di Settimio Adriani, Elisa Morelli, Rosita Massimetti
È la «fame d’erba», menzionata da Annibale Salsa [1], che spinge gli allevatori a muovere stagionalmente gli armenti laddove il pascolo è più abbondante. Così, al pari della migrazione autunnale di pastori e greggi che in Appennino è nota come transumanza, nell’arco alpino si hanno quelle che l’Autore elenca come: «desmontegada in Trentino, desarpa in Valle d’Aosta, scargà nelle Alpi ossolano-lombarde, almabtriebe nelle montagne sudtirolesi». Ovunque, quindi, col finire della bella stagione, ed esauriti i pascoli alti, bisogna portare gli animali altrove. E al forbito «Settembre, andiamo. È tempo di migrare» del Poeta osservatore di chi percorreva i tratturi, si contrappone l’accorato lamento di chi dal Cicolano – siamo nella bassa provincia di Reti nella Valle del Salto – lungo i tratturi ci andava di persona:
«L’erba è ormai pasciùta alla montagna
tòcca piglià’ ‘élla sciùfela la via.
Addio moglie, casa e compagnia
ma ‘sto tribbolà’ pócu o gnénte cagna» [2]
Ma la natura compie il suo corso, alla brutta stagione ne segue una buona, e la frenesia di tornare sulle montagne di casa si fa sempre più spazio nei desideri dei pastori, e degli animali:
«Quànno se fa l’ora de cagnà’ salìme
greggi e cuore spingono a partire
si transuma in contro verso al fiume
pensando sempre di mai più tornare.
Non è più tempo di patir la fame
abbondan erba ed acqua da bere.
C’è poi chi aspetta, lì tra i monti
le nostre spose e chi ha’rrotàtu i ‘énti» [3].
C’è il bene e il male, e alla voglia di riabbracciare le persone care si contrappone la paura di riportare gli armenti dove il lupo sta uscendo da una stagione di carestia, e nell’attesa ha affilato i denti!
È il ciclo di allontanamento e ritorno che da sempre caratterizza questi territori: si va per l’esaurimento del pascolo, per oltrepassare il mare e andare a cagliare il latte nei caseifici sardi [4], par fare la stagione della tosatura [5], per andare a mietere il grano in campagna romana [6]; ma poi si tornava. Erano queste partenze cicliche, e i relativi ritorni, che al grande sacrificio individuale contrapponevano un arricchimento collettivo.
E così, seppur con grande fatica, si riusciva a restare, a non andare via per sempre. In fondo, un esodo con stagionali ritorni sta nelle origini e nelle dinamiche della popolazione di Fiamignano, paese del Cicolano, e nel sistematico utilizzo delle aree montane. Fenomeno che risale al tardo medioevo, quando l’abbandono del Castello di Rascino contribuì al sorgere della città de L’Aquila e dei paesi del fondovalle [7].
Ma quell’abbandono, dovuto ai mutamenti climatici, all’eccessivo sfruttamento dei magri terreni ed ai nuovi assetti politici, si limitò alla stanzialità, non alla frequentazione. Oltre ad un clima decisamente meno ostico, il trasferimento a valle liberò la popolazione dall’isolamento imposto dall’ambiente montano, e ne favorì la connessione alle reti sociali che più in basso erano relativamente più fitte e attive; ma non si crearono le condizioni per poter abbandonare definitivamente i terreni e i pascoli della montagna.
Infatti, per chi andò a cercare un po’ di agiatezza trasferendosi sugli scoscesi e boscosi pendii a mezzodì, alla citata «fame d’erba» si sommò la “fame di seminativi”. Questa è una descrizione di quel nuovo ambiente vitale:
«[...] l’area propriamente agricola [è] “brecciosa e lapillosa” né molto fertile [ed è] frammista a vallette o piani inclinati destinati al pascolo e a querce e castagneti, [con produzione di] castagne, e [...] ghiande per l’ingrasso dei maiali. Ma in definitiva non si tratta di un’area agricola esaltante. Essa è un residuo e addolcimento nello stesso tempo dell’antico e più severo paesaggio agricolo del saltus» [8].
