Spessotto, personaggio protagonista dell’allegra marcetta [1] del cantautore Vinicio Capossela, è un alunno degli anni Settanta, un bambino a cui la vita non ha regalato nulla, neppure la possibilità di essere retto; è un disagiato, un “soggetto problematico”, pigro, distratto, scorretto, menzognero, facile all’ira, uno scarto della società, destinato a stare ai margini già dalla prima elementare, quando, dopo i primissimi giorni di scuola, incapace di stare fermo, viene giudicato e additato, quindi arruolato dagli stessi insegnanti tra i disturbatori della quiete dell’aula e relegato agli ultimi banchi per tutta la restante carriera scolastica.
Dalla scuola di Spessotto ad oggi sono avvenute varie riforme scolastiche, una rivoluzione pedagogica, addirittura, è sembrata il passaggio dalla didattica dell’insegnamento a quella dell’apprendimento. Nel 1973, i Decreti Delegati (delega 30 luglio 1973 n. 477, pubblicata nella G.U. n. 211 del 16 agosto 1973), col fine di realizzare la partecipazione democratica di tutti i soggetti della scuola, conferiscono a questa un carattere di comunità sociale e civica. La legge 517/77 sancisce il diritto alla frequenza scolastica di tutti i disabili; nel 1982 viene istituito il ruolo dell’insegnante di sostegno; la Legge 104/92 garantisce l’integrazione scolastica: l’obiettivo è lo sviluppo delle potenzialità della persona disabile nell’apprendimento. Nel 1999 il D.P.R. 1975 regolamenta l’autonomia delle istituzioni scolastiche quale mezzo per garantire il successo formativo di tutti gli alunni che ad esse si rivolgono. La direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, rivolta agli alunni e studenti con bisogni educativi speciali, porta a compimento la vocazione tutta italiana alla realizzazione di una scuola inclusiva.
La scuola di oggi si dice, perciò, alunnocentrica, inclusiva, garante del successo formativo di tutte e di tutti. Ma è sempre così? O “inclusione” è solo una bella parola da lessico del Piano Triennale dell’Offerta Formativa delle istituzioni scolastiche? Teoria che ha bisogno di lotta perseverante da parte di tutti i professionisti della scuola per diventare prassi quotidiana? Cosa non funziona ancora nella scuola italiana di oggi? Una scuola che – occorre dirlo – ha mosso, quanto meno a livello giurisdizionale, passi da giganti nei confronti della disabilità e di tutti i bisogni educativi speciali.
Gli anni del berlusconismo hanno segnato l’inizio della deriva neoliberale della scuola italiana: la famigerata “scuola delle tre i” (impresa, informatica, inglese), sbandierata dal Ministro dell’Istruzione Letizia Moratti come un’innovazione pedagogica e culturale al passo coi tempi, fino ad approdare alla Legge 107 del 2015 che, più che una riforma della scuola, sembra essere una legge finanziaria, riducono le istituzioni scolastiche ad aziende che mirano «a produrre competenze efficienti adeguate al proprio sistema»[2].
Scrive Massimo Recalcati ne L’ora di lezione: «Garantire l’efficienza della performance cognitiva, è divenuta un’esigenza prioritaria che risucchia le nicchie necessarie del tempo morto, della pausa, della deviazione, dello sbandamento, del fallimento, della crisi, che invece, come sanno bene non solo gli psicanalisti, costituiscono il cuore di ogni autentico processo di formazione».
Non esistono classi dove va tutto bene, l’insegnante non può avere orrore del fallimento fino a negarlo, rimuoverlo. Efficienti gli alunni, efficienti sempre e comunque gli insegnanti: a noi questa nuova scuola autoreferenziale e della performance non piace. “Performance” è parola che riguarda la pubblicità, il commercio; essenziale alla performance è il prodotto che pretende un uso e un consumo, un mercato; nelle giornate dell’open day, vera e propria vetrina allestita per calamitare nuove iscrizioni di alunni, è la stessa istituzione scolastica ad essere considerata merce. Orrore! La scuola non è fatta di merci, oggetti, prodotti, alunni sempre efficienti, futuri produttori e fautori del progresso economico della nazione, macchine che devono esprimere prestazioni adeguate, strumenti didattici informatizzati, metodologie dell’apprendimento da esaltare, accanimento valutativo; l’insegnante non è un burocrate, non deve rispondere alle esigenze contabili dell’istituzione, ma a quelle dell’allievo. Attenzione, poi, alla deriva che potrebbe prendere questo processo neoliberale: nella scuola della performance e della competizione, intenta a formare efficienti produttori e consumatori, quale spazio occupa e quale ruolo ha il bambino disabile? «Ecco una buona definizione dell’educazione: amare la vite storta» [3].
È stato appena pubblicato Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, l’autore è Franco Lorenzoni [4]. Nel risvolto di copertina leggiamo: «perché le differenze non si trasformino in discriminazioni è necessario educare controvento, mettere in atto una ribellione non violenta». In che cosa consista questa ribellione, Lorenzoni ce lo spiega bene nelle pagine del libro attraverso il racconto di esempi virtuosi di scuola, «azioni didattiche ed educative mosse da una spinta etica all’impegno civile che induce a compiere sforzi a volte assai impegnativi e faticosi»[5]: un paragrafo del libro è dedicato, ad esempio, al racconto dell’impegno e della perseveranza della preside Antonella Di Bartolo nel quartiere Sperone di Palermo, periferia degradata della città, luogo dimenticato dallo Stato.
