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Per un’estetica della parola: un’apologia dell’analisi logica

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Spirale arcobaleno, sfondo vettoriale

di Clarissa Arvizzigno

In un mondo sempre più complesso, ovvero sempre più strutturato, intricato in un groviglio di relazioni sempre più precarie e difficili, emerge una certa superficialità di analisi dei suoi fenomeni interni. La natura dei fenomeni del mondo, infatti, viene spesso indagata a partire dalle conseguenze che essi producono in un non-sistema di relazioni in cui le cause degli stessi fenomeni vengono fatte coincidere con le loro conseguenze. Ciò che sembra mancare, nella società contemporanea, è una capacità di analisi delle cose, dove per analisi intendiamo una scomposizione di un elemento nelle sue parti costituenti, piccole e grandi che siano. Di conseguenza, ciò che emerge è un’incapacità di andare nel profondo delle cose, di osservarne la struttura interna, a vantaggio di una superficialità, di un restare in superficie senza scavare a fondo i problemi che il mondo stesso ci getta dinanzi. Altra conseguenza di questa modalità di analisi non è soltanto una con-fusione tra ciò che è causa del fenomeno e ciò che ne costituisce l’effetto con le dirette e indirette implicazioni che tale meccanismo comporta, bensì anche l’incapacità di mettere in relazione le cose: noi restiamo statici in un mondo dinamico, che è relazione e di cui noi stessi costituiamo i relata.

Come ci suggeriscono i fenomenologi, noi siamo, viviamo nella relazione tra e nelle cose: ogni nostro gesto, sentimento, azione assume significato solo se lo consideriamo nella relazione che esiste tra noi e il mondo: per tale motivo non esiste un “io” che dall’interno guarda l’esterno, ma un “io” che si trova sempre su una soglia, su un limen i cui contorni sono sempre sfocati ed indefiniti: io guardo il mondo ed esso mi risponde, dove sono io rispetto al mondo? Al di qua o al di là della mia finestra sul mondo? A tal proposito, scrive Calvino nel suo Palomar:

«Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale di una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui. Dunque: c’è una finestra che s’affaccia sul mondo. Di là c’è il mondo; e di qua? Sempre il mondo: cos’altro volete che ci sia?» [1].

Noi siamo parte del mondo, di questo sistema complesso ed intricato con il quale di volta in volta interagiamo entrando in relazione: noi siamo in continuità con il mondo come un segmento lo è rispetto alla figura che lo compone, siamo compaginati in questa unità continua che, tuttavia, siamo portati a scomporre ed analizzare nelle sue parti minime. Scrive Dewey:

«la vita è suddivisa in compartimenti, e i compartimenti istituzionalizzati sono classificati come alti e bassi; i rispettivi valori come profani e spirituali, materiali e ideali. Gli interessi sono messi in relazione tra loro in modo esteriore e meccanico attraverso un sistema di controlli ed equilibri […]» [2].

 Se noi siamo mondo in relazione al mondo, segmento in relazione a figura, parte in relazione all’insieme, da dove nasce questa necessità di classificare, scomporre le nostre esperienze fenomeniche che ci accompagnano quotidianamente? Scrive sempre Dewey:

«la compartimentazione delle attività e degli interessi provoca la separazione di quel genere di attività comunemente chiamata “pratica” dal capire, dell’immaginazione dall’agire concreto, dello scopo significativo dall’opera, dell’emozione da pensiero e azione. Ognuno di questi elementi ha, egualmente, il proprio peso che deve rispettare. Per questo chi disegna l’anatomia dell’esperienza suppone che tali divisioni ineriscano alla costituzione stessa della natura umana» [3].

La natura umana, pertanto, presuppone una qualche anatomia, un qualche cesellamento delle esperienze fatte che, erroneamente, ci fa percepire il mondo come un insieme di non-relazione, un groviglio disordinato di cose che sono rispetto ad altre cose in un non-rapporto. Il fatto di considerarci in relazione di continuità con l’ambiente che ci circonda, non esclude tuttavia la possibilità di poterlo analizzare dal punto di vista cognitivo. Il cercare di comprendere com’è il mondo (e come siamo rispetto ad esso), non esclude la possibilità di comprendere cosa sia il mondo, sia pur nei limiti della nostra esperienza, purché si faccia in modo che l’approccio estetico preceda, quindi presupponga quello cognitivo. Solo una volta che abbiamo costruito il circuito esperienziale all’interno del quale possiamo muoverci (perché comunque la nostra esperienza per quanto complessa e variegata è de-finita in un numero limitato di forme), circuito che sia anche modalità del conoscere, possiamo conoscere il cosa sia quest’esperienza, analizzandola.

La carente propensione all’analisi, che caratterizza il mondo contemporaneo, si riflette in primo luogo nella lingua che parliamo ogni giorno e attraverso la quale scriviamo e facciamo esperienza con il mondo. Di conseguenza, possiamo considerare la lingua come il principale strumento estetico (ovvero come uno strumento che consenta un’esperienza percettiva) attraverso il quale interagiamo con il mondo-ambiente perché ci permette di definirlo, di connotarlo, di essere-nel-linguaggio e in relazione ad esso. Scrive Merleau-Ponty nella Prosa del mondo: «il mondo percepito, e forse anche quello del pensiero, è fatto in modo tale che non vi si può mettere una cosa qualunque senza che questa immediatamente acquisti significato nei termini di un linguaggio di cui diventiamo depositari» [4].