E così, inevitabilmente, cominciò l’ininterrotto andirivieni tra i paesi e la montagna. Volendone descrivere in modo molto semplificando le dinamiche, si può affermare che a valle si viveva e in montagna si produceva.
Per la prima metà del secolo XX, il pastore Luigi Adriani così tratteggiava nelle sue memorie scritte il perdurante stretto rapporto di dipendenza dei paesi con la montagna: «[...] dall’aprile al novembre [si andava su e giù] per la via che porta a Rascino per riportare legna foraggio legumi e grano, patate» [9]. Tutto ciò, come è stato rilevato da Alessandra Broccolini, si concretizza nel fatto che nonostante la vastità e la diversità degli ambienti in quota, per la popolazione locale «la montagna è incarnata dall’altopiano di Rascino» [10]; che da sempre è pressoché unanimemente considerato fonte irrinunciabile di bellezza e sostentamento.
È lo stesso Luigi Adriani ad esplicitare nella seguente eptastica sia l’asprezza ambientale dei paesi sia il valore simbolico comunemente attribuito all’altopiano:
«C’è tra que’ monti un piano
che del Padreterno è il dono
al primo sol fiore di pruno
abbondan legna e latte ovino
lenticchie dà con pane e fieno.
Qui, sull’irta costa invece
poco godere e assai fugace» [11].
Dai paesi, quindi, si andava e si tornava ritmicamente, per la transumanza e per altri lidi. Finché, a cavallo tra la prima e la seconda metà del secolo XX, queste cadenze presero ad essere sempre meno costanti, e cominciò a verificarsi che si andava ma non sempre si tornava: la stagionalità casearia in Sardegna andò scemando [12], la mietitura manuale nelle grandi aziende di pianura venne soppiantata da quella meccanizzata, la tosatura delle pecore divenne economicamente sconveniente, diventò scomoda la transumanza di ritorno dalle confortevoli e vitali periferie della capitale all’isolamento montano. Finché, nel tempo, nonostante il ritorno della primavera molti pastori abbandonarono definitivamente la percorrenza «in contro verso al fiume».
Le facciate delle case di quelli che erano ormai diventati ex transumanti cominciarono ad andare in malora, e gli usci restarono quasi perennemente chiusi. Tale condizione, fino ad allora inedita, è tristemente ma sapientemente descritta nei versi di chiusura di una eptastica di Adelmo Di Giampasquale:
«D’ogni porta che se chiùe
pare che se perde ‘a chiàe! » [13].
Ma in molte di quelle case, ormai di fatto abbandonate, non certo inutilmente si continuano a tenere attive utenze e residenza anagrafica. È quella, infatti, condizione necessaria e sufficiente per poter continuare a beneficiare degli erbaggi montani ad un costo irrisorio. Cosicché per alcuni il paese rimase (e rimane) ancora utile anche dopo l’abbandono. Mentre la politica stava a guardare, tutto ciò lo scrisse a chiare note il solito Luigi Adriani, pastore, nei versi di chiusura di un’altra sua sprezzante eptastica:
«Có’ lo esse’ gente bòna
questa è terra de rapina!» [14].
Ma se gli ex pastori transumanti conservarono ancora un qualche residuo legame affettivo con la terra di origine, non fosse altro che per motivi di interesse, ogni forma di attaccamento scomparve completamente già tra i componenti della prima generazione nata e cresciuta lontano dal paese.
Se si nasce e si cresce in città non si può diventare paesani; questa, almeno, è l’opinione di Domenico Fabi, «nullafacente» per autodefinizione, e poeta per attitudine, che nella seguente ottava rima narra del figlio «romano» di un pastore «fiamignanese». Il ragazzo, che in estate torna forzosamente in paese al seguito del gregge di famiglia, con il proprio parlare ostenta agli indigeni tutta la sua “romanità”, ed il poeta non esita ad ingaggiare con lui una immaginaria quanto ironica conversazione:
«Asceso è qui dal mare
pargoletto del pastore
se lo senti un po’ parlare
ti si stringe forte il còre:
“Ooh! Anvedi, ch’è st’affare,
e nun c’ha manco er motore,
ma che d’è, costei, ‘na quaglia?”
