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Per un approccio scientificamente corretto. A proposito dell’estraneità ostile

Foto di Sergio Gimenez

Foto di Sergio Gimenez

dopo saman

di Roberto Cipriani

Premessa. Del caso Saman, secondo Ciccozzi

Il lungo e meditato testo con cui Antonello Ciccozzi ha preso spunto dalla vicenda di Saman Abbas (la giovane italo-pakistana scomparsa e forse uccisa perché rifiutava il matrimonio combinato dai suoi familiari e si comportava seguendo il modello culturale occidentale e non quello islamico di provenienza) solleva molti e diversi interrogativi, tutti degni di massima attenzione proprio per evitare il rischio di un accademismo di maniera e di un rifiuto sostanziale nel farsi carico di una problematica vasta e quanto mai attuale.

Ciccozzi prende giustamente l’avvio dalle riflessioni contenute nell’editoriale del numero 50 di Dialoghi Mediterranei per ribadire che effettivamente gli studiosi italiani di antropologia hanno dedicato poca attenzione alla vicenda (aggiungo che lo stesso dicasi per i sociologi, salvo pochissime eccezioni). Ma il punto di attacco non è tanto questo quanto il dover registrare l’esistenza di due opposti schieramenti, l’uno tutto teso alla colpevolizzazione dell’islam e l’altro decisamente orientato a scagionarlo in pieno. E non mancherebbero esempi di ricorsi a citazioni coraniche per giustificare comunque l’accaduto o, all’opposto, per invitare alla pacificazione ad ogni costo. Un ulteriore dato è costituito dalla tendenza ad accusare gli occidentali che sarebbero incapaci di comprendere la cultura islamica. Inoltre emergerebbe evidente un invito a «decolonizzare l’incontro tra esseri umani, all’infuori dei modelli sociologici del melting pot o del salad bowl».

Poste queste premesse, la discussione si amplifica a dismisura, giacché occorre fare i conti contemporaneamente sia con la xenofobia, la paura dell’altro, del diverso, sia con la xenofilia, l’amore incondizionato, l’accoglienza senza se e senza ma, l’apertura illimitata.

Ciccozzi in parte accetta e in parte rigetta alcune tesi sostenute da Giovanni Cordova nel numero 50 del presente periodico (Dialoghi mancati, cittadinanze negate. Intorno alla vicenda di Saman Abbas), ma, senza seguire necessariamente il filo conduttore di tale diatriba, solleva un ginepraio, per così dire, la critica mossa all’ambiente intellettuale ed universitario nostrano che ragionerebbe in modo complesso (e spesso incomprensibile) per motivare la propria presa di posizione a favore del mondo “altro”, solitamente indicato avendo il proprio come parametro di riferimento e dunque ricorrendo alla formula del “non occidentale” applicata alla realtà “al di fuori”.

Il Leitmotiv che ricorre concerne la supposizione, ancora tutta da fondare e verificare, di un arricchimento proveniente proprio da parte degli altri, gli immigrati, gli stranieri, gli islamici segnatamente. In tal modo si tenterebbe di esorcizzare o, di fatto, negare la possibilità che il forestiero possa essere un nemico, appaia avverso.

Secondo una logica cieca, che è tale intenzionalmente (perché appunto non si vuole vedere), c’è sempre e solo lo straniero che patisce e mai quello che fa patire. Grazie a questa cecità sostenuta culturalmente, il male abiterebbe la nostra società occidentale ed il bene tutto il resto del mondo. Se però qualcosa di malvagio è palesemente presente nell’altrui comportamento allora lo si minimizza confinandolo in categorie residuali, non legittimate dal consenso sociale: l’esaltato, il fuorilegge, il pazzo, il sovversivo, il dinamitardo, il kamikaze (il “vento divino” che annientò i mongoli mentre stavano attaccando i giapponesi nel 1281).

s-l500Lo spartiacque fra sinistra e destra è una finzione giacché entrambe muovono da pregiudizi di fondo, per cui tutto è buono oppure tutto è cattivo, tutto è ricchezza oppure tutto è danno, tutto è legittimo oppure tutto è illegittimo. La realtà perde il suo profilo effettivo e viene ridisegnata ad uso e consumo di chi la definisce secondo la sua prospettiva (appunto la nota proposta di Berger e Luckmann. La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1997).