Linguaggio e mondo sono, per noi esseri umani, in una relazione in cui l’uno non può prescindere dall’altro: il mondo non può non essere nominato, definito dagli strumenti del linguaggio. Esprimere, scrive sempre Merleau-Ponty,

«non è niente di più che sostituire una percezione o un’idea con un segnale convenuto che l’annuncia, la evoca o la compendia. […] L’espressione esprime perché riconduce tutte le nostre esperienze a un sistema di corrispondenze iniziali tra tale segno e tale significazione di cui abbiamo preso possesso imparando la lingua ed essendo lui, il segno, assolutamente chiaro perché nessun pensiero persiste nelle parole, nessuna parola persiste nel pensiero puro di qualche cosa. […] La lingua è per noi un incredibile strumento che ci permette di esprimere un numero indefinito di pensieri o di cose con un numero finito di segni» [5].

Con questo sistema convenzionale di segni noi facciamo esperienza dal momento che noi siamo in relazione con il linguaggio: nominando qualcosa attraverso il linguaggio, l’essere umano entra in un rapporto di diretta esperienza con esso e non di esso [6]. Intendiamo qui, sinteticamente, con “esperienza di” l’esperienza che un soggetto attivo fa di un oggetto passivo e ciò implica una certa distanza che può generare distinzione ed astrazione (si pensi alla dicotomia di cartesiana memoria tra res cogitans e res extensa), con “esperienza con” l’esperienza che un soggetto attivo fa di un altro soggetto attivo, istituendo con esso una relazione solidale che prevede un materiale scambio tra le parti. Prova di questo scambio osmotico tra le parti, ovvero del noi-mondo che fa esperienza con il linguaggio-mondo e del linguaggio-mondo che fa esperienza con il noi-mondo, è che il linguaggio stesso, di cui si fa usus, si usura modificandosi nel tempo e nello spazio: in determinate condizioni, una parola può cambiare il suo significante e il suo significato, dopo che è stata in-relazione-con-il-mondo. Si può pertanto, in tal senso, parlare di approccio estetico al linguaggio, che descrive come esso sia in relazione a noi e al mondo di cui noi stessi siamo parte. Il linguaggio, insomma, funge anche da operatore estetico che modula i nostri pensieri e la nostra percezione, che opera una «percettualizzazione» che si configura dunque come «un agire sul percetto di una compaginazione sensibile»[7]: il linguaggio è pertanto quel meccanismo dinamico (operativo) che rende percepibile ciò che comunemente percepiamo, il percetto.

Ragioniamo ora su cosa sia il linguaggio e, in particolare, la sua articolazione, cosa sia la lingua che parliamo e scriviamo, la sua struttura interna e profonda, insomma: riflettiamo sulla sua analisi. Particolarmente utile, a tal fine, risulterebbe operare un’analisi logica della nostra lingua madre, che ci consenta, secondo un approccio più propriamente cognitivo, di conoscerne gli elementi fondanti. Temuta da chi più, da chi meno, l’analisi logica è stata ritenuta, nelle scuole per molti anni, un validissimo metodo di conoscenza e riflessione sulle lingue e in particolare, sulla nostra lingua madre. Studiare e svolgere una corretta analisi logica significava, se studiata in relazione all’analisi grammaticale e del periodo, conoscere e padroneggiare la lingua italiana.

Da alcuni anni tuttavia si sta affermando progressivamente, in ambiente scolastico e non, un nuovo modo di fare grammatica che si sta sostituendo alla vecchia analisi logica: la grammatica valenziale.  Il modello è stato elaborato per la prima volta dal linguista francese Lucien Tesnière (1893-1954) ed è stato sviluppato in molti altri studi recenti. In Italia ha contribuito alla diffusione e allo studio di tale modello, in particolare, il linguista Francesco Sabatini [8] profondamente critico verso l’analisi logica tradizionale. Egli vede il modello valenziale pertanto come un modello sostitutivo a quello tradizionale.

Se la struttura base da cui partiva la vecchia analisi logica era quello del verbo, del soggetto e dei complementi che andavano a costituire quell’unità di senso compiuto che si chiama frase e che, pertanto, come ci suggerisce la stessa etimologia (φράζω, phrazo, dire) ci dice, ci spiega o narra qualcosa, la struttura base da cui parte la grammatica valenziale è invece costituita dal verbo, dai circostanti e dalle espansioni.

