di Franca Bellucci
Anni, questi, che sembrano una faglia nel tempo: nella linea che disegnavamo progressiva nel tempo. Pure, irrompe la partecipazione, dopo la sosta imposta dalla pandemia: si dispone di strumenti più efficaci, ci si esprime con gli stili più vari. Un circuito, tuttavia che appare disuguale, febbrile, tra slanci soste innovazioni. Io pure so di essere parte del circuito disuguale, nel momento in cui osservo e appunto le coincidenze delle notizie.
Questa, per esempio, mi pare una novità rilevante da approfondire: c’è un giro di memorie intorno a Lemno, la piccola isola greca, oggi un po’ defilata dai circuiti vacanzieri. Ma sono io che sovrappongo questo nome, completando frammenti che mi giungono da eventi culturali diversi di cui vengo informata. È un mio antico esercizio interrogare le parole. E nel caso, appunto, a Lemno risalgo. Gli strumenti che mettono a pronta disposizione risposte oggi sono di facile consultabilità: non sempre esaurienti, e da interrogare, per raggiungere, in certi settori di notizie, le risposte pertinenti.
Questa particolarità, ora, di riferirsi involontariamente a Lemno, mi appare un po’ un trend: mi annoto, riproposto da più punti di vista, il Filottete di Sofocle, che ha come scena Lemno; prendo nota inoltre – è una notizia locale che mi raggiunge – che è attribuito il nome di “lemniscata”, che propriamente vale “tipico di Lemno”, a un percorso, proposto per passeggiate d’arte e natura. Nel caso, si definisce la forma geometrica di tali passeggiate in campagna, a forma cioè di quell’elica sbilanciata, che il sole percorre nell’anno. È questa che si definisce con il termine di “analemma” o, appunto e specifica, “lemniscata”. La parola viene presentata come una curiosità: si sa che quello del sole è un moto perpetuo, e in questo senso si sente affinità con opere, già presenti in letteratura e in musica, che giocano con moduli ripetuti, evocando l’infinito come ambiente ordinato.
Quanto al riferimento a Lemno, cui mi porta l’indagine delle parole, nessuno è consapevole. Mi riprometto di ritornarci cercando in particolare sul dizionario di latino tracce di oggetti antichi. Lemno, l’isola greca, riferimento oggi un po’ defilato, ha consistenza culturale tra l’oggi e l’antico più lontano, nel Mediterraneo e nella regione che salda Europa e Asia, sulla linea del classico e del preclassico. Erodoto la presenta come vicina a Atene da Milziade in poi. Intanto la metto a fuoco dal punto di vista geografico.
Dopo l’occhiata sulla carta che osservo in internet, preferisco riguardare la carta, che ha per tema “Graecia”, che, appesa a una parete di casa, è oggetto familiare. Un capitolo pertinente sarebbe ricostruire la forma dell’isola nel tempo: come si sia modificata, se questo è accaduto, nel tempo. La zona, infatti, è sismica, e l’isola ha avuto culti specifici per divinità di vulcani. La carta che osservo, però, non arretra di molto nel tempo. È il 1637 la data della stampa, e dell’anno precedente la dedica dell’autore, Nicolas Abbeville, cartografo sotto Luigi XIII e Luigi XIV: i toponimi sono quelli in uso allora in Occidente e riferiti in lingua latina. Tanto basta per ricordare che ogni tipo di scambio nel Mediterraneo di allora teneva conto di assi egemonici presenti nel Mediterraneo. C’era una certa convenienza comune, si può dire occidentale, per potenze come Venezia, la Francia, Napoli legata alla Spagna, che con l’Impero Ottomano, regolatore di molta parte del Mediterraneo, animava traffici, ma anche scontri. A quella data, appunto, Grecia e Lemno facevano parte dello Stato ottomano. E se una porzione della Grecia fu riconosciuta Stato indipendente dal 1832, con ulteriori rivendicazioni inseguite in tutto il XIX secolo, le isole egee, ancora interne al dominio turco all’inizio della Grande Guerra, furono pienamente coinvolte in quel conflitto e nell’appendice degli scontri per l’insoddisfazione della pacificazione, fino al 1924.