Come annota opportunamente Ciccozzi, «queste semiosfere in conflitto assumono l’assetto di camere d’eco in cui il pensiero viene espresso in un monolitismo dal suono gregoriano e la diversità d’opinione è bandita (tanto tra chi esalta l’identità culturale quanto da chi esalta la diversità culturale)». Certamente sono queste le due correnti di pensiero e di significato prevalenti ma esistono altre soluzioni, minoritarie eppur attive, nelle religioni come nei partiti politici, nelle università come nei sindacati, nel mondo produttivo come in quello culturale.

E coglie nel segno ancora Ciccozzi quando individua dei paradisi di estraneità alle effervescenze sociali ed alle agitazioni rivendicative: una “comfort zone” in cui le tempeste non arrivano, la serenità regna sovrana, l’imperturbabilità la vince rispetto a qualsiasi refolo provenga dal di fuori, «rimuovendo questo emergere dell’altro in forma perturbante di estraneità ostile; e lo si fa facendo finta di nulla, o al limite proiettandolo altrove, su categorie rassicuranti».

Ancor più interessante, se possibile, è la disamina condotta sui posizionamenti dei mezzi di comunicazione di massa, che esattamente sul caso Saman avrebbero sposato interpretazioni fuorvianti e non corroborate da evidenze empiriche: il quotidiano il Manifesto ha parlato di femminicidi, di “nicchie etniche”, di irrilevanza della religione nel caso specifico e di patriarcato mentre l’intellettuale della matita Vauro avrebbe appaiato quanto accaduto alla stessa “nostra sottocultura” del maschio padrone.

Insomma per un verso l’islam non c’entra e per l’altro si rinfocola l’islamofobia. E a questo punto Ciccozzi sembra insorgere e prendersela con la sinistra che tutto appiattisce e non vede quel che c’è di fatto nel fenomeno in esame. E comincia a smontare tutta una serie di presupposti che corrispondono ad altrettanti pregiudizi xenofili: i crimini non vanno etnicizzati (la responsabilità è individuale, la cultura non c’entra); l’islam non c’entra; è un femminicidio come i nostri, è il patriarcato, sono usi tribali, succedeva anche da noi; associare questi delitti all’islam è islamofobia.

Queste quattro interpretazioni correnti vengono confutate in pieno, in quanto nei delitti d’onore la responsabilità resta individuale ma la matrice ha una valenza culturale; un conto è il livello istituzionale dell’islam ed un altro conto è il vissuto religioso quotidiano; nel mondo islamico l’asservimento della donna sia all’uomo che alla famiglia ha luogo in una situazione fortemente squilibrata e non paragonabile a quanto avviene nel mondo occidentale; infine la critica dell’islam, religione non certo minoritaria nel mondo, dovrebbe essere consentita. Infine viene suggerita la strada di un’europeizzazione dell’islam in alternativa ad un’islamizzazione dell’Europa.

4bsj36cda23ab81g8iz_800c450Conflitti e compromessi

In situazioni conflittuali, con aspri scontri verbali e fattuali (con azioni forti, talora lesive anche sul piano fisico oltre che psicologico), sono accusati di buonismo coloro che propendono per soluzioni più miti, meno violente, non vendicative, non assolutistiche, magari di compromesso. Orbene proprio il compromesso è sovente considerato un accomodamento poco efficace, non duraturo, rinunciatario. Eppure esso rappresenta in molti casi la via di uscita da un’impasse altrimenti senza soluzione, da un vicolo cieco entro il quale l’assenza di vie di fuga costringe i contendenti a misurarsi in uno spazio ristretto, che non offre alternative se non lo scontro diretto con danni reciproci. Il compromesso è in effetti una forma di mediazione, faticosa da realizzare e basata sulla speranza di reperire una formula adatta ad affrontare una situazione di crisi.

Quando due interlocutori, singoli o collettivi, si cimentano su una questione da risolvere, su una decisione da prendere, i rispettivi punti di partenza rispondono tendenzialmente e principalmente a prospettive univoche, interessate, piuttosto ideologiche. Solo nel dibattito e nella dialogicità si scoprono le esigenze e le attese altrui, non sempre ed immediatamente percepibili da un angolo di visuale diverso e persino opposto. Ecco dunque che appare necessaria una modalità di attenzione all’altro per coglierne le intenzioni e il bisogno reale di riconoscimento. Perciò diventa imprescindibile un’offerta di disponibilità, di apertura alla comprensione e alla compartecipazione.