“Nó, è ‘n córbo che te piglia!”» [15].
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo» [16].
Come l’orfano Anguilla, il “bastardo”, che torna nelle sue Langhe natie dopo aver fatto fortuna nella lontanissima America, anche la maggior parte dei nostri migranti, dopo aver vissuto chissà dove, desiderano il ritorno, seppure in vecchiaia, nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza. Cosicché, quelli che mirano a tornare, se tornano, sono i migranti in pensione, ma non i loro figli. Le famiglie che nel tempo sono partite per rincorrere il lavoro, e che soltanto in alcuni casi sono tornate, hanno portato con sé bagagli di esperienze di vita molto diversificati, sempre di grande sacrificio e talvolta anche molto interessanti. Ma, nonostante ciò, questa dinamica generazionale non garantisce un futuro ai paesi; e, come rileva Alessandra Broccolini, «Fiamignano, insieme a tutti gli altri paesi compresi nel Cicolano soffre uno spopolamento piuttosto evidente che ha portato a perdere negli ultimi 60 anni i 4/5 della popolazione, riducendosi a poche centinaia di abitanti. L’emorragia lenta e progressiva alla quale va incontro giorno per giorno il paese è rimossa nelle narrazioni e non compare in nessuna agenda istituzionale. Dello svuotamento di Fiamignano a Fiamignano sembra che non si parli pubblicamente; lo si accetta forse come quasi inevitabile. Tuttavia questo rimosso è sintomo di una preoccupazione profonda che serpeggia, ma non prende voce» [17]. È vero, ha ragione la Broccolini, su quel tema la voce non esce, perché non si scorgono appigli saldi a cui afferrarsi con le ultime energie rimaste, e l’esperienza vissuta non incoraggia.
Il nucleo industriale di Rieti, che all’inizio della seconda metà del secolo scorso avrebbe dovuto risolvere i problemi occupazionali dell’intera provincia e bloccare lo spopolamento dei paesi, già da tempo in corso, si è rivelata una beffa, della quale ha beneficiato sì e no una generazione di maestranze locali, mentre il vero grosso vantaggio lo hanno avuto gli imprenditori più smaliziati, quelli particolarmente accorti e accolti, che hanno approfittato della (per alcuni versi) sciagurata esperienza della Cassa per il Mezzogiorno. Coloro che hanno realizzato con fondi pubblici ricchezze private, e che hanno abbandonato frettolosamente il campo di battaglia quando il fronte della Cassa per il Mezzogiorno si è spostato altrove, ad ingannare altri. Non è forse questo un caso concreto di politica contro la montagna per la pianura?
La Broccolini afferma: «Molte sono le ragioni che hanno giocato in favore della pianura e dei centri urbani, ragioni che solo in minima parte sono ambientali, ma da imputare soprattutto alle politiche pubbliche, all’assenza di infrastrutture dopo il tracollo delle attività di sussistenza e ad un corso della storia recente che ha voluto relegare la montagna ed i piccoli centri a spazio residuale e marginale nella storia nazionale» [18].
È proprio l’infruttuoso «tracollo delle attività di sussistenza» l’unico esito del controverso periodo industriale di un territorio che industriale non poteva e non può essere. Alla temporanea gratificazione degli addetti non poteva che seguire la profonda sofferenza delle generazioni successive, i figli e i nipoti di chi in quelle traballanti fabbriche per poco più di un (breve) ventennio ha lavorato. L’irresistibile richiamo dello stipendio sicuro, a valle, ha svuotato i piccoli centri a monte. All’abbandono delle case e delle originarie «attività di sussistenza» ha fatto spesso seguito la stipula di mutui per l’acquisto di case cittadine, e l’arrivo di figli, che per nascita e crescita sono cittadini.
Col tracollo della breve era industriale reatina a questi ex contadini, prima, ed ex operai, poi, non è rimasto che disoccupazione, figli cittadini e disoccupati che non pensano neanche lontanamente di tornare in montagna, e il mutuo di casa da pagare. Anche la superstrada che attraversa la Valle del Salto, indub- biamente utilissima per collegare le città e per raggiungere queste ultime dai paesi, è giunta a compimento definitivo quando la periferia era ormai vuota, ed eliminando il seppur minimo passaggio all’interno delle singole frazioni ha ulteriormente contribuito al loro definitivo isolamento.
