per affrancarsi dal circuito vizioso:
«È necessario demoralizzare il problema e ripoliticizzarlo invece, poiché ritenere che le differenze vengano annullate dalle televisioni satellitari, dai cellulari, dalla tolleranza verso i delinquenti o gli islamisti, dai centri di accoglienza per chi arriva o dai quartieri ghetto per chi vi nasce, è un’illusone che sta contribuendo alla dissoluzione dell’Europa» [12].
L’oblio del passato si trasforma in disprezzo della propria identità storica e culturale in modo talmente rapido da estendersi a macchia d’olio fin nella sfera biologica: adesso s’è così fatto, tout court, oblio della persona. La necessità immanente del βίος è trasvalutata per mezzo di una ontologia «flussica» e transumanistica in costume volontaristico al punto che qualcosa come il sesso – e con esso il corpo sessuato in senso lato – è da ripudiare come riprovevole, sulla scia di un sempre più marcato dualismo natura-cultura di stampo cartesiano: un dualismo dapprima metafisico e poi antropologico teso ad avvelenare la più profonda essenza dell’animale umano, quella ovvero d’essere anzitutto un solido, coeso corpomente propriocettivo che anche e soprattutto in vista della sua animalità agisce liberamente nel mondo e a partire dal mondo si comprende. A tutto questo occorre contrapporre una «antropologia disincantata, davvero materialistica perché radicalmente immanente e nello stesso tempo capace di cogliere nella cultura il proprium dell’animale uomo» [13].
Concetti abusati, fraintesi e troppo spesso ipostatizzati come il “patriarcato” o la violenza verso il partner trovano quindi, ancora una volta, la loro spiegazione nell’ontologia dell’umano: il fenomeno del safetyism (dilagante fra le famiglie più abbienti) educa fin dall’infanzia le persone a misconoscere il “no”. Sicché, sarebbe invero uno smisurato matriarcato a rendere taluni soggetti patologicamente dipendenti dalla figura femminile; il che – assieme all’acquisita e totale incapacità di concepire il rifiuto – conduce sempre più spesso costoro a compiere atrocità efferate. Ancora, cos’è dunque se non un modo deviato di rapportarsi con il mondo-altri a fissare la vera portata di tali fatti sociali?
Tutto questo non può che riversarsi, in conclusione, nella sfera sociale più delicata di tutte, quella educativa. Intrisa di un’eco behaviourista, la pedagogia contemporanea – coerentemente con la tendenza moralizzante di cui s’è diffusamente trattato – «è stata trasformata in una “scienza pratico-prescrittiva”» [14], travisando il cuore della maieutica socratica, cioè il libero incontro/scambio di docente e studente.
«Mediante il proliferare della miriade di “educazioni” alimentare, ambientale, sessuale, stradale, emozionale, genderista; attraverso l’accrescersi delle ore dedicate al rock, al bridge, agli scacchi, al giardinaggio; […], la scuola diventa un luna park per distrarre i servi del potente di turno e abituarli a servire meglio» [15].
Come ben mette in luce l’autore, la conseguenza (e lo scopo) di ciò è la riduzione dello studente a macchina-utensile, a oggetto duttile al servizio del potere, a persona non pensante che fuori della dimensione etico-politica non ha legittimità d’essere e d’esistere. In una parola, «lo scopo di ogni potere: dominare dando l’illusione che i dominati amino la loro sottomissione» [16]. Scopo altresì irraggiungibile senza quella spiccata componente messianico-profetica che abbraccia tutti i regimi totalitari facendo leva sulla “speranza” dei cittadini in un idilliaco e utopico avvenire; a tal proposito, Nietzsche ha ancora osservato nel suo Anticristo: «Proprio a causa di questa capacità di tener tranquilli gli sventurati, presso i Greci la speranza era considerata il male dei mali, il male veramente perfido» [17].