Il modello valenziale presenta molte analogie con il lessico della chimica, come ci suggerisce lo stesso nome. Al centro della frase sta l’elemento portante, il verbo, che costituisce il centro nevralgico a cui tutto è connesso: il verbo è il motore della frase da cui dipendono e su cui si reggono gli altri elementi. La capacità del verbo di attrarre e quindi annettere gli elementi basici (che chiamiamo argomenti o attanti e che sostituiscono ciò che nell’analisi logica era rappresentato dal soggetto e dai vari complementi) della frase è chiamata valenza: ogni verbo possiede una propria valenza e dunque una capacità propria di aggregazione degli elementi della frase che è data dal suo significato e che, pertanto, deve essere saturata. Come conseguenza a tale teoria vi sono verbi zerovalenti, monovalenti, bivalenti, trivalenti e tetravalenti. Pertanto, in una frase come “Fuori nevica”, avremo un verbo zero valente dal momento che non è in grado di attrarre a sé nessun argomento, nemmeno l’argomento soggetto: il verbo è già saturo di per sé; invece, in una frase come “Il nonno dorme” vedremo come il verbo “dorme” presenta solo l’argomento soggetto, per cui parleremo di verbo monovalente. E ancora, in frasi come “il nonno mangia la mela”, “Il nonno regala un libro al nipotino”, “Lo studente traduce la versione dal greco all’italiano”, avremo, rispettivamente, verbi bivalenti, trivalenti, tetravalenti: un verbo satura la sua valenza quando si compone di tutti gli elementi che sono necessari a colmarne il significato. Pertanto l’approccio di Tesnière è senz’altro molto interessante, perché insiste non soltanto sull’aspetto logico, ma anche su quello semantico.

Il verbo è in una relazione constante con i suoi argomenti (i vecchi complementi) che lo saturano e ne completano il significato; a loro volta, gli argomenti sono da considerarsi un po’ come l’abito da adattare a un determinata forma fisica: essi acquistano significato in relazione al verbo che saturano e di cui ci danno informazioni.

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La stessa metodologia può essere applicata ad altre lingue, comprese le lingue morte come il latino. Utilizziamo qui gli schemi radiali la cui applicazione è molto comune nella grammatica valenziale: dal verbo si irradiano gli argomenti ad esso connessi.

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Gli argomenti connessi al verbo possono essere: l’argomento soggetto, l’argomento oggetto diretto e l’argomento oggetto indiretto.

 3Non abbiamo più, dunque, la numerosa classificazione dei complementi data dall’analisi logica ma soltanto gli argomenti sopra citati: si porrà solo l’attenzione sulla loro funzione logica. Gli argomenti uniti al verbo, inoltre, andranno a costituire quello che è il nucleo della frase come nell’esempio sopra riportato. Oltre a questo, dobbiamo aggiungere alla struttura della frase quelli che vengono definiti da Tesnière “i circostanti”, ovvero quelli elementi che si legano al nucleo ma non fanno parte di esso. Se infatti alla frase sopra citata: “Giulio ha fatto riparare la macchina dal meccanico” aggiungiamo altri elementi strutturando così la frase: “Giulio ha fatto riparare la macchina nuova dal meccanico di Luigi”, notiamo come sia “nuova” sia “di Luigi” siano legati a “la macchina” e “dal meccanico” in quanto elementi aggiuntivi che arricchiscono quelli già dati. Essi sono legati agli argomenti, tuttavia non sono elementi fondamentali per saturare il predicato verbale trivalente “ha fatto riparare”. Tali elementi circondano il nucleo della frase ma ne sono esclusi: chiameremo pertanto tali argomenti circostanti che possono essere riferiti al verbo o agli argomenti.

 4A un livello ancora più complesso, troviamo le espansioni, ovvero quegli elementi che si affiancano al nucleo e ai suoi circostanti, ma che non presentano specifici legami sintattici con essi. Le espansioni sono in relazione al nucleo e ai circostanti solo attraverso la congruenza dei significati che trasportano all’interno della frase.

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[Questo e i precedenti grafici sono tratti da Vivit.vivi italiano.it]

Le espansioni “di mattina presto”, “prima dell’apertura”, “su un alto sgabello”, “con molta cura e abilità” non sono legate agli elementi del nucleo, non hanno alcun legame logico con esso, bensì si pongono esternamente ad esso espandendolo, come se operassero una sua dilatazione verso l’esterno, centrifuga, come suggerisce appunto lo stesso schema radiale adottato dai grammatici valenziali. Le espansioni, dunque, non presentano alcun legame sintattico con il nucleo, ma vi son legati in virtù di rapporti di significato, semantici.

La grammatica valenziale, pur prediligendo un approccio semantico e sintattico, potremmo dire che resta ad uno stadio strutturale, ovvero fa leva sulla struttura della frase fermandosi ad un livello superficiale, dove per superficie intendiamo lo strato superiore, l’involucro della frase stessa. Il modello valenziale analizza l’architettura della frase, la sua struttura portante, gli elementi che la compongono e che occupano un ruolo specifico al suo interno: fare grammatica valenziale è un po’ come conoscere l’architettura di un edificio, il suo scheletro esterno, la sua forma, cosa compone l’edificio, quali sono le sue linee, i suoi assi portanti, i rapporti tra le sue parti. Scrive Sabatini a difesa della grammatica valenziale:

«nella linguistica moderna un modello ormai ben consolidato (e di antica ascendenza!) è quello della grammatica “valenziale “, che pone al centro della frase, come suo perno, il verbo e che cerca di stabilire quali altri elementi gli stanno intorno, distribuendoli in tre livelli: a) gli “argomenti” o “attanti” che si legano strettamente al verbo (secondo le “valenze” del suo significato) e con questo formano il puro “nucleo della frase”; b) gli elementi direttamente circostanti al nucleo, che si legano ai suoi singoli elementi e li specificano (creando un nucleo “arricchito”); c) gli elementi che ampliano la frase affiancandosi al nucleo (anche arricchito) senza stabilire legami sintattici con i suoi elementi, ma solo aderendo appropriatamente ad esso con il loro significato (e possono perciò trasformarsi in frasi dipendenti)»[9].