Osservo dunque, sulla vecchia carta, Lemno, nell’Egeo settentrionale, che qui ha nome Mare Macedonicum, che a ovest aggetta sul golfo Strimonicus, all’altezza del monte Athos, e a est ha vicina l’isola Imbrus e l’Asiae pars. Avrebbe forma compatta, come un tassello di puzzle, non fosse per le due profonde insenature, allineate a nord e a sud nella parte orientale. I nomi, qui non riportati, sono oggi Purnias, un po’ più piccola, a nord, e a sud invece, più grande, Mudros. Nella grande guerra questo golfo è stato un punto cruciale. Se scorriamo foto in internet, vediamo per l’epoca l’ospedale da campo francese, poi le navi della coalizione inglese, nello specifico fornite dall’area Australia-Pacifico. “Armistizio di Mudros” si designa quello del 30 ottobre 1918, con cui l’impero turco, che faceva parte del fronte avverso alle forze appena menzionate, uscì dalla guerra. Nella mia carta non sono riportati i segni orografici interni, non i tre laghi salati, Chortarolimni, Asprolimni, Aliki, che movimentano la costa orientale. Sono menzionati i due centri, Ephestias e Myrrhina.
L’oggetto “isola di Lemno” ora mi è più chiaro; tuttavia le annotazioni non rendono ragione delle vaghe permanenze memoriali, testimoniate dagli eventi culturali che mi sono stati comunicati: che, per altro, si ignorano del tutto tra loro. In comune hanno però l’attenzione ai messaggi di vita. L’appuntamento di “lemniscata” come passeggiata collettiva, adeguatamente predisposta, per azioni d’arte ad opera di artisti preparati, indica la forma di un sentiero, insieme alludendo a una interazione con quello spazio, in un’area accessibile che viene indicata nella locandina di avviso, che si avvolge e riporta al punto di partenza. Artisti e artiste partecipanti faranno un loro intervento, inteso a cogliere e incentivare, almeno contagiando di stupore gli spettatori: chissà, forse cogliendo tracce di passaggi, di affacci di animali, o rifugio di bozzoli, o inseminazione spontanea di vegetali. Certo, il senso è quello di rafforzare la consapevolezza dell’impatto che gli usi umani hanno in modo crescente sulla natura, nella prospettiva di alleggerirlo. Ma anche il riuso del dramma antico, nella Lemno evocata dal nome di Filottete, se anche trascura il preciso contesto di Sofocle e della creazione che egli fece quasi nonagenario, parla di vita e di salute. L’eroe è malato e solo di fronte alla malattia: si vuole fomentare la solidarietà intorno a lui e ad ogni stato di difficoltà, nella vita complessiva di cui l’uomo fa parte.
Perché è stata scelta la parola “lemniscata”? Cerco di spiegarmelo. È nel caso sostantivo femminile, direi, sottintendendo “linea”, come vale per la “curva a forma di otto orizzontale”, che è un oggetto della geometria algebrica, studiato in particolare nella scienza di età moderna, che ha continuato le indagini già rinascimentali. Il simbolo, trovo ancora ricorrendo a internet, si afferma nel corso del XVII secolo, ben presto riferito al concetto di “infinito”: in particolare lo adottò Jacob Bernoulli per la variante dell’ellisse, definita dai punti per i quali il prodotto delle distanze dai fuochi è costante; leggo che ne è evidenza il disegno del percorso compiuto dal sole nell’anno, in un dato punto geografico: una specifica meridiana, che, se disegnata, lo indica preventivamente. Ma devo abbandonare un ambito per me estraneo: ricordo di avere ammirato, in una visita a Oderzo, la bellezza della piazza Grande, pavimentata così da rappresentare appunto quel percorso, come effetto estetico ottenuto da una geometria che non praticavo. L’orologio solare era conosciuto nella civiltà greco-latina, ma, se consideriamo i residui finora noti, avendo forma diversa: in Vitruvio troviamo “analemma” per indicare l’area piana in cui si proietta l’ombra dello gnomone.