Dovrebbe ora esser perspicua la portata di ciò che chiamiamo politicamente corretto. I totalitarismi contemporanei – in primis quello capitalistico degli USA – hanno imparato, guardando al fallimento dei regimi del XX secolo, che per conseguire il dominio assoluto sulle folle non basta sottometterle con la forza; bisogna che esse siano felici di essere sottomesse. Il totalitarismo del XXI secolo ha imparato che per manipolare il corpo sociale non bisogna plasmarne l’onticità, bensì occorre puntare dritto all’ontologia, alle sue strutture fondamentali e intrinseche. Da questo punto di vista, la questione è a mio avviso da discutersi più su di un piano teoretico che politico-economico.
Perché, del resto, potare un albero sagomandolo periodicamente a nostra preferenza, se è possibile agirvi chimicamente con un concime che ne limiti e fissi la crescita una volta per tutte, senza che per di più la pianta possa accorgersene? Deve, adesso, esser chiaro in che senso il politicamente corretto è da considerarsi il “totalitarismo perfetto”: esso è riuscito a penetrare silente fino alle radici di quel meraviglioso e variegato albero che è l’essere umano, sostituendosi all’acqua che dapprima lo faceva crescere rigoglioso; un’acqua che è linguaggio; un’acqua che è identità e differenza; un’acqua che è cultura, storia, biologia. Ma, perché l’albero possa accorgersi che qualcosa nel terreno di cui si nutre è stato alterato, abbisogna che le sue foglie comincino ad appassire, che i suoi rami comincino a farsi gracili, che la sua salute si faccia cagionevole; allora, sarà già troppo tardi.
È il 2024: le foglie stanno iniziando a cadere. Compito del filosofo è denunciare ciò; e Alberto Giovanni Biuso, in Ždanov, vi è riuscito in modo esemplare.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Platone, del resto, aveva già a suo tempo messo ben in guardia dalla portata disastrosa di un simile atto: «Il più completo annientamento di ogni discorso è l’isolare ogni cosa dal contesto. Il nostro discorso, infatti, trae origine dall’intreccio reciproco delle idee»; Platone, Sofista (Σοφιστής, IV sec. a.C.), saggio introduttivo e trad. di B. Bianchini, prefaz. di P. Impara, Armando Editore, Roma 2006: 132.
[2] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, Algra Editore, Viagrande 2024: 132.
[3] Ivi: 139.
[4] M. Heidegger, Identità e differenza (Identität und Differenz [1957]), a cura di G. Gurisatti, Adelphi Edizioni, Milano 2009: 27-28.
[5] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit.: 118.
[6] Ivi: 56.
[7] «L’esser pronunciato all’esterno del parlare è il linguaggio. Questa totalità verbale, intesa come quella in cui il parlare ha il suo proprio essere “mondano”, diventa così esperibile in quanto è qualcosa che è nel-mondo come un ente allamano. Il linguaggio può essere spezzettato in parole-cosa sottomano. Il parlare è esistenzialmente linguaggio, perché l’ente, la cui schiusura esso articola in significati, ha la maniera d’essere dell’essere-nel-mondo dejetto, assegnato al “mondo”»; M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit [1927]), trad. di A. Marini, Mondadori, Milano 2022, §34: 233.
[8] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit., p. 15. Su questo punto in particolare, rimando a M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari-Roma 2022: 50-80.
[9] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit.: 26.
[10] Ivi: 69.
[11] F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo (Der Antichrist. Fluch auf das Christenum [1895]), nota introduttiva di G. Colli, versione di F. Masini, Adelphi Edizioni, Milano 1977: 67.
[12] A.G. Biuso, Ždanov. Sul politicamente corretto, cit.: 44.
[13] Ivi: 63.
[14] Ivi: 78.
[15] Ivi: 85.
[16] Ivi: 49.
[17] F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, cit.: 27.
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Federico Nicolosi studia Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Si interessa di questioni di filosofia teoretica, abbracciando principalmente la riflessione esistenzialista-ontologica del Novecento e approfondendo in particolar modo il pensiero di autori come Schopenhauer, Nietzsche, Sartre, Scheler, Heidegger, Wittgenstein.
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