Potremmo quindi dire che l’analisi valenziale fa leva sulla relazione presente nella struttura della frase, descrive l’equilibrio interno di quello scheletro architettonico che chiamiamo periodo. Sempre lo stesso Sabatini si pronuncia critico verso l’analisi logica:

«Ci dovremmo rendere conto, ormai, che in siffatte analisi di quelli che chiamiamo “complementi” qualcosa proprio non funziona (e gli insegnanti sono i primi ad avere dentro di sé mille dubbi, magari nascosti davanti agli alunni). L’insidia si annida in una mancata distinzione di principio, che in varie occasioni ho cercato di chiarire, ma che stenta ad entrare nella cultura scolastica. Cerco di riproporla di nuovo, in estrema sintesi e nei termini più semplici possibili. Esaminiamo, in aggiunta al caso precedente, altre espressioni, come quelle evidenziate negli esempi seguenti: “è meno stancante viaggiare in treno”; “mangio due uova al tegame”; “ti regalo un miliardo per finta”; “leggerò questo libro al mare”. Ognuna di esse può essere interpretata in modi diversi, secondo il punto di vista che assumiamo: chi viaggia in treno è collocato “nel” treno, ma nello stesso tempo considera il treno come “mezzo” per raggiungere un luogo; le uova al tegame sono “nel” tegame, ma sono anche cucinate in un certo “modo” (ma uova al tegame è piuttosto una unità polirematica […]. In conclusione, siamo noi che costruiamo una prospettiva di interpretazione di un fatto (oggetto, comportamento, ecc.), in base alla quale prospettiva cerchiamo di incasellare quel fatto in una categoria concettuale generale, una delle moltissime (tempo, variamente concepito; spazio, variamente osservato; scopo, modo, mezzo, prezzo, ecc.) e dai contorni imprecisati con le quali tentiamo di descrivere ciò che concepiamo con la nostra mente» [10].

L’analisi logica, dunque, per Sabatini dà adito ad equivoci, dubbi, interpretazioni molteplici in cui siamo noi che costruiamo appunto una prospettiva di interpretazione di un fatto che tendiamo a concettualizzare in una casella del pensiero secondo le categorie di tempo, spazio, scopo, modo, mezzo. Tuttavia, dare una prospettiva di interpretazione alle cose, operare un’intermediazione tra noi e il mondo che ci circonda, non è inevitabile? Fenomenologicamente parlando, le nostre esperienze di conoscenza del mondo non sono forse esperienze di conoscenza con il mondo, dove intenderemo con la preposizione “con” questo “attraverso” da cui siamo perennemente condizionati? I nostri tentativi di conoscere il mondo non obbediscono forse a quel legame chiasmatico di merleau-pontiana memoria in cui siamo noi in relazione con il mondo e il mondo in relazione con noi? La conoscenza non è forse reciproca?

Inoltre, facendo grammatica valenziale, cosa stiamo facendo di diverso se non fornire una nostra interpretazione concettuale della frase? Non è forse un altro modo di analizzare che presenta delle differenze rispetto alle modalità dell’analisi logica? La differenza, qualcuno direbbe, sta nel fatto che la grammatica valenziale presenta delle categorie fisse: i verbi, il nucleo, le espansioni, gli argomenti e che di questi ultimi ci limitiamo a dire che rappresentano l’argomento “soggetto, oggetto diretto, oggetto indiretto”: il che cosa sono, quale funzione rivestono all’interno dell’architettura della frase, della sua superficie.

È però evidente che la sola descrizione dell’architettura non basti a dire cosa sia un edificio; una volta che ne conosciamo la struttura, infatti, non vediamo l’ora di varcarne l’interno, la sua microstruttura, gli oggetti che contiene, la disposizione di questi oggetti e, a un livello ancora più interno, i suoi colori, in una parola: la sua atmosfera [11]. Cosa sia l’atmosfera in un edificio è un qualcosa di inafferrabile a parole, tuttavia possiamo provare a descrivere le sue qualità, i suoi qualia, cercando di colmare lo scarto che ci divide e allo stesso tempo ci unisce all’oggetto in questione tentando di superare la dualistica dicotomia tra noi e il cosa, tra noi e il mondo.

Il nostro stare al mondo può dunque essere visto come un continuo tentativo di colmare la sua ineffabilità attraverso le parole stesse che costituiscono il “tra”, il mezzo espressivo che ci consente l’esperienza con il mondo. Gli equivoci, i dubbi di cui scrive Sabatini, non sono forse connaturati alla nostra relazione con il mondo? Quelli che sono i relata di un sistema relazionale, appunto, non sono forse in continuo movimento-mutamento? Non vi è sempre un sottile scarto, una crepa in cui si insidia un nuovo fenomeno che, di volta in volta, emerge nello spettacolo del mondo modificando la percezione che noi abbiamo dello stesso?

Fare analisi logica e dunque analizzare i complementi, potrebbe essere forse un modo per provare a colmare o, meglio, ad interpretare questo continuo scarto che noi abbiamo con il mondo, un modo per interpretare il mondo, i suoi qualia che possono apparire diversi a seconda di dove il soggetto sia situazionato. Si usa non a caso l’aggettivo situazionato e non posizionato, dal momento che si vuole indicare, fenomenologicamente, la collocazione densa e relazionale del soggetto con lo spazio, spazio dotato anche dei suoi inviti (affordances). La situazione è sempre avvolta da un alone, da uno sfondo con cui si confà, si fa-con, ovvero con cui si con-fonde. L’aggettivo posizionato, invece, allude alla posizione fisica e geometrica occupata da un soggetto in un determinato spazio.