Quindi sembra proprio che tutto abbia giocato contro la montagna, ed in queste condizioni non è facile trovare l’ancora a cui aggrapparsi per restare, e non è consigliabile, inoltre, cercarla in ciò che attualmente il contesto territoriale mette a disposizione. Nel panorama completamente asfittico, l’unica opportunità concreta sulla quale oggi vale la pena aprire una riflessione è forse la Lenticchia di Rascino.
Non è che non ci siano altre possibilità, ma gran parte di quelle che ci sono appaiono fatue o legate ad una imprenditoria in grado di perpetuarsi solo grazie a risorse che non si originano nel territorio. Per tale motivo si configurano come opportunità in grado di mantenersi soltanto finché saranno alimentate dall’esterno, direttamente o indirettamente dal settore pubblico. Ed ora sembrano essere queste a tenere in piedi l’incerto sistema complessivo locale, che per diventare stabilmente autosufficiente necessita di un deciso cambiamento di rotta.
In tale contesto sono state le lenticchie a diventare, forse casualmente, la «forza identitaria» [19] del luogo. Una identità affidata a quel cibo dei poveri che, mezzo secolo fa, la rincorsa alla fabbrica e l’esodo verso la vita di città stavano portando all’estinzione. Poi ci fu la ripresa, ma il percorso che ha prodotto i risultati attuali non è stato breve né agevole, né tantomeno privo di fallimenti.
Il rilancio prese corpo nel 1971, quando la Pro Loco di Fiamignano inventò una sagra estiva per intrattenere i villeggianti. Ma la produzione di lenticchie era giunta al minimo storico, e quei primi cinque chili si recuperarono a fatica, e solo grazie all’offerta che Gennaro Calabrese fece al paese e all’Associazione.
Ci vollero anni e la cocciutaggine degli operatori della Pro Loco prima che la coltura riprendesse a salire. Progressivamente e con molta lentezza al tradizionale dono che qualcuno ancora ne faceva ai parenti più stretti, perché quello alle autorità locali era ormai definitivamente tramontato, si sommò qualche sporadica richiesta d’acquisto, che soltanto in alcuni casi poteva essere soddisfatta per mancanza di prodotto.
Il mercato vero e proprio lo mosse proprio la Pro Loco, che assistendo al progressivo aumento di presenze alla sagra cominciò a richiederne e ad acquistare 20, 30, 50, 100 chili. In quegli anni la vendita al minuto stava prendendo piede, ma gli acquirenti limitavano l’acquisto allo stretto bisogno familiare, che non andava mai oltre i 3-5 chili annui.
Fu il passaparola ad avviare anche le prime timide vendite esterne al territorio di produzione. Poi fu soltanto una questione di tempo, e tutto prese corpo abbastanza rapidamente. Con il patrocinio della Regione Lazio, nel 2008 e 2009, in occasione della XXXVII e XXXVIII Sagra delle Lenticchie di Rascino, la Pro Loco pubblicò due volumetti tendenti a divulgare l’ecotipo ed il pregio ambientale del luogo. Negli stessi anni e sul medesimo tema l’Associazione promosse alcune tesine di diploma, sviluppate da studenti del comune che presero coscienza della realtà che stava prendendo corpo. All’incremento delle semine seguì quello del prezzo di vendita, e si riprese ad arare le terre di montagna che da decenni erano ormai abbandonate e incolte.
Ma non mancarono le parentesi poco esaltanti: ci fu chi provò ad approfittare del prezzo crescente, acquistando nella grande distribuzione lenticchie commerciali per rivenderle come Lenticchie di Rascino; alla fine degli anni ’90 dal Ministero dell’Agricoltura arrivò un finanziamento di 150 milioni di lire per un’azione di valorizzazione delle Lenticchie di Rascino (progetto De.Va.Le.Ra.) affidata allo IERAAN di Roma (Istituto Europeo per le ricerche Ambientali e Antropologiche Nazionali). Di tale azione beneficiò ampiamente qualcuno al “centro”, scarsamente pochi in “periferia”, e per nulla le lenticchie. L’unico frutto che restò di quello che sembrò da subito un finanziamento sproporzionato fu l’istituzione di un Consorzio di promozione, che nel volgere di un biennio sarebbe dovuto diventare di soli produttori. Calato dall’alto per giustificare quelle grandi e inutili spese, si dissolse tristemente e in malo modo tra il 2006 ed il 2007.