Il termine lemniscatus, presente tra i termini antichi, a giudicare da un buon dizionario di lingua latina in uso, sembra giustificato in questa lingua, indicando un valore sentito nell’area culturale di Roma: “ornato di lemniscus”, termine che indica il «nastro attaccato alle ghirlande in segno d’onore» [1] cioè, risalendo all’attestazione più antica d’epoca plautina, una particolare decorazione significativa per la comunità: il tipico fiocco decorativo nella corona meritata dagli atleti. Inevitabile collegarlo a Lemnos, tramite il suffisso che indica appartenenza-somiglianza. Certo è una parola con una sua stabilità: “lemnisco” è termine tecnico durevole nel lessico della decorazione architettonica, a indicare il fiocco, il nastro ornamentale, dipinto o in stucco. E grande stabilità ha pure nell’uso attuale: è la fascia d’obbligo sulle corone commemorative nelle celebrazioni ufficiali. La parola in greco, limitandosi pure ad un dizionario diffuso, indica oggetto simile, “piccola fascia, benda”, ma non solenne; divenuto una lineetta con due punti simmetrici a metà, acquista, in epoca tardoantica – l’uso è attestato dal IV-V secolo [2] – un significato tecnico, ma in ambito diverso: nella filologia testuale indica l’esistenza di varie traduzioni per uno stesso concetto.
La suggestione che ne consegue è che in parte il riferimento a Lemno presso la comunità italico-latina non dipenda interamente dalle esperienze trasmesse attraverso le comunità dei Greci; che, in particolare, segnali un riferimento all’ambito sacro desunto da contatti provenienti da altre vie. Sembra di percepire, appunto, segni sottili, eppure significativi e tenaci, di un legame con la piccola realtà insulare lontana: un fatto culturale avvertito, pure non ancora interpretato in segni costituiti. La ricerca archeologica italiana ha in Lemno un’importante sede d’indagine dal 1926, non tanto collegata a indagini sugli Etruschi, benché in questo settore sia stato importante il ritrovamento nel 1885, nella località di Kaminia, di una stele con un testo prossimo all’etrusco, che molto è stato studiato. Gli scavi più continui riguardano l’ambito della grecità, affidati al comparto della Scuola archeologica italiana d’Atene. Buone sintesi delle ricerche e delle ipotesi ricostruttive troviamo nell’Enciclopedia Treccani, fino dal 1933 e con aggiornamenti, oggi on line [3]. All’altezza del 1966 è esauriente per il campo artistico, nella specifica Treccani per l’arte antica, l’articolo firmato da L. Bernabò Brea [4]. Avvertendo che reperti greci risalgono fino al VI sec. a. C., l’informativa ammette che nella protostoria l’isola non fosse greca «per lingua e civiltà», disponendosi a ulteriori ipotesi su accertamenti futuri. Per altro l’attenzione a informare secondo anche gli sviluppi delle discipline e della ricerca può generare nei siti dell’Enciclopedia pagine tra loro contrastanti. Per esempio l’articolo del 1932 per il lemma “Etruschi”, curato dagli specialisti di antichità Aldo Neppi Modona – Giacomo Devoto – Nicola Turchi – Pericle Ducati – Secondina Lorenzina Cesano [5] informa ancora della tesi, qui data decisamente come sostenibile, dell’autoctonia, per l’origine degli Etruschi.
La permanenza del termine “lemnisco” è un fatto culturale indipendente dagli accertamenti archeologici noti. L’impressione di un riferimento forte, ma d’altro ambito, viene piuttosto dalla lunga permanenza, malgrado non si mettano a fuoco appigli decifrabili. Conviene comunque esplorare i vari significati odierni, sull’apposito sito Treccani [6]. Leggendolo, infatti, vediamo che sono quattro i campi d’impiego: sono ammessi come collegati, costituendo un unico campo, i due sopra indicati, del riconoscimento d’onore agli atleti e della decorazione fissatasi in arte, mentre viene distinto, con le diverse varianti possibili, il segno impiegato in bibliografia.