Il buonismo dell’attesa e della sospensione del giudizio (ovvero del pre-giudizio) risponde ad una scelta operativa ben fondata: conoscere per capire, comprendere ancora prima di agire, procedere con cautela evitando attacchi diretti, frontali, dichiaratamente ostili. Ovviamente non sarebbe produttivo un atteggiamento di resa incondizionata alle proposte altrui: non si renderebbe un buon servizio nemmeno a chi sta dall’altra parte, perché lo si rafforzerebbe nella sua convinzione di avere sempre e comunque ragione. E ciò d’altro canto non sarebbe giusto e corretto neanche nei riguardi di chi offrendosi del tutto alla colonizzazione ideologica dell’altro rinuncia per ciò stesso alla propria matrice di provenienza.

Detto altrimenti, il buonismo di cui si parla in generale a proposito di soggetti che muovono da un’ispirazione religiosa, cattolica o cristiana od islamica o di altra derivazione, non può significare un annientamento della propria identità quanto piuttosto un consapevole modo di interagire nella forma più opportuna, cioè ipotizzando in linea di principio una disponibilità anche del proprio interlocutore a voler trovare una convergenza consensuale. Di solito serve appunto una sfiducia ben nutrita (l’espressione è del sociologo Antonio Mutti, autore di “La fiducia. Un concetto fragile, una solida realtà”, Rassegna Italiana di Sociologia, 1987, XXVIII: 223-247). In altre parole il buonismo è espressione in pari tempo di fiducia ma anche di sfiducia ben nutrita, cioè contemporaneamente ed evangelicamente di prudenza ed astuzia. Si offre il destro ma si evita di lasciarsi colpire. Si porge l’altra guancia, ma – si direbbe – non ve n’è una terza che darebbe all’altro il diritto di offendere all’infinito, con suo detrimento (oltre che nostro).

Il buonismo in definitiva non sembra una formula perdente se viene esercitato con sagacia e senza rinunzie significative ai valori che ad esso danno luogo e sostegno. Ancora una volta risulta valida la metafora del dilemma del prigioniero che non sa decidere se collaborare o meno. In genere la risoluzione di avvio è quella della fiducia e del rispetto. Ma se a lungo andare tutto ciò non servisse occorre poi passare ad un atteggiamento che faccia capire ancora meglio che non si è inconsapevoli vittime della coartazione altrui ma solo latori di una volontà di comunicazione dialogica a due vie, cioè in modo circolare, senza che l’uno prevarichi l’altro.     

41wj-2ub2cl-_sx335_bo1204203200_La risposta degli italiani

La Chiesa cattolica in Italia si è trovata negli ultimi decenni ad affrontare l’impatto con un’accresciuta presenza di soggetti appartenenti ad altre religioni. Fenomeno in verità non propriamente senza precedenti storici: basti pensare alle molteplici interazioni già in atto nel XIII secolo in Sicilia, ai tempi di Federico II, che ebbe a che fare contemporaneamente con cattolici e ortodossi, musulmani ed ebrei. Prima di lui, anche Guglielmo II d’Altavilla, detto il Buono, sperimentò le stesse modalità di pacifica convivenza inter-religiosa, avviata in parte da Ruggero I d’Altavilla (dopo una prima fase conflittuale con i musulmani).

Qualcosa di simile sembra verificarsi pure nella realtà odierna, giacché nelle narrazioni offerte dagli intervistati con l’approccio qualitativo nell’indagine nazionale sulla religiosità (Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia, FrancoAngeli, 2020: in particolare 305 e sgg., qui riprese parzialmente) sono numerosi i punti in cui si parla di incontri, relazioni ed amicizie con soggetti appartenenti ad altre confessioni religiose. In una delle 24 dimensioni tematiche basate su 320 categorie concettuali, si rileva nettamente una propensione degli interpellati a porre attenzione ad altre religioni diverse dalla propria. I dettagli sulle singole considerazioni e riflessioni si rintracciano nei testi delle interviste (rivolte anche a 4 musulmani, 3 protestanti, 3 testimoni di Geova, 1 induista, 1 vedico e 1 esponente di “Nuovo Rinascimento), che presentano sostanzialmente due scenari principali e in qualche modo contrapposti: vi è un primo gruppo, più cospicuo, di persone che non hanno difficoltà ad accettare, annettere ed aggregare in senso lato una religione altra dalla propria, pur non rinunciando al proprio credo; un secondo insieme di soggetti tiene molto di più alla propria fede di appartenenza e muove alcune critiche alle religioni diverse. Pare prevalere tra le varie prese di posizione quella piuttosto aperta verso il mondo islamico, vuoi per amicizie contratte vuoi per esperienze dirette di un particolare modo di vivere intensamente la fede in forme abbastanza visibili e vistose.