Ciò implica che, trovandoci di volta in volta dinanzi a un complemento, noi non facciamo altro che situazionarci rispetto a uno spazio con il quale interagiamo e che, di conseguenza, modifichiamo e ne siamo, a nostra volta, modificati interpretandolo. Se per Sabatini la frase “è meno stancante viaggiare in treno” genera equivoci se la si analizza secondo i criteri dell’analisi logica, si potrebbe ugualmente affermare che tale modello di analisi, l’equivoco stesso, generi ricchezza. Il complemento “in treno” sarà interpretato a seconda della modalità relazionale che il soggetto ha con lo spazio, dal suo contesto, dal suo tessuto situazionale, dal come il soggetto interpreta “il viaggiare”: se come processo che avviene in uno spazio (e allora si avrà un complemento di luogo) o come processo che avviene attraverso un mezzo o, ancora, come processo che indichi una modalità del viaggiare (e allora si avrà un complemento di modo). Qualora lo studente riesca a individuare più possibilità espressive di un complemento non avrà fatto altro che esercitare la sua capacità critica, di astrazione rispetto alla situazione nella quale lo colloca la frase ed è collocato ancora prima che la frase prenda vita.

Potremmo quindi dire che i complementi fungano da operatori estetici nella misura in cui si passi da una realtà statica a una dinamica e da due realtà a una realtà. Ciò avviene perché, nel momento in cui abbiamo una situazione del soggetto rispetto alla situazione della frase, abbiamo un soggetto dinanzi al suo orizzonte di attesa, a un suo sfondo che, ad un certo punto, entra in relazione con un altro orizzonte, con un altro sfondo, quello della frase. Nel momento in cui il soggetto compie un atto di interpretazione, il suo orizzonte di attesa si espande (gli stessi complementi nell’analisi logica sono chiamati espansioni) e si fonde con l’orizzonte della frase stessa, caratterizzata dal suo essere un enunciato sospeso, a sua volta, “tra” una maiuscola e un forte segno di interpunzione. Il soggetto-studente-docente entra così in relazione con una nuova modalità di percezione rispetto alla sua situazione di partenza, mentre la frase appare anch’essa usurata e modificata dopo l’interpretazione che ne dà il soggetto che la legge e le dà vita (una frase non vive se non viene enunciata da qualcuno, resta piuttosto solo segno sulla pagina): la sua forma e il suo senso ora possono essere nuovamente variati e può ri-iniziare il circuito ermeneutico in cui siamo immersi. Se lo studente, ad esempio, riterrà opportuno far prevalere il valore logico-strumentale del complemento “in treno”, potrebbe anche ripensare e quindi riscrivere la frase così: “è meno stancante viaggiare con il treno”.

Studente e frase ora sono entrati in relazione tra loro, generando nuovi sensi logici, aprendo nuovi orizzonti interpretativi: il complemento potremmo dire che, in quanto operatore estetico, ha fatto sì che si sia passati da una realtà statica e duale (la situazione del soggetto e la situazione della frase) a una realtà dinamica e relazionale riportata ad unità (la situazione-del soggetto-con la frase.)

Nell’esperire com’è il mondo, l’analisi logica con i suoi complementi esercita un sapere estetico, percettivo, di relazione con il mondo: ci fa vedere il mondo. Calvino scriveva: «Quando tutto avrà trovato un ordine e un posto nella mia mente, comincerò a non trovare più nulla degno di nota, a non vedere più quello che vedo. Perché vedere vuol dire percepire delle differenze» [12]. Soffermiamoci sulle parole di Calvino e, in particolare, sulla parola “ordine”: quando analizziamo la frase secondo il modello valenziale, stiamo mettendo appunto “ordine” a quella che abbiamo detto essere la struttura architettonica della frase, tuttavia non ne vediamo l’interno, com’è fatta questa architettura. Se analizziamo, infatti, secondo il modello valenziale la frase proposta da Sabatini “mangio due uova al tegame”, vedremo come “mangio” sia un verbo bivalente i cui argomenti sono l’io sottinteso (quindi l’argomento soggetto) e “uova” (l’argomento oggetto diretto): il nucleo della frase è completo. “Due” e “al tegame” sono, secondo il modello valenziale, circostanti esclusi dal nucleo ma in rapporto al suo argomento oggetto diretto. Immaginiamo ora di trovarci dinanzi a qualche neofita dell’italiano o a un bambino che chiede: «cosa significa l’espressione “al tegame”? Indica il luogo dove si trovano le uova (il tegame) oppure è una modalità del prepararle?»