Ma vi sono altre due occorrenze, riguardanti l’anatomia: nello studio degli animali, per una escrescenza con doppio globulo, sulla cui funzione si studia; l’altro, che riguarda il corpo umano, e concerne l’anatomia del sistema nervoso centrale. La considero una interpretazione della scienza attuale. Ritenere che la nomenclatura dei viventi comporti serie estranee, per i termini utili all’uomo e per quelli degli “altri” esseri viventi, già rincara l’apprezzamento per lo spirito con cui si realizza la lemniscata degli artisti: bene includere nel concetto di “ambiente” quanti più agenti possibile. Certo, la ricerca sul corpo vivente è un capitolo in grande sviluppo nell’attualità. Da quando? Anche per avanzare su questo terreno ho bisogno di compulsare qualche sito: cerco infatti gli scienziati cui risale la fase della denominazione. Naturalmente, non mi avventuro troppo su questo terreno, riconoscendo che non ho familiarità con il sistema generale del vivere e del sopravvivere, al di là della premessa. Tuttavia mi rendo conto che gli studi sul corpo umano appartengono all’ambito della “somatoestesia”, come mi accerta un’altra serie della Treccani, l’Enciclopedia on line con data 1982, con articolo a firma di Vernon B. Mountcastle [7]: qui “lemniscale” torna più volte, in diverse descrizioni, studiando le fibre per la trasmissione neurale. Sono, questi, studi che si sono raffinati di recente, diciamo nelle condizioni della scienza nel XX secolo, beneficiando di strumentazioni sempre più precise, ma anche di applicazione sempre più particolareggiata, minuta, accompagnata da occasioni di comunicazione confrontata, convergente: ma che hanno bisogno anche di ampliare il lessico. Pertinente allora è uno studio su «sette termini neuroanatomici: fimbria, velo, funicolo, lemnisco, corona, splenio e cingolo». Ci si riferisce allo studioso inglese Henry Gray, in un lavoro del 1918, in cui la terminologia è attinta da abiti, gioielli, ornamenti romani, che esercitavano attrattiva sui soldati. Riprendere termini romani per applicarli alla scienza si inserisce nel cammino della scienza moderna, quale, sviluppatasi con i ricercatori, in scienza e arte, specialmente dal XIV secolo, è stata messa a punto nell’Europa dell’età che definiamo “Moderna e Contemporanea”. E, se questo è il metodo con cui si sono prodotti i nomi per l’anatomia umana, non sarà altra cosa la standardizzazione del termine per l’apparato animale: il riferimento è comunque al nastro degli atleti romani.
In tutto questo, comunque, colpisce la persistenza di un termine, perché percepito importante osservando l’ambito d’uso, fino a assumerlo e moltiplicarne gli usi per analogia, senza percepirne distintamente il percorso. Potrebbe essere ancora approfondita l’insistenza a osservare l’anatomia contemporanea secondo l’immagine, sembrerebbe, di ambito romano: si riprende il doppio nodo fibroso del lemnisco, quasi imponesse venerazione l’uso, che si osserva anche negli imperatori, per i loro sigilli e per le monete. La fascetta continua dei Greci, la “tenia”, infatti sembra oggetto diverso: ripresa, è vero, anche questa in biologia, per forme viventi decisamente diverse. Anche noi confermiamo che questo segno ci appare importante: l’indagine resta aperta, ma si coglie una relazione di tipo sacrale; e sembra collegare proprio i parlanti in lingua latina, con Lemno, o con un riferimento geografico che da Lemno debba passare.
Le menzioni di Lemno come residuo di saghe antichissime che sfumano nel favoloso e si riferiscono a civiltà scomparse ha pagine importanti, a partire dall’epos: i poemi di Omero e il ciclo epico, ricostruibile per frammenti e fonti indirette. In questa storia culturale è stato importante il clima di ricerca che si sviluppò, per opera dei Tolomei, nella Biblioteca di Alessandria. Molti degli autori formatisi in tale temperie operarono recupero di tradizioni mediterranee diverse o complementari rispetto a quelle di epoca classica. In particolare Lemno, citata per il culto di Vulcano e per quello di Dioniso e Arianna, costituiva una tappa nella saga degli Argonauti, rinnovata in Apollonio Rodio, che attribuiva all’isola una civiltà basata sul dominio delle donne. Le ricerche e le narrazioni alessandrine furono sensibili alla salvaguardia di tradizioni anche periferiche, mosse anche dal gusto prezioso della glossa residua. I ricercatori indagavano le culture con orizzonte ampio ma con un loro specifico gusto: capitoli di indagine sulle antiche combinazioni di civiltà potrebbero aggiungersi, da ricerche ulteriori e di diversa impostazione. Sta al livello attuale di organizzazione culturale sondarle, avvalendosi di accertamenti oggi possibili.