«ho molti amici musulmani, non ho alcun problema con loro … sono persone molto gentili, sono tutte… la loro religione la vedo molto autentica su molti punti di vista, la vedo molto sentita…» (Barnaba, licenza media).
«io sono molto per la filosofia “vivi e lascia vivere”, cioè nel senso ognuno nella vita fa ciò che vuole, poi, cioè, io posso essere benissimo amica di una musulmana o di qualcuno di qualsiasi altro tipo di religione, e però credere nella mia religione… i musulmani noi li vediamo tutti come estremisti, in realtà secondo me non è così… Tipo per me gli estremisti sono i terroristi, cioè nel senso quelli sono persone che la religione è un po’ un capro espiatorio e in realtà quella è gente che in realtà vuole la guerra, vuole fare la guerra, vuole imporre, vuole comandare e vuole che tutti siano sotto la…» (Sara, licenza media).
«se alla base ci sono rapporti di onestà, di fiducia, ecco, quando uno si può rivolgere alla Mecca, o in Dio o a qualcun altro il fine ultimo è lo stesso… oggi penso che sia una cosa più che normale, bisogna lasciare aperti e liberi di, di confessare o meno quello che crede (Cosimo, laureato).
«questi amici di altre religioni li vedo più sinceri, fanno le loro pratiche, i loro esercizi, con convinzione, guidati da una forza che io non mi sento di avere o che non vedo in altri amici cattolici come me… Ho tanti amici musulmani. Penso che loro fanno uno sforzo molto grande, che abbiano una grande forza dentro… a rispettare e a vivere le loro usanze religiose… Gli amici musulmani mi ascoltano, mi rispondono, di regola però non chiedono nulla. È come se la mia, o meglio la nostra religione cattolica a loro non interessi affatto…  Apprezzo molto conoscere, ho sete di imparare per conoscere meglio le persone e il mondo e leggo molto, libri, testi vari, in particolare da qualche anno sulla cultura buddista. Sono piuttosto affascinato da questa religione e dai princìpi che ne sono alla base… è una religione in fondo bella, anche se ci sono aspetti di religiosità nell’islam che sono portati agli estremi» (Aristide, diplomato).
«studiando queste culture afgane, e parliamo di musulmani in genere, per poterle comprendere ho dovuto iniziare a capire che cos’è la religiosità nella loro vita. Le prime domande che mi sono posto è che cos’è appunto la religiosità… oggi ci rendiamo conto che i musulmani e che i terroristi sono sì musulmani al 90% ma sono coloro che sono entrati a far parte di questa religione da breve tempo, parliamo di 2-3 anni, poiché loro stessi non riuscivano a trovare una locazione nella società, quindi parliamo di europei, ad esempio, e occidentali in generale, che non trovando una posizione nella società si sono attaccati a quella che è l’islam, che regole fisse… l’islam che si rifà comunque alla questione che c’è un solo Dio, che è misericordioso e, comunque sia, vero come nelle altre religioni, ma, a differenza delle due altre religioni, l’islam, e quindi parliamo del Corano, regolarizza anche la vita quotidiana delle persone» (Benigno, laureato).
«io sono cattolica ma parlo con molta tranquillità con chi non è credente per niente, con l’ateo, così come con il musulmano. Lavoravo tanti anni fa in un hotel dove c’erano proprio ragazzi e ragazze di colore, che di conseguenza erano di religione musulmana. Ottimo rapporto con loro. E si parlava, loro con la loro religione e noi con la nostra, e ci confrontavamo, avevamo un confronto» (Ginevra, diplomata).
«i musulmani vivono nella propria comunità, nel senso che io ho un ragazzo che viene a farsi le fotocopie di libri, perché vogliono, comunque, insegnare ai loro ragazzi la lingua e la religione e, allora, fanno degli incontri extra-scolastici in modo che loro apprendano la lingua e, comunque, la religione, perché, per loro, la religione, almeno così mi spiegava il ragazzo, è una, un credo di vita. Loro, nel Corano, trovano tutto quello che devono fare nel quotidiano. Io lo trovo anche giusto, perché ognuno veniamo dal nostro popolo, dal nostro tipo di credo e allora, un po’ per tutte queste cose, i nostri ragazzi non li coinvolgiamo più in tutti quelli che sono quei programmi cattolici che, ai nostri tempi, si faceva. Secondo me, dovrebbe esserci un po’ un cambiamento per quanto riguarda l’insegnamento ma non come preghiera in sé ma proprio come insegnamento di crescita di vita» (Marina, licenza media).