Tra il 1995 ed il 1996, dal basso, tre giovani locali che avevano intuito la reale potenzialità della questione, si aggregarono informalmente (ma fattivamente) nella sedicente “Socceta Paradiso”, che resta la prima esperienza di produzione, valorizzazione e commercializzazione collettiva. Il gruppo lavorò molto, e bene, sulla diffusione del prodotto. Raggiunse tutte le fiere e le manifestazioni provinciali per divulgare gli aspetti qualitativi delle Lenticchie di Rascino, portandone sempre discrete quantità già cucinate per favorire la degustazione gratuita, nonché sfuse e confezionate (artigianalmente in proprio) per la vendita. Furono i primi a credere nelle potenzialità dell’ecotipo, e facendo debito iniziarono ad investire in attrezzature dedicate: nel 1997 acquistarono la prima trebbiatrice del posto, una vecchia Laverda 80, alla quale nel 2003 applicarono un nuovissimo pick-up con l’intento di velocizzare e razionalizzare la raccolta minimizzando le perdite di granella. Per curare la vendita del prodotto affidarono al grafico Vittorio Picconi la realizzazione di un logo e idearono un rudimentale ma adeguato packaging, consistente in sacchetti di juta grezza legati con del semplice spago. Acquistarono una taglia-cucitrice elettrica usata per realizzare in proprio quei sacchetti, che ebbero un notevole successo ed ispirarono gran parte delle confezioni successive. L’impegno risultò decisivo per l’apprezzamento e la notorietà dell’ecotipo. Ma anche quell’esperienza finì.
In quel periodo furono molte le azioni intraprese sulle Lenticchie di Rascino: ARSIAL, l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio, delineò il profilo genetico, la Pro Loco proseguì nell’intenso lavoro di valorizzazione, il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura (CRA), studiò la pedologia dei suoli idonei, la Regione Lazio incluse il legume nell’elenco delle essenze a rischio di erosione genetica (legge regionale 15/2000), nella frazione Corso la VII Comunità Montana Salto Cicolano costruì uno stabile per la lavorazione delle lenticchie (mai ultimato ed oggi in rovina), ARSIAL istituì la rete dei produttori, dal basso nacque l’Associazione dei produttori ed il relativo Consorzio, Slow Food istituì un apposito presidio, la Pro Loco diede vita ad una specifica pubblicazione; il tutto secondo la tempistica già riportata da Broccolini [20].
È grazie a questo intrigato processo che la Lenticchia di Rascino è indiscutibilmente diventata la «forza identitaria» della popolazione locale. Un ulteriore impulso alla ratifica del valore simbolico che questa coltura di pregio rappresenta per la collettività si ebbe con l’incontro per lo scambio di pratiche e conoscenze tra coltivatori di varietà locali di lenticchia nel Lazio, tenutosi nell’ambito del Servizio Sistemi Rurali di ARSIAL (SIT qualità) il primo marzo 2014 presso la sede della Pro Loco di Fiamignano, alla presenza delle comunità di Rascino, Ventotene e Onano [21]. Il coronamento si è avuto solo un anno più tardi, con la presenza di una rappresentanza dei produttori e del Consorzio all’EXPO 2015 di Milano ed il varo della linea grafica di Vittorio Picconi, che hanno favorito la diffusione del prodotto anche su mercati oltreconfine.
Oggi all’epoca della semina non si parla d’altro se non del ritardo dovuto alla persistenza della neve o della pioggia eccessiva, più avanti nel tempo della mancanza di pioggia quando le piante sono in fiore, della sciagurata grandine quando i baccelli cominciano ad essere pieni, dei problemi della raccolta, della resa quasi mai soddisfacente, della cernita da farsi ancora inevitabilmente in Umbria e del rischio di inquinamento che ciò potrebbe comportare. Sono questi i temi ricorrenti in ogni bar e in tutti i capannelli di piazza.