Quella che, intorno a rappresentazioni di uomini e donne “lemniscati”, accertiamo come consapevolezza di avere il segno del pubblico riconoscimento, induce a riflettere sulla coesione della comunità nel livello sacrale. Intendo cioè quello che indica continuità e salvezza collettive, forse in equilibri in cui la vita, per il nostro punto di vista, sarebbe non visibile, o nascosta, o sospesa. Nella proposta della lemniscata d’arte si verifica una ricerca di vitalità e creatività: pensare a segni attentamente selezionati che si dispongano sul percorso della tradizione indica il contributo a misurarsi con il complesso che designiamo “vita”. È un tema importante, anche necessario oggi. Spesso lo trascuriamo per dichiarata negligenza, ma, anche quando affermiamo di curarlo, per superficialità e per insipienza lo mettiamo a rischio. C’è una cultura specifica da organizzare per misurare dove e come sia possibile operare. L’arte e il confronto delle intenzioni sono buon avvio a fare della vita complessiva il tema presente e primo.
Le pièces teatrali che, in varie esperienze, propongono Filottete mostrano con dichiarato proposito di affrontare il tema della vita e della salute minacciate: è su una sfera in cui prevale il livello umano che si concentrano, sull’uomo malato e abbandonato, e sull’ambiente in cui la sua vita è condizionata. Chiaramente, è l’ondata di emozione per la pandemia che si è abbattuta sul mondo che dà centralità all’antico personaggio, appunto malato e solo, unico umano a Lemno. Subito nel 2021 Enrico Testa, tempestivamente, fece di Filottete un pamphlet socio-politico, nell’Isola disabitata presentata al Metastasio di Prato, dove la vicenda del personaggio rappresentava lo specifico del potere politico. Sappiamo che l’eroe, di cui narrava il “Ciclo troiano”, estromesso durante la navigazione eppure essenziale per la conquista di Troia, era stato rappresentato dai tre grandi tragici, ma resta solo l’opera di Sofocle: di fatto il suo testamento, composta all’età di 87 anni. Sappiamo che sia Eschilo sia Euripide avevano rappresentato Lemno come luogo popoloso, quindi diverso doveva essere il disagio dell’eroe. Invece l’ambientazione sofoclea è desolata: e questo è il topos che viene ripetuto anche nelle varianti personali degli autori successivi.
Pure le cronache degli spettacoli, qui in Italia, non mettono in scena l’opera del tragico ateniese, ma versioni e ambientazioni riferite all’attualità, oppure letture sceniche arricchite di vari confronti, come incremento di percorsi universitari: letture o sovrapposizioni di tesi di cui gli autori si assumono la responsabilità, con indicazioni esplicite. Tale l’allestimento a cura dell’Università della Campania, adattamento di Cristina Pepe e Massimo Santoro, che cita con il testo di Sofocle anche alcuni versi dal Filottete di Ghiannis Ritsos, e lo studio Dalla parte del teatro: i diversi punti di vista del Filottete, proposto da Marina Spreafico per il Teatro Arsenale di Milano. È una tournée ampia, in varie città d’Italia e all’estero, quella che sta conducendo il Teatro dei Borgia, testo di Fabrizio Cinisi, protagonista Daniele Nuccetelli, con il Filottete dimenticato, che accompagna il pubblico nell’abitazione disadorna dell’eroe giunto allo stremo, nel degrado seguito all’abbandono che lo ha reso inutile al convivere. La preoccupante, complessa situazione attuale è il riferimento esplicito, e precisamente formulata e firmata l’analisi.
Che in Italia sia messo in scena il Filottete secondo il testo di Sofocle è invece evento raro: a Siracusa non è stato più presentato dopo il 2011. Eppure l’opera di Sofocle, il cui testo è pressoché integro, è ben costruita, ricca di strumenti espressivi, efficace nella contrapposizione di personaggi compiuti, il giovane Neottolemo, l’intrigante Ulisse, infine il personaggio più complesso, il protagonista Filottete. Malgrado l’età avanzata di Sofocle, ovvero proprio per quell’età e quindi per l’esperienza personale in corso, il testo è lucido, nella misura specifica di Sofocle, che ama le tenzoni dialettiche. Alla fine la comparsa di Eracle come deus ex machina non solo porta alla soluzione prevista nel mito – poiché la presenza di Filottete è voluta dagli dèi per dare ai Greci la vittoria su Troia –, ma ristabilisce i valori morali. Rileggo ora l’opera, nell’edizione 2011 della Fondazione Lorenzo Valla.