Vi sono, poi, persone che preferiscono mantenere un perfetto allineamento con la religione di appartenenza e dunque poco concedono agli altri orientamenti di fede, che sottopongono a critiche. 

«le altre religioni ti mettono davanti un libro, come può essere il Corano, e ti dicono “questa è la religione, la devi seguire, se non la segui avrai le pene in terra”, non in morte, poi dopo la morte ti dicono solo che avrai un sacco di vergini che ti vedranno… tutte cose belle e infatti la gente vuole morire piuttosto che vivere con quel tipo di regole là» (Chiara, licenza media). 
«abbiamo tutti paura di spostarci, di prendere la metropolitana, però dobbiamo essere più forti di loro, vivere la quotidianità normalmente, perché altrimenti penso che loro ci… sottomettono… loro gli jihadisti, persone… oddio non mi viene la parola, e… queste persone che si convertono all’islam, che comunque hanno, è una religione tutta loro che non esiste, perché il Corano, io non ho letto mai il Corano, però sento molte persone che ne parlano bene, ovviamente nessuna religione ti insegna ad uccidere… sicuramente non stanno bene [ride], non stanno bene e… non lo so gli vengono comunque promesse delle cose, che poi… non esistono, come una vita dopo la morte, una… non lo so, sono esaltati sicuramente, sono persone esaltate e poi sembrano persone normali, perché poi comunque sentiamo in tivù che era il vicino di casa, una persona tranquilla, salutava, sorrideva e invece poi è tutt’altro… comunque ci sono delle persone buone anche tra loro, che secondo me sono la maggior parte per fortuna, forse queste persone cattive sono la minoranza, spero per lo meno» (Vittoria, diplomata).
«io non ho nessun condizionamento rispetto a gay, lesbiche o un’altra religione… non parliamo poi della sharia, dell’islam, lì è il non rispetto dell’altra persona, se tu vai a vedere sono dei pazzi furiosi, soprattutto il non rispetto della donna è veramente devastante, cioè la persona che ti ha messo al mondo a te, non sei mica nato da un fico, eh, già solo quello, il pensiero, tua madre è una donna, come fai a non avere il rispetto? L’umanità è andata avanti per quello, perché mica hai concepito un fico e quindi zero» (Cataldo, licenza media). 
«il cristiano dice porgi l’altra guancia, quanti la porgono? La religione cristiana dice non rubare ma quanti lo fanno? La religione musulmana dice di non bere ma quanti bevono? Conosco tanti musulmani che di nascosto bevono, dunque penso che su certi casi è una presa per il culo, su altri no» (Antonio, diplomato). 
«non sono i musulmani, è Israele, sono illuminati, non me la prendo con gli israeliani, ma ci sono delle situazioni di fanatismo spaventoso» (Alice, licenza media).
«preferisco il cristianesimo, a differenza magari di altre religioni, dove sono più totalitari, dove sono più egoisti, dove sono più…, tra virgolette… La religione islamica per esempio, che ha dei… delle loro convinzioni, ma sono abbastanza egoistiche… nel senso che non hanno un’apertura con un altro pensiero, mentre questo lo vediamo nella Chiesa cattolica, nella Chiesa cristiana… che c’è, c’è libertà di espressione, c’è libertà di cose… però, ripeto, dovremmo essere un po’ più fraterni, un po’ tutti» (Bernardo, diplomato).

In qualche caso l’opinione sulle religioni ha un carattere ambiguo, non ben determinato, probabilmente frutto anche di una ricerca ancora in corso e/o di un problema irrisolto.

«non ho niente contro la religione, contro nessuna religione… non parliamo delle religioni che non sono nostre, non parliamo dell’islam, che comunque è una religione, che noi per motivi diversi, forse più per motivi politici, denigriamo moltissimo, e però non sapendo a volte di che cosa parliamo. Perché sono religioni che non conosciamo. Io sono convinto che noi non conosciamo bene cosa dice la nostra religione» (Ascanio, diplomato).