Per una ribellione non violenta, occorre partire dalla Costituzione Italiana, «sulla quale forse sarebbe opportuno», scrive Lorenzoni, «essere chiamati a giurare quando entriamo per la prima volta a scuola, perché quella legge fondamentale sancisce la pari dignità di tutti». Le fondamenta dell’inclusione, del resto, quali sono, se non i principi della Costituzione, quel “rimuovere gli ostacoli”, l’uguaglianza sostanziale dell’Articolo 3? Pari dignità, rimozione di ostacoli e pieno sviluppo della persona umana: non ci vogliono grandi idee pedagogiche per una scuola nuova e giusta, basterebbe la Costituzione! Un insegnante “controvento” non svolge il proprio lavoro solo e soltanto per gli alunni assennati, studiosi, collaborativi; non cura i sani, ma ha attenzione per “la vite storta”.
La scuola è importante perché è fatta di donne e di uomini, di persone, di relazioni tra le persone, di valori alti che non attengono al denaro e al progresso economico, alla competizione, alla performance industriale. La scuola, come viene definita da Eraldo Affinati, è “intensificazione della vita”. La scuola deve restare umana!
«I migliori educatori», scrive Recalcati, «sono quelli che hanno contattato la loro insufficienza, che hanno fatto esperienza dell’impossibilità di controllare in modo deterministico e disciplinare il processo di umanizzazione della vita».
La disabilità ci insegna a restare umani, ci insegna la diversità, la cura, l’attenzione. «L’incontro con bambine e bambini con disabilità, se autentico, terremota in profondità molte nostre abitudini e certezze e ci chiede di ripensare continuamente ogni cosa»[6], dalla nostra azione didattica ed educativa alla nostra persona.
Scrive Eraldo Affinati ne L’uomo del futuro: «Ogni incontro umano è un colpo alle nostre certezze»: l’incontro con la disabilità ci scuote, ci percuote. Evviva: siamo vivi! «Solo se, come fecero al tramonto verso casa i discepoli di Emmaus, ci lasciamo sorprendere da chi non conosciamo, potremmo capire qualcosa di noi stessi e degli altri (…) Educare significa ferirsi. Bruciarsi le mani. Andare diritto dove sai che ti fa male» [7].
L’alunno Gabriele mi insegna ogni giorno la lentezza della lumaca, ad andare piano, ma lasciando la scia, la traccia. Luigi mi insegna ad essere essenziale, a scegliere cosa conta: «A un quindicenne che ci sta scappando di mano per andare in officina, molto prima della lingua del Monti è meglio spiegare il contratto dei metalmeccanici»[8]. Gabriele insegna a Luigi a prendersi cura di lui. Tutta la classe durante una gita si è indignata profondamente nel vedere un’auto sbarrare la strada a Gabriele perché parcheggiata sullo scivolo per disabili. Spessotto, poi, ci insegna a guardare le stelle, perché come diceva Don Lorenzo Milani alla professoressa Adele Corradi: «Chi non si alza per vedere le stelle non ama né la scuola né i ragazzi»[9].
Lo scorso 15 aprile si è svolto nei locali dell’Istituto Comprensivo “Cruillas”, a Palermo, il convegno “Scuola Cultura Inclusione”, promosso dall’associazione “Insieme per il Sostegno”. Da questo incontro è nata l’idea di realizzare il “Manifesto per una scuola umana”. La scuola nei secoli è stata autoritaria, fascista, ecclesiastica, riformata, innovativa, informatizzata: noi vorremmo che la scuola fosse prima di tutto umana. L’idea del Manifesto nasce da quei docenti che fanno esperienza ogni giorno del fallimento, della finitezza dell’uomo, dello svantaggio culturale; dai dirigenti delle scuole di periferia, prima che da quelli delle scuole di centro città; dagli insegnanti di sostegno, prima che da quelli curricolari; da tutti gli insegnanti, prima che dagli accademici. Sarà un Manifesto per una scuola che parteggia, che sta cioè dalla parte degli alunni, un Manifesto per una scuola del prendersi cura, che coltiva l’attenzione per la fragilità, un Manifesto per una scuola di alunni e insegnanti capaci di stupore e commozione per le stelle.
Dialoghi Mediterranei, n.61, maggio 2023
Note
[1] Vinicio Capossela, Dalla parte di Spessotto nell’album Ovunque proteggi, Warner Music, 2006
[2] Cfr. Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014
[3] Ibidem
[4] Franco Lorenzoni, Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, Sellerio, Palermo 2023
[5] Ibidem.
[6] Per una scuola all’altezza della nostra Costituzione, Lectio magistralis di Franco Lorenzoni per il conseguimento della laurea honoris causa presso l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione primaria.
[7] Eraldo Affinati, L’uomo del futuro, Mondadori, Milano 2016.
[8] Ibidem.
[9] Adele Corradi, Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, Milano 2017
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Salvina Chetta, vive a Mezzojuso (PA). Si è laureata in Lettere moderne ed è insegnante di Sostegno nella scuola primaria. Ha fatto parte della Compagnia del Teatro del Baglio di Villafrati (PA). È appassionata di fotografia e ha pubblicato alcuni saggi sull’emigrazione siciliana in Tunisia. Per la rivista “Nuova Busambra” ha curato la rubrica “Nìvura simenza” sulle scritture popolari.
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