Il testo presenta tardi il protagonista, Filottete: precede la costruzione dell’inganno, come ottenere che l’eroe sia portato al campo dei Greci, realizzando il desiderio di chi lo ha tradito e schiacciato. Domina Ulisse. Le tortuosità sprezzanti di costui, l’impaccio dell’adolescente Neottolemo costruiscono dialoghi che nascondono parte dei pensieri. Filottete, l’autore di una sfida a sopravvivere più abile di quanto i pure esperti capitani achei abbiano pensato, ma anche più sofferente, spiazza il giovane, che si disporrebbe a ubbidire a Ulisse, se non fosse sopraffatto dall’assistere e constatare. La circostanza, il fatto che si palesi intera la miseria dell’uomo allo stremo, anestetizzano la volontà di Neottolemo. Tanto è rapido Ulisse, il guitto, a assumere maschere funzionali al momento, quanto si dissipa d’energia il corpo dell’adolescente. La prima sua comunicazione autentica a Filottete, che, assalito ora dal male, lo interroga, vedendolo muto, giunge al v. 806: «Da un bel po’ la pena per le tue sventure m’ha annientato». È dalla sospensione del primato di Ulisse che prende le mosse lo svolgimento a ritroso, contrastato dal dramma verso lo scioglimento positivo: che è l’azione utile alla collettività, ma con il convincimento di ogni partecipante.
Ritrovo quanto, sul «Sole 24 ore» del 26 maggio 2011, scriveva il critico Giuseppe Distefano, quanto all’attualità del Filottete messo in scena a Siracusa: «Riecheggiano i grandi temi della vita umana: la sofferenza della malattia, la solitudine, l’incomunicabilità, la prepotenza del potere, la mortificazione degli innocenti». E forse, penso, è proprio questo effetto di attraversamento della coscienza che il Filottete produce, destando sulla contemporaneità versioni non edulcorabili, che, in una convivenza pubblica tanto abituata a travestimenti e ipocrisie, scoraggia la sua messinscena. Un effetto di attualizzazione che può essere scomodo.
Il testo del Filottete nell’età contemporanea, diciamo quella che dal XIX secolo a oggi crea lo spazio pubblico delle nazioni, si è dimostrato stimolante nella cultura odierna, in qualche modo riproponendosi negli autori eminenti, così da segnare passaggi e faglie nel tempo della contemporaneità: tempo davvero travagliato, per la produzione intellettuale che si proponga valore di testimonianza e di elaborazione originale e pensosa del bene pubblico. Abbiamo citato sopra Ghiannis Ritsos. Nella Storia della letteratura neogreca [8], opera attenta anche a inserire gli autori nella costruzione culturale della lingua neogreca, Mario Vitti puntualizza che Ritsos (1909-1990) si educa a esprimere «parole di fiducia nella vita» (ivi: 324) fino agli anni ’40. Poi, nella condizione che permase nel Dopoguerra confusa e per lui, segregato per quattro anni, insidiosa, la poesia diventò riferimento quotidiano, il commento del presente spesso ricorrendo al confronto con i classici. Dal deposito degli antichi trasse una serie di personaggi, tra cui Filottete nel 1963-65: un modo «per esprimere situazioni attuali, in particolare sentimenti di sfacelo e di logoramento, di precarietà, di resa all’inevitabile» (ivi: 341). In questo caso, l’ambientazione fu unica. Anche Lemno divenne “il palazzo diroccato”.
