di Abdelkader Mouloud
La storia della questione nasce da un noto passo delle Seniles (XVI, 2) riportatoci da Francesco Gabrieli, uno dei massimi esperti di letteratura araba, in un suo articolo breve ma di notevole portata, intitolato appunto Petrarca e gli Arabi e pubblicato nel 1965 [1]. In quel passo il grande poeta italiano, confidandosi con il suo amico Giovanni Dondi, afferma che odia tutta la stirpe araba, per cui gli chiede insistentemente di non avere nessuna considerazione per gli arabi perché conosce abbastanza bene i loro medici e i loro poeti ma ritiene che non ci sia «nulla di più blando, di più molle, di più snervato, nulla di più osceno». Si scaglia poi contro tutti coloro che vogliono anteporre gli autori arabi agli autori classici aggiungendo infine che non potranno mai riuscire a fargli «credere che qualcosa di buono possa venire dagli arabi».
Risulta facile credere che questa forte dichiarazione critica si inserisca in un contesto storico abbastanza particolare, ossia quello del Medioevo in cui il mondo cristiano doveva fare i conti con una religione islamica che guadagnava terreno e, di conseguenza, era impegnato ad impedire l’espansionismo musulmano, sia sul piano militare che su quello culturale. Essendo quest’ultimo il più insidioso, l’unico modo per premunirsene era quello di proscrivere la cultura musulmana nella sua totalità.
Della vita di Francesco Petrarca, anche nei suoi aspetti più riservati, si sa tutto, merito certamente degli studiosi, ma merito soprattutto del poeta stesso che ha voluto informare, spesso in modo minuzioso, della sua biografia, della sua personalità, della sua poetica e della sua presenza in un secolo tanto importante e cruciale quale fu, in Italia e in Europa, il Trecento. Un autorevole maestro in Italia e in Europa, consapevole di sé e della nuova cultura da lui avviata. Un esponente del Preumanesimo veneto-lombardo con il suo amore smisurato per la romanità rispetto a quello del suo discepolo nonché stretto confidente Boccaccio che, con il suo Preumanesimo napoletano, mostrava delle aperture verso orizzonti culturali, da Petrarca sostanzialmente trascurati, come la tradizione romanzesca e soprattutto il culto dei greci.
Ma è assai curioso che il poeta del Canzoniere reagisca in questo modo severo e inaudito e un po’ strano per coloro che sono avvezzi a vedere in Petrarca un uomo composto ed equilibrato. Del resto egli è sembrato molto convinto delle sue idee, il che fa presupporre che ci fosse stato un contatto abbastanza stretto fra la cultura araba e quella italiana ed europea in generale. Sicuramente un contatto del genere non poteva che fornire al poeta qualche elemento per adottare un atteggiamento avverso alla cultura araba. A questo proposito riteniamo opportuno ricordare che, dopo lunghe nonché crudeli battaglie (l’ultima è quella angioina del 1300), si è posto fine alla presenza effettiva degli arabi in Italia ma non si potevano cancellare in nessun modo i segni evidenti di una lingua e di un pensiero trovatisi in contatto con la penisola per ben cinque secoli. Al di là di quella presenza c’erano poi altri fattori che potevano agevolare il contatto fra le due realtà. Infatti l’irraggiarsi della civiltà araba su tutta l’area del Mediterraneo, l’infittirsi degli scambi commerciali, la circolazione delle idee oltre le zone geografiche di diretto dominio arabo, resero possibile l’influenza della lingua, della scienza e della filosofia arabo-musulmana sulla civiltà italiana del Medio Evo. Naturalmente sono fenomeni che hanno investito la vita letteraria, scientifica e culturale, non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa.
Volendo iniziare dalla lingua stessa, motore di qualsiasi contatto materiale e spirituale, si ricorda che l’arabo, o come viene definito la lingua degli invasori, convisse per lunghi tratti con il greco, il latino e il nascente volgare, il che ha inciso fortemente sul panorama linguistico italiano che si arricchisce tramite l’introduzione di tanti vocaboli, di matrice araba, che riguardano diversi settori (scienza, chimica, commercio, agricoltura, ecc). Tali prestiti e passaggi lessicali dimostrano quanto fosse grandioso quel fenomeno storico in cui si colloca la presenza araba nella penisola. Se invece dalla lingua si vuol passare al pensiero, alla poesia e alle forme d’arte introdotte tramite gli arabi ci troviamo di fronte a numerose tesi, tra cui quella enunciata fin dal Cinque e Settecento, circa il passaggio della rima dagli Arabi di Spagna alla poesia medievale romanza, e ai molteplici influssi formali e concettuali che la poesia arabo-andaluza avrebbe esercitato sia sulla lirica trovadorica che sulla neolatina, l’italiana inclusa.