Sostanzialmente ci troviamo di fronte a un circostante del verbo, “al tegame”, di cui non sappiamo dire più nulla, nemmeno se esso sia un argomento oggetto diretto/indiretto del verbo: conosciamo la sua funzione nella dinamica dell’edificio-frase ma non come esso sia. Ne consegue che ci troviamo in una situazione di sfondo opaco, in cui non ci è dato vedere l’edificio, i suoi colori, il suo modo di essere: non vediamo l’edificio, non vediamo il mondo che ci circonda e, ancora peggio, non vediamo le differenze che possono esserci tra un edificio e un altro. Se infatti analizziamo secondo il modello valenziale la frase “mangio due uova nel tegame”, cosa cambia dal punto di vista strutturale rispetto alla precedente? Nulla: abbiamo lo stesso nucleo e gli stessi argomenti. Se invece applichiamo il modello dell’analisi logica, forse potremmo iniziare a ragionare per differenze: “al tegame” forse indica più una modalità del cucinare le uova (si tratterà forse di un complemento di modo), mentre “nel tegame” indica l’oggetto dove io sto mangiando” (si tratterà forse di un complemento di luogo). Ciò che cambia è la percezione che ora abbiamo dello stesso tegame, le diverse visioni che possiamo avere dello stesso oggetto perché legate ad esperienze qualitativamente diverse: l’azione che io compio è la stessa (mangiare), l’esperienza estetica che io faccio è diversa (dal momento che se io mangio due uova al tegame non è detto che le mangi nel tegame, ma che sicuramente sono state preparate nel tegame).  Se quella che chiamiamo azione è vincolata e parte dal verbo, l’esperienza che ne risulta dipende, invece, dai complementi che la costituiscono: per questo è un’esperienza estetica qualitativamente diversa.

11 Se la grammatica valenziale ci offre un modello di struttura articolata secondo una spirale centrifuga (si veda come immagine di riferimento la figura accanto) al cui centro sta il nucleo e al cui esterno troviamo le espansioni, l’analisi logica ci offre, invece, un modello di struttura centripeta, in cui abbiamo un centro gravitazionale sempre occupato dal verbo, motore della frase con le sue espansioni: i complementi. Tali elementi completano il verbo, e si andranno a situare da un livello sempre più esterno, che prevede un massimo di “espansione” a un livello sempre più interno che prevede un’espansione sempre più ridotta mano a mano che ci avviciniamo al centro, quindi al verbo. Osserviamo la figura sottostante.

12Osserviamo la spirale che si dirige sempre più verso il centro e immaginiamo il verbo al vertice di questo centro, mentre i complementi come le spirali che si muovono, di volta in volta, verso il verbo. Immaginiamo anche la nostra spirale come la base di un cono (che chiameremo cono logico) che si assottiglia sempre di più via via che ci avviciniamo al centro. La spirale assottigliandosi va a costituire fasce circolari (pensiamo al modello delle orbite attorno alle quali ruotano i pianeti) di dimensione variabile nelle quali inseriamo i complementi: ne consegue che le spirali (i complementi) poste vicino al vertice del cono (il verbo) saranno collocate in una posizione di minore profondità. Qui, ovvero subito dopo il verbo, prendendo sempre in considerazione la frase precedente (“mangio due uova al tegamino”), andremo a collocare il complemento oggetto in questione “due uova”, mentre “al tegamino” andrà ad occupare una posizione di maggiore lontananza dal verbo e quindi di maggiore profondità rispetto ad esso: i complementi andranno, progressivamente,  ad espandere il verbo e il lettore dovrà essere sempre più bravo, di volta in volta, a scendere a livelli di realtà sempre più profondi.

Questa profondità strutturale coincide con una profondità di pensiero, di espansione dello stesso pensiero (alludendo al cono logico e al suo volume, potremmo parlare di capacità di pensiero, dilatazione nel suo profondo), non a caso, per quel che concerne l’analisi logica, parliamo di complementi accessori: non strettamente necessari per completare il senso della frase, ma in grado di espanderne, di dilatarne il senso, di scavare nel profondo della frase stessa. La spirale dell’immagine sopra riportata presenta inoltre delle microtessere policrome: ciò sta ad indicare le potenziali sfumature di senso (equivoche) contenute nei complementi, oltre che indicare come una frase sia costituita da più elementi che le conferiscono del colore: gli avverbi, gli aggettivi … La spirale a tessere policrome sopra rappresentata vuole, al contempo, rendere macro- e microstruttura della frase. L’uso di un colore rispetto ad un altro ad esso contiguo spesso in modo complementare non è altro che un accostamento che mira a sottolineare analogie e differenze, proprio come lo è una parola rispetto ad un’altra, un complemento rispetto ad un altro complemento o un aggettivo rispetto a un sostantivo e così via: riusciamo così a percepire per differenze: riusciamo, calvinianamente, a vedere.

13 14Se osserviamo le immagini qui accanto, troviamo due esempi di figure che rendono la macrostruttura del cono logico con le sue spirali-bande: in quella di sinistra abbiamo una visione dal basso delle bande colorate del cono nelle quali possiamo inserire i complementi, in quella di destra le bande nere rendono la struttura tridimensionale del solido in cui i complementi-bande si dispiegano da un vertice verso il basso, raggiungendo, via via che si avvicinano alla base, una maggiore profondità.