Ovviamente, oltre quanto già riportato in precedenza, non poteva mancare qualche altro riferimento relativo alla specifica presenza islamica in Italia, cresciuta notevolmente in anni recenti.

«gli albanesi non hanno… diciamo che siamo musulmani però, non è che… io credo che c’è un Dio, lo credo sempre… però non è che seguo qualche…» (Giovanna, licenza media).
«siamo meno integralisti rispetto agli altri ecco… e meno latifondisti tipo Francia e Inghilterra e America che in effetti loro sono stati che hanno fatto le colonie, almeno, quindi hanno avuto queste situazioni, noi abbiamo avuto un poco i libici, queste… ma in linea di massima almeno fino adesso… il problema è sempre l’estremismo, perché non è che se il papa dice smettiamo di fare la guerra, smettono di fare la guerra, perché non ascoltano, buona parte sono pure cattolici… quelle persone vanno anche in chiesa… ognuno crede a qualcosa di… chi Allah, gli indiani al totem, quindi c’è sempre un capo a cui credere» (Corrado, laureato).
«ogni civiltà ha un’etica diversa, ogni Paese ha la sua cultura. Poi abituata da trent’anni a frequentare un paese musulmano [Egitto]» (Romana, laureata).

a6e3440cover28587Secondo i risultati dell’indagine quantitativa con questionario somministrato ad un campione di 3.238 persone (Garelli, Gente di poca fede, il Mulino, Bologna, 2020), la questione del velo islamico vede anche in Italia, come in Francia, un raffronto fra due diversi punti di vista, che segnalano una certa tendenza verso l’accoglienza della diversità ma tale orientamento non è ancora molto diffuso perché si limita ad un terzo degli intervistati, giacché si dicono molto d’accordo il 9,1% ed abbastanza il 25,6%, cioè in totale il 34,7%. La maggioranza si esprime per il poco d’accordo nella misura del 25,3% e per nulla d’accordo al 40%, per cui alla fine i contrari sono il 65,3%.

Di seguito alcune questioni legate alla pratica della religione islamica in Italia.

Per ciascuna dovrebbe indicare quanto è accettabile per lei: molto, abbastanza, poco o per nulla. Quanto è accettabile che… (una sola risposta per ciascuna questione) le ragazze e le donne musulmane vadano a scuola o al lavoro a capo coperto, se ciò fa parte dei loro costumi religiosi
 
n
%
% valido
% cumulativo
 
Molto
295
9,1
9,1
9,1
Abbastanza
829
25,6
25,6
34,7
Poco
819
25,3
25,3
60,0
Per nulla
1296
40,0
40,0
100,0
Totale

3238

100,0

100,0

 

 Tab. 1 – Opinione sull’accettabilità che le ragazze e le donne musulmane vadano a scuola o al lavoro a capo coperto, se ciò fa parte dei loro costumi religiosi
Sulla possibilità di assentarsi da scuola o dal lavoro il giorno del culto musulmano in moschea il livello di accettazione scende ulteriormente, poiché molto d’accordo è il 7,2% ed abbastanza il 18,5%, in totale il 25,7%. I contrari rappresentano il 28,8% (poco d’accordo) ed il 45,5% (per nulla d’accordo). In definitiva il rifiuto viene dal 74,3%, una maggioranza inequivocabile. 
Il venerdì i fedeli musulmani possano assentarsi dalla scuola o dal lavoro per andare in moschea
  n % % valido % cumulativo
Valido Molto

234

7,2

7,2

7,2

Abbastanza

600

18,5

18,5

25,7

Poco

932

28,8

28,8

54,5

Per nulla

1472

45,5

45,5

100,0

Totale 3238 100,0 100,0  
Tab. 2 – Opinione sul fatto che il venerdì i fedeli musulmani possano assentarsi dalla scuola o dal lavoro per andare in moschea

Il diniego si estende altresì ad una formazione storico-culturale di matrice islamica. Ma questa volta il tasso di favore sale leggermente, in quanto sono molto d’accordo l’8,2% ed abbastanza il 29,5%, cioè un insieme del 37,6%. Sull’altro fronte il poco d’accordo segna il 29,5% ed il per nulla si attesta al 32,9%, insomma il 62,4% di contrari.  