L’insacchettamento, finalmente, può essere fatto sul posto con la macchina recentemente acquistata dal Consorzio, anche se per mancanza di locali idonei si esegue a Borgorose. Ed ora è all’attrezzatura per la cernita che tutti puntano, come se quella fosse la soluzione definitiva di ogni problema.
Ma non è così. È indiscutibile che nell’immediato qualche difficoltà la risolverebbe, ma il problema vero è lo spopolamento, che neanche la novità delle Lenticchie di Rascino è stata in grado di arrestare. Per tutto il resto, seppur con indiscutibili difficoltà, le soluzioni si potrebbero anche trovare. Forse anche questa novità è arrivata troppo tardi, quando ormai il processo di abbandono aveva già superato il limite di reversibilità.
Questo è forse ciò che pensa chi lo spopolamento lo vive in prima persona ne soffre e non ne parla, il silenzio è probabilmente un modo di esorcizzare lo spettro di un panorama che ai più sembra tristemente ineluttabile.
Ma la Lenticchia di Rascino un grande risultato l’ha comunque prodotto; facendo inaspettatamente superare gli antichi e vigorosi campanilismi, ha favorito la crescita ed il consolidamento della «communitas» [22] già riscontrata dalla Broccolini. Basata sulla «centralità del ‘fare’» [23], la lenticchia è una realtà in grado di accomunare gli interessi (economici e sociali) di molti, divenendo l’unico attuale elemento identitario comune. Tanto che ormai si ostenta e si difende a spada tratta, sempre ed ovunque, quello che è unanimemente ritenuto un bene collettivo.
Ma i limiti a questa potenzialità non mancano, sono tanti e taluni appaiono insuperabili: la superficie idonea alla produzione dell’ecotipo è tutt’altro che infinita [24], e la produzione, se autentica e di qualità, in alcun modo potrà superare il limite imposto dallo spazio idoneo disponibile; il clima che cambia non aiuta di certo, le sempre più ricorrenti siccità primaverili e le gelate tardive non possono essere di certo contrastate con le energie umane, tantomeno con quelle residue locali.
E se il margine reddituale non è soddisfacente non si può pensare che le Lenticchie di Rascino, da sole, siano in grado di far tornare nel territorio energie fresche, né di rallentare l’esodo. Infatti, se si escludono alcune aziende agricole vere e proprie, che costituiscono la reale ossatura dalla salvaguardia del germoplasma, la produzione è in mano a chi ne fa una integrazione ad altri redditi principali: pensionati, impiegati e liberi professionisti, che se ne vantano, ma sono semplici hobbisti, per i quali “se va, va; altrimenti …”. Atteggiamento e prospettiva che non possono essere condivisi da chi di campagna deve vivere.
Non sembra essere questa la via d’uscita, ed anche se è auspicabile e affascinante l’idea di «portare il centro in periferia» [25], se non ci sarà una rapida presa di coscienza e posizione a livello dell’attuale “centro centrale” non ci potranno essere inversioni di tendenza.
Ed il quadro attuale non lascia intravedere nulla di buono.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Salsa, Annibale, Riflessioni di fine estate, in “Accademia della Montagna del Trentino” (http://www.accademiamontagna.tn.it/riflessioni%20di%20fine%20estate).
[2] Adriani & Adriani (2008), Il Cicolano terra di migranti: 185.
[3] Adriani & Sarego (2011: 17), Di Giampasquale Adelmo, impiegato (1920 – 2003).
[4] Adriani, Adriani & Morelli (2017: 247).
[5] Adriani & Adriani (2008), … gli ultimi carosini: 197-202.
[6] Adriani & Adriani (2008), Il Cicolano terra di migranti: 187.
[7] Leggio (1990: 91-111).
[8] Sarego (1985: 101-110).
[9] Adriani (2015: 49), Luigi Adriani, pastore (1905-1996).
[10] Broccolini, Alessandra, 2017 .