Potremmo quindi dire che l’analisi logica, a differenza della grammatica valenziale, non resta in superficie, ma scende nel profondo della frase espandendola nel suo dentro, per questo non le si può muovere la critica di non avere una struttura: semplicemente si tratta di una struttura diversa da quella valenziale, proprio come edifici diversi hanno strutture diverse. La differenza è, come dicevamo, che l’analisi valenziale si ferma all’involucro esterno della frase, ci dà lo scheletro dell’edificio senza farci entrare dentro l’edificio, cosa che fa invece l’analisi logica: l’analisi valenziale è orizzontale e, potremmo dire bidimensionale (si espande nello spazio ma resta in superficie secondo il modello centrifugo che prevede una dispersione orizzontale dei suoi elementi), l’analisi logica è verticale e tridimensionale (si espande nello spazio e va in profondità secondo un modello centripeto che prevede un accentramento e una concentrazione verticale dei suoi elementi). Il fatto di possedere due strutture rappresentative diverse, fa sì che si abbiano cognizione diverse di quella che è la struttura grammaticale di una lingua appunto.

L’analisi valenziale, pertanto, rappresenta indubbiamente un interessante approccio strutturale alla frase, un modo nuovo di percepire, vedere la struttura della frase, ma questo potrebbe essere fatto a più livelli da molte altre potenziali analisi. Indubbiamente l’analisi logica rappresenta un modello efficacissimo, che unisce sintassi (la struttura della frase) e semantica (i complementi della frase). Per citare il saggio di G. Matteucci, Estetica e natura umana, potremmo dire che mentre con la grammatica valenziale il soggetto esercita un “sapere che” e fa esperienza della frase, impara cos’è una frase, quale sia la sua struttura, con l’analisi logica lo stesso soggetto esercita “un sapere che congiunto a un sapere come” attraverso la frase con cui si fa esperienza. Il sapere come indirizza quindi ad un approccio estetico che apre alla percezione, alla differenza qualitativa e che permette di lavorare per analogie e differenze: si tratta, una volta entrati in possesso della struttura della frase, dello scheletro dell’edificio, di riempirlo, di connotarlo dentro, di scendere sempre più in profondità attraverso quelle che abbiamo detto essere le bande orizzontali del cono logico: per tale motivo il modello dell’analisi logica può essere ritenuto più completo ed esaustivo di quello dell’analisi valenziale.

Altro aspetto da considerare è la capacità di astrazione che generano i due modelli a confronto. Nel primo caso, quello valenziale, si astrae a partire da un cosa, dalla struttura stessa della frase: punto di partenza e punto di arrivo coincidono: avviene una scarsa metacognizione potremmo dire, l’attraverso coincide con la soglia stessa a cui approdiamo. Nel secondo caso, quello dell’analisi logica, si astrae a partire da un cosa congiunto al come: la struttura (i complementi ad esempio) congiunti al come essi sono (di mezzo, tempo, modo, luogo, etc…). Ciò che ne deriva è un approccio metacognitivo, dove il metà (μετά in greco può indicare proprio questo “con”, “attraverso” il quale avviene qualcosa), l’attraverso non coincide con la soglia di approdo, ma costituisce la funzione strumentale/modale attraverso la quale si verifica questo attraversamento della soglia di partenza (la struttura) per arrivare alla soglia di arrivo (il (meta)significato della frase). Scrive Merleau-Ponty:

«ma proprio questa è la virtù del linguaggio: ci rimanda sempre a ciò che significa e, compiendo questa operazione, si dissimula ai nostri occhi; esso si afferma nello stesso momento in cui si cancella e così facendo consente di accedere al pensiero stesso dell’autore al di là delle parole, in modo che finiamo per credere di esserci intrattenuti con lui senza proferir verbo, da mente a mente. Le parole, una volta raffreddate, ricadono sulla pagina come semplici segni e, proprio perché ci hanno proiettato così lontano da loro, non riusciamo a credere che a partire da esse abbiamo elaborato tanti pensieri. Eppure sono loro che ci hanno parlato, durante la lettura, quando, sostenute dal movimento del nostro sguardo e del nostro desiderio, ma anche sostenendolo a loro volta e rilanciandolo senza errori, rifacevano con noi la coppia del cieco e del paralitico, quando erano grazie a noi e noi eravamo grazie a loro, parola e linguaggio, e insieme la voce e la sua eco»[13].

Le parole, i segni grafici della frase e, potremmo dire, anche la struttura stessa della frase, lasciano il posto al significato che quella frase allora assumerà per noi: il significato trascende, va oltre il segno o, nel nostro caso, la struttura stessa della frase. Per tale motivo avviene una metacognizione nel momento in cui il lettore opera, durante l’atto del leggere, un approccio estetico al testo: si trascende cos’è il testo, la sua struttura, quella delle sue frasi. Il “cosa” si fa “come” ed è in questo scarto, passaggio infinitesimale e impercettibile di soglia che prende corpo il luogo dove avviene l’astrazione. L’analisi logica, in questo senso, non coincide con la lettura estetica del testo, ma può esserne strumento, nella misura in cui produce delle percezioni di differenze qualitative tra gli elementi che compongono la frase. E ancora: come può una lettura estetica, che pertiene all’ambito della percezione del qui e ora, generare astrazioni, concetti? Tutto ciò non è contraddittorio nella misura in cui per concettualizzare figure di pensiero bisogna prima partire dall’esperienza del qui e ora, del come è possibile concettualizzare il cosa.