Lo Stato acconsenta che nella scuola pubblica gli studenti musulmani (se i genitori lo richiedono) ricevano una formazione improntata alla loro storia e cultura, anziché alla storia e alla cultura cristiana
 

n

%

% valido

% cumulativo

  Molto

264

8,2

8,2

8,2

Abbastanza

955

29,5

29,5

37,6

Poco

955

29,5

29,5

67,1

Per nulla

1064

32,9

32,9

100,0

Totale

3238

100,0

100,0

 

Tab. 3 – Opinione sul fatto che lo Stato acconsenta che nella scuola pubblica gli studenti musulmani (se i genitori lo richiedono) ricevano una formazione improntata alla loro storia e cultura, anziché alla storia e alla cultura cristiana 

Un’altra annosa problematica concerne la possibilità di costruire moschee. Lo permetterebbero molto il 9% ed abbastanza il 30,4%, dunque un totale del 39,4%. Invece sono poco d’accordo il 30,1% e per nulla il 30,5%, per cui alla fine gli sfavorevoli sono il 60,6%. 

I musulmani che vivono-lavorano in Italia possano costruire e gestire delle moschee nelle varie zone delle città
  n % % valido % cumulativo
Valido Molto 292 9,0 9,0 9,0
Abbastanza 984 30,4 30,4 39,4
Poco 975 30,1 30,1 69,5
Per nulla 987 30,5 30,5 100,0
Totale 3238 100,0 100,0  
Tab. 4 – Opinione sul fatto che i musulmani che vivono-lavorano in Italia possano costruire e gestire delle moschee nelle varie zone delle città

81ip8t4lg1lConclusione

Il panorama che emerge dall’inchiesta sulla religiosità in Italia depone a favore di una possibilità di interlocuzione fra mondo islamico e cultura italiana in generale. Il gradimento della popolazione in proposito non è ancora maggioritario ma è sulla strada di esserlo, nella misura in cui si incrementino gli scambi ed i confronti, sempre possibili come mostrano le dichiarazioni spontanee riportate sopra. L’idea sostenuta da Bassam Tibi, uno studioso naturalizzato tedesco ma di madre araba e siriano di origine (che ho conosciuto e frequentato ai tempi in cui entrambi facevamo parte dell’Euro-Arab Social Research Group, finanziato dalla Fondazione Adenauer nella seconda metà del secolo scorso), è da considerare praticabile: vi può essere un’europeizzazione dell’islam, senza forzature ed attraverso un dialogo aperto e sincero, costruttivo e deideologizzato.

D’altra parte, una concezione rigida della Sharia intesa come pura e semplice abolizione della legge positiva instaurata dagli uomini per sostituirla con quella ritenuta di derivazione divina non è perseguita e sostenuta dalla parte più illuminata ed aperta reperibile anche in Italia nello stesso ambito islamico. Penso in particolare all’imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, Presidente della CO.RE.IS. (Comunità Religiosa Islamica) Italiana o ad Abdellah Redouane, Segretario Generale del Centro Islamico Culturale d’Italia.

Semmai andrebbe invece riformulata l’espressione che parla di europeizzazione, in quanto presuppone una precisa scelta di campo e di prospettiva: individuare un’alternativa non è agevole ma è evidente che anche le denominazioni dei processi hanno un loro peso. 

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021

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Roberto Cipriani, professore emerito di Sociologia all’Università Roma Tre, è stato Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia. Ha condotto numerose indagini teoriche ed empiriche. La sua principale e più nota teoria sociologica è quella della “religione diffusa”, basata sui processi di educazione, socializzazione e comunicazione. Ha condotto ricerche empiriche comparative in Italia a Orune (Sardegna), in Grecia a Episkepsi (Corfù), in Messico a Nahuatzen (Michoacán) ed a Haifa (Israele) sui rapporti tra solidarietà e comunità. Ha realizzato films di ricerca sulle feste popolari. Fa parte del comitato editoriale delle riviste Current SociologyReligionsSociedad y ReligiónSociétésLa Critica SociologicaReligioni e Società. È Advisory Editor della Blackwell Encyclopedia of Sociology. È stato Directeur d’Études – Maison des Sciences de l’Homme – Parigi e “Chancellor Dunning Trust Lecturer” alla Queen’s University di Kingston, Canada. È autore di oltre novanta volumi e mille pubblicazioni con traduzioni in inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese, portoghese, basco, catalano e turco.

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