La figura di Filottete sollecita attualizzazioni. Nella reinvenzione degli autori d’età contemporanea, riflette la voce della coscienza, che svela l’intreccio profondo del sistema pubblico di convivenza. Lemno diventa dunque squarcio, che allo sguardo di ogni autore può mostrare, ormai senza orpelli, il disinteresse dell’altro, tramite quel segno forte che è «l’ambiente non messo in conto». La tresca, il verdetto di abbandono avvenne trascurando ogni indagine sulla vivibilità, pure fu imposta, questa ignoranza torturatrice, come capsula per il protagonista. Rimodulare il Filottete, dunque, dà l’occasione di fissare una specifica denuncia cui si attribuisce spessore storico. Così nella composizione del Philoctète ou le Traité des trois morales di André Gide, presentato a partire dal 1898 – nel periodo definito, in questo autore, “simbolista” – e poi rielaborato, prevale di vedere un riferimento, implicito ma operativo, alla condizione di prigioniero in Guyana di Alfred Dreyfus. Si ricorderà che “l’affaire”, l’accusa montata contro l’innocente Dreyfus, di spionaggio in favore della Germania, divise profondamente l’opinione pubblica in Francia, ma anche in Europa. La convivenza civile si rivelò, in Francia e non solo, ambiente fragile e manipolabile, mentre si ispessivano in chiave antisemitica il pregiudizio e le trame.
Un altro caso rilevante in cui l’eroe sofocleo diventa la decifrazione del cambiamento, è noto, fu il Filottete di Heiner Müller, che, dopo molti interventi, fu messo in scena nel 1968. Nel testo Lemno diventa un vestibolo oscuro e squallido, come un inferno dantesco, o una fabbrica. Importante il cambiamento di provenienza di Filottete: non più cittadino di Magnesia, nella penisola greca, come dice il mito, ma di Melo, la piccola isola vicina a Delo, di cui è noto, da Tucidide, il discorso di resa a Atene, nel 416 a.C.: «Per noi è molto difficile cimentarci con la potenza vostra e contro la sorte». Inevitabile la sottomissione alla superpotenza di allora, come, è questo il monito ben presente alla memoria, ad ogni grande potenza della storia. Infatti Filottete si dispone a adattarsi. “Sanguigno”, qualcuno ne definisce il temperamento: “abbrutito e anestetizzato”, io direi piuttosto. Egli giustifica, secondo una morale di “sacrificio”, la superiorità del gruppo rispetto al singolo. Il consesso umano semplifica la relazione con i singoli: indifferente rispetto all’invalidità. Resta dunque la situazione iniziale, quella che Sofocle ha registrato dal mito, con l’abbandono dell’eroe, senza attenuazioni.
A riprova della forza persuasiva di Sofocle, devo ammettere che anche per me ogni lettura del Filottete comporta una declinazione secondo il momento. In questo momento osservo in particolare, nel luogo di Lemno «non toccato da passi umani, disabitato» la caverna che Ulisse descrive nel prologo, prima che il coro entri in scena, cercando di identificarla con Neottolemo: «Una grotta a due uscite, dove c’è d’inverno duplice spiazzo al sole, d’estate la brezza pervade il traforo e porta il sonno. Poco al di sotto a sinistra dovresti vedere un’acqua sorgiva, seppure ancora zampilla» (ivi: 15). In effetti, inavvertibile, Filottete è in questo luogo dalle due entrate, quindi di ambiguità, dove si è destreggiato per dieci anni per schermare dagli assalti il corpo, quando la sorveglianza viene meno. È importante come, anche in altri passi, Sofocle descriverà il sonno, benefico e insieme disarmante.
Tra erbe e animali sconosciuti Filottete ha dovuto fare sperimentazioni e scelte, come fossero iniziali le conoscenze del mondo, per dare a sé la possibile cura. È il coro, anticipatore di Neottolemo nella disposizione alla pietà, che ne descrive l’infinita miseria: qui «lui stesso era il proprio vicino, immobile, nessun confinante alla sua sventura cui riversare il lamento… Non si cibava né del grano della sacra terra, né d’altro di cui ci nutriamo col nostro lavoro, se non riusciva a procacciarsi cibo dagli uccelli…Per dieci anni non conobbe la gioia del vino, sempre a scrutare, se mai la vedesse, per trascinarsi ad una pozza d’acqua» (ivi: 75-79). Uno scenario, appunto, da origine del mondo. Ma mi ricredo: piuttosto, da origine della facies agricola dell’umanità, ma con il senso del terrore di sempre di fronte alla solitudine. Il pensiero si avvolge: problema grave commisurare le risorse alla storia del gruppo. Spetta all’organo del potere condiviso valutare attività e ritmi da assumere, per la sopravvivenza generale? Può il potere essere arbitro delle ipotesi e decretare l’esclusione? Fino a che limite, e con quale pretesto? E perché esplorare le tracce dell’antico, se non siamo disposti a immaginarlo nella diversità e a pensare all’oggi nel desiderio di ascoltare, anziché escludere, la diversità, nei singoli, negli usi?