Ancora oltre, potremmo dire che, nel momento in cui il significato trascende il significante, nel momento in cui il senso va oltre il segno, non abbiamo soltanto una metacognizione legata alla percezione data da quegli stessi segni, bensì su una data percezione estetica si possono innestare altre percezioni estetiche, in base a quello che Heidegger definiva la capacità della parola di aprire, di disvelare  l’ἀλήθεια (alètheia) del mondo che, etimologicamente e litoticamente, significa “non nascondimento”, “verità”: la verità diviene quindi un “non nascondimento”, “una non velatezza”. Ed è forse da questo potere evocativo della parola, questa capacità di divenire operatore estetico che apre ad altre percezioni, ad altre parole, che nasce la ποίησις (poíesis), il fare con arte, la poesia.

La letteratura è quindi questo cosa (le parole, la struttura della frase) che si fa come, è uno spazio che si dispiega a partire da uno spazio pre-liminare, uno spazio in cui il come è la soglia d’accesso: è infatti dall’esperienza sensibile che nasce, cresce, si nutre, si dispiega la poesia, dalla nostra relazione con le cose del mondo che sono, a loro volta, in rapporto con il mondo. Fare letteratura, poesia, è un po’ questo togliere il velo di Maya alle cose ed esplorarne i rapporti, la loro relazione in rapporto a quelli che sono la lingua, le parole, la struttura; il tutto lo si fa però in una dimensione traslata, che va oltre il normale impiego che noi facciamo della parola stessa di cui spesso cogliamo una scia, un’anticipazione, una sillaba.

Analizzare un testo secondo i meccanismi dell’analisi logica, potremmo dire che è il contrario di fare poesia dal momento che potremmo considerare la poesia come un porre insieme, una sintesi di più elementi posti in una determinata disposizione di insieme. Tuttavia, come dicevamo, l’analisi logica fornisce quegli operatori estetici, quei meccanismi di analisi che aprono alla percezione, al testo, alla parola. Fare analisi logica non coincide affatto con il fare poesia, bensì può essere funzionale al fare poesia.

Ciò che consegue da questo infinito processo di lettura della prosa del mondo dalla quale muoviamo e della quale partecipiamo è, dunque, questa duplice osmosi tra noi e le parole, tra noi e le strutture stesse del nostro dire, in un rapporto di reciproco scambio tra le parti: «le parole erano grazie a noi e noi eravamo grazie a loro» scrive Merleau-Ponty.

«le parole, nell’arte della prosa, trasportano chi parla e chi ascolta verso un universo condiviso, ma lo fanno trascinandoci con loro in direzione di una nuova significazione, tramite una potenza di designazione che oltrepassa la loro definizione o la significazione ricevuta e che si è depositata in esse e tramite la vita che hanno condotto insieme a noi»[14].

In un mondo complesso e difficile da decifrare, l’esercizio dell’analisi logica eviterebbe questo perenne restare in superficie rispetto alle cose, al contrario consentirebbe di analizzarle e discioglierle dal di dentro, nel loro come più profondo, nel loro essere relazione-con-il-mondo del cui spettacolo noi stessi, con la nostra mente merleau-pontianamente estesa, partecipiamo.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] I. Calvino, Palomar, Mondadori, Milano, 2014: 101.
[2] J. Dewey, Arte come esperienza, trad. a cura di G. Matteucci, Aestetica, Palermo, 2018: 47.
[3] Ibidem.
[4] M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, Mimesis edizioni, Milano, 2019:98.
[5] Ivi: 43-44.
[6] A tal proposito si veda la differenza tra “esperienza-con” ed “esperienza-di” dal punto di vista fenomenologico, illustrata da G. Matteucci in Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, Carocci, Roma, 2019.
[7] G. Matteucci, Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, Carocci, Roma, 2019: 80.
[8] Di Francesco Sabatini, relativamente alla grammatica valenziale, si veda Sistema e testo. Dalla grammatica valenziale all’esperienza dei testi, con Carmela Camodea e Cristiana De Santis, Torino, Loescher, 2011.
[9] F. Sabatini, “Che complemento è?”, in «La Crusca per voi», 28 Aprile 2004: 8,9.
[10] Ibidem.
[11] Si ci riferisce qui, in particolare, al concetto di atmosfera dal punto di vista neofenomenologico: le atmosfere sono i sentimenti effusi nello spazio circostante, con le quasi-cose da cui sono costituite ed espresse. Si legga a tale proposito Schmitz, Nuova Fenomelogia, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011; T. Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari, 2010; T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, Mondadori, Milano, 2013; T. Griffero, Il pensiero dei sensi, Atmosfere ed estetica patica, Guerini e associati, Milano, 2016; G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, L’estetica come teoria generale della percezione, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2010.
[12] I. Calvino, Collezione di sabbia, Garzanti, Milano, 1984: 158.
[13] M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit.: 50.
[14] ivi: 123.

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Clarissa Arvizzigno, ha conseguito una laurea triennale in Lettere (curriculum classico) presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Riflettere-riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora serrata retinae. Studiando il ruolo della vista come strumento fenomenologico per la conoscenza del reale, si è occupata di Italo Calvino e Valerio Magrelli esaminandone analogie e differenze soprattutto in chiave estetica. Successivamente ha conseguito la specialistica in Italianistica presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sull’opera di Caproni letta in chiave neofenomenologica. È impegnata in ricerche su temi di estetica e di letteratura comparata. Ha collaborato con alcuni portali antimafia online: www.liberainformazione.org , www.antimafia2000.com, www.corleonedialogos.it.

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