[11] Adriani (2015: 65).
[12] Adriani & Adriani (2008), … l’epilogo di un fenomeno: 190-196.
[13] Adriani & Morelli (2013: 420), Di Giampasquale Adelmo, cit.
[14] Idem: 418. Domenico Fabi, poeta (1945-2006).
[15] Idem: 419.
[16] Pavese (1997: 7).
[17] Broccolini (2017), cit.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] ARSIAL, Servizio Sistemi rurali (SIT).
[22] Broccolini (2017), cit.
[23] Clemente, Pietro, 2017.
[24] Raglione et alii (2011).
[25] Clemente, Pietro, cit.
Riferimenti bibliografici
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Adriani, S., La Lenticchia di Rascino. Storia e tradizione di un ecotipo, Rieti, La Tipografica Artigiana, 2015.
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Broccolini, Alessandra, La nuova ’comunità’ della lenticchia. Rascino e il rilancio della montagna sull’Appennino Centrale, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 28, 2017 (http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-nuova-comunita-della-lenticchia-rascino-e-il-rilancio-della-montagna-sullappennino-centrale/).
Clemente, Pietro, Piccoli paesi decrescono. Una rete per una battaglia di generazione, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 27, 2017 (http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/piccoli-paesi-decrescono-una-rete-per-una-battaglia-di-generazione).
Leggio, T., Il Castello di Rascino nel Medioevo, in AA.VV. (a cura), Il Territorio, rivista quadrimestrale di cultura e studi sabini, Cittaducale (RI), Arti Grafiche Nobili Sud, anno IV n. 3, 1990.
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Salsa, Annibale, Riflessioni di fine estate, in “Accademia della Montagna del Trentino”
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Sarego, L., Il comune di Fiamignano nella prima metà del secolo XIX. Un ambiente per il brigantaggio postunitario del Cicolano, in Maceroni G. (ed) Il brigantaggio genesi e sviluppi delle rivolte postunitarie con particolare riferimento al Cicolano, Rieti, Il Velino, 1985.
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia ed ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che insegna a contratto presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti) ed ha insegnato presso le Università degli Studi “La Sapienza di Roma” (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento di Medicina Clinica, Sanità Pubblica, Scienze della Vita e dell’Ambiente). Per passione studia la cultura del Cicolano, ed ha pubblicato saggi sull’emigrazione stagionale, la poesia pastorale e le cronache paesane della prima metà del secolo XX. È autore di alcune monografie, tra le quali La Lenticchia di Rascino; I racconti di briganti; La caccia al lupo nel secolo XIX; Il maiale; La Biancòla; Il corredo della sposa.
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Elisa Morelli, si è laureata in Scienze e Tecnologie per la Conservazione delle Foreste e della Natura (Facoltà di Agraria) presso l’Università degli Studi della Tuscia. Nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Gestione degli Ecosistemi Terrestri e delle Acque Interne (Corso di laurea in Scienze Ambientali) presso l’Università degli Studi dell’Aquila. È specializzata nella Gestione della Fauna, in particolare del Lupo e degli Ungulati selvatici, discipline sulle quali ha prodotto numerose pubblicazioni di carattere divulgativo e scientifico di rilevanza nazionale e internazionale. Ha svolto diverse indagini sulla cultura locale ed è autrice delle relative pubblicazioni. Dal 2016 è parte attiva del recupero della tradizione del Carnevale nel Comune di Fiamignano.
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Rosita Massimetti, ha conseguito presso l’Università degli Studi dell’Aquila la laurea triennale in Ingegneria Gestionale con una tesi su “Prodotti tipici e innovazione brevettuale. Il caso del pomodoro” e la laurea magistrale nel medesimo corso di studi con una tesi sperimentale dal titolo “Ottimizzazione di sistemi produttivi in ottica Lean Manufacturing attraverso campionamento e sviluppo di modelli organizzativi”. Attualmente ricopre il ruolo di Project Specialist Junior in Enginium S.r.l. Amante della natura, della propria terra, dell’arte, della cultura e delle tradizioni del Cicolano, è impegnata nella valorizzazione delle unicità e delle eccellenze del territorio d’origine.
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