Studio, dunque, e disponibilità a cambiare, è il buon percorso. Il tema, la relazione uomo-natura: fu questa, nel tempo fondativo della contemporaneità, tra Sette e Ottocento, la relazione forte che presiedette all’indagine del sapere, aprendolo alla condivisione, nel diffondersi del desiderio di indagine. Con qualche emozione, riprendo in mano la raccolta di Hölderlin, Inni e frammenti, curati dal germanista Leone Traverso [9]. Rileggo, poiché questo è il tema da affrontare, Alla madre terra: un inno intenso, suggestivo, senz’altro oscuro, in cui il poeta, per l’Inno alla Natura, cede la sua voce al canto dei fratelli Ottmar, Hom, Tello: sensibilità infinita e suggestione intensa, negli sguardi generali sul mondo come nell’ascolto dell’armonia, che la musica umana interpreta dalla connessione del mondo. Ma ora, mi dico, occorre una nuova direzione, rispetto alla pur suggestiva eco del poeta, che auspica un rapporto tra i soggetti ora sperimentato e logoro. Qui “Tello” riconosce ma non armonizza con gli altri, “Hom” tributa un riconoscimento oscuro alla divinità, “Ottmar” fa risonare in modo troppo vago, e ambiguo, l’appello al “popolo”: «Io canto in nome di un popolo aperto./ Così vibra da mani festose/ come a prova tentata un corda/ dall’inizio… e piena come da mari si libra/ senza fine nell’aria la nuvola dell’armonia// Ma ben altra cosa/ sarà dallo squillo di un’arpa/ l’inno concorde,/ del popolo il coro» (ivi: 17).
Nella lettura del grande lirico la relazione uomo-natura diventa un’emozione eccezionale: definita tuttavia dal soggetto privilegiato, aspettando dalla folla la ricezione piena. Metto a fuoco la postura del “titanismo”, una disposizione soggettiva a esperire ambiti ampi, complessi. Utopia o avventura, tuttavia: se anche coglie concatenazioni emozionanti, presume la frattura, tra chi dispone e chi esegue. Anche l’originalità è un bene condivisibile: si esercita, e insieme si riconosce. Il mondo è un unico forum: regolabile, nelle controversie, coltivando il riconoscimento reciproco fra gli umani, all’interno di quell’unico ambiente, che è la terra. Preoccuperebbe il ritorno del titanismo che fomenta fratture. E simile sarebbe la presunzione di centrare l’attenzione su alcuni gruppi, trascurando la cura complessiva che associa gli umani tra loro e con l’ambiente: “demanio planetario” è un concetto-valore da difendere. È questa l’attualizzazione cui mi spinge la lettura odierna del Filottete.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] Gian Biagio Conte, Giuliano Ranucci, Emilio Pianezzola, Dizionario di lingua latina, Firenze, Le Monnier, 2004: 857.
[2] Franco Montanari, GI, Vocabolario Greco-italiano, Torino, Loescher, 2004: 1254.
[3] https://www.treccani.it/enciclopedia/lemno.
[4]https://www.treccani.it/enciclopedia/lemno_res-5e136321-8c60-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/
[5] https://www.treccani.it/enciclopedia/etruschi_%28Enciclopedia-Italiana%29/
[6] https://www.treccani.it/vocabolario/lemnisco.
[7] https://www.treccani.it/enciclopedia/somatoestesia_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/
[8] Roma, Carocci, 2001
[9] Firenze, Vallecchi 1974
Riferimenti bibliografici
Conte Gian Biagio, Giuliano Ranucci, Emilio Pianezzola, Dizionario di lingua latina, Firenze, Le Monnier, 2004: 857
Hölderlin, Friedrich, Inni e frammenti, a cura di Leone Traverso, Firenze, Vallecchi, 1974
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
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