Conviene dunque esaminare il passo della Senile, che fu segnalato per primo da Ernest Renan [2], soprattutto nel contesto storico in cui esso fu scritto (17 novembre 1370). Petrarca voleva persuadere il Dondi e, per il suo tramite, gli ambienti dotti di Padova, a tornare alla grande tradizione classica, specialmente quella latina, troncando con quelle vie ancora tradizionali del pensiero medioevale nella scienza e nella filosofia. È chiaro poi che la tradizione che Petrarca voleva vedere annichilita era proprio fondata, in gran parte, sulla scienza e sulla filosofia e su quanto dell’opera culturale degli arabi era giunto in Europa, particolarmente a partire dal Duecento.
In realtà i campi dove si è registrato un certo primato degli arabi erano, secondo molti giudizi occidentali, abbastanza vari, ma secondo Gabrieli, che cerca di attenuare il tono eccessivo dell’invettiva petrarchesca, Petrarca preferisce, con la grande abilità che gli è consueta, mettere un piede sopra il merito che ancora oggi si riconosce agli arabi per quanto riguarda le scienze matematiche, astronomiche e in generale esatte, da cui l’Occidente medioevale, attraverso la Spagna, trasse innumerevoli vantaggi, per concentrarsi solo sulla medicina, la filosofia e con qualche perplessità anche sulla poesia [3].
Infatti, nel campo medico, Petrarca si limita a chiedere all’amico Dondi, come fece una ventina di anni prima nelle Invettive contro un medico, di non avere nessun rispetto per la medicina araba liquidando così, in un colpo solo, il grande ruolo che gli arabi avevano svolto nella ripresa e nello sviluppo della stessa tradizione medica greca e tardo-antica e lo sforzo di uomini come Costantino l’Africano, Gerardo Da Cremona, che permisero di svelarla e consegnarla all’Occidente.
Di più, Petrarca, come riporta Renan, non voleva addirittura essere curato né dai consigli della medicina araba né dalle medicine che portavano nomi arabi. La sua reazione non poteva essere diversa soprattutto in considerazione della scarsa stima, manifestata dai suoi contemporanei, nei confronti dei beniamini latini. Per quello che riguarda il campo della filosofia, esso è difficilmente separabile da quello medico nel Medioevo, vista anche la formazione dei dotti arabomusulmani, sicché, oltre ad essere grandi medici, erano anche filosofi di grande spessore. L’atteggiamento anti-arabo di Petrarca è incarnato dal suo fiero anti-averroismo accertato anche dalle sue accese polemiche con i giovani avverroisti. L’Averroé preso di mira è certamente quello latino e, in particolar modo, padovano.
Dunque la missione per la quale Petrarca scende in campo è quella di condurre, tra l’altro, un’accanita lotta contro la cultura del suo tempo per l’affermazione di un nuovo sapere. Il suo attacco non era assolutamente un episodio isolato, anzi era ben legato al giudizio generale sull’età in cui viveva. È proprio questa constatazione che lo incita a cercare nelle fonti antiche, un nuovo impulso verso una sapienza che è stata in gran parte, secondo lui, rovinata dalla scuola araba. I segni più funesti di “quel disastro” si vedevano poi nelle concezioni del sapere tipiche dei fisici e dei medici del suo tempo, nel linguaggio di una teologia che fonde il messaggio evangelico e la dottrina mondana di Aristotele, destinati a coesistere a lungo negli stessi ambienti e addirittura nelle stesse persone.
Dato che abbiamo citato Renan, che fu il primo a richiamare l’attenzione su quella pagina delle Seniles, conviene ricordare che la sua opera Averroés et l’Averroisme è ritenuta unanimemente un grande libro, ricco di riferimenti con una altrettanta straordinaria capacità di ricostruzione dei personaggi, anche se sembra che l’autore si muova dentro l’orizzonte dell’antiarabismo. Edward Said aveva forse ragione quando sottolineò, nel suo Orientalismo, che dalla “visione del mondo” di Renan, traspare un Umanesimo rigorosamente e gelosamente eurocentrico [4]. Petrarca, sostiene Renan, proprio perché è ostile alla barbarie de l’école arabe, gioca un ruolo fondamentale: «Pétrarque mérite d’être appelé le premier homme moderne, en ce sens qu’il inaugura chez les latins le sentiment délicat de la culture antique, source de toute notre civilisation» [5]. L’umanista Petrarca, quindi, sottolinea da un lato la povertà speculativa dei moderni, incapaci di cogliere il sapore della sapienza eloquente degli antichi, e, dall’altro, la profonda barbarie evidenziata soprattutto nelle loro tecniche che hanno perturbato il tesoro delle conoscenze umane.
Il poeta del Canzoniere vide nell’Umanesimo, non tanto un atteggiamento culturale e filosofico fine a se stesso, quanto piuttosto uno strumento valido per imprimere una svolta decisiva in senso innovatore alla spiritualità e alla cultura medioevale: il culto per l’antichità classica non è più limitato solo alla consapevolezza di un possesso più autentico né ad un’ansia di approfondire il patrimonio culturale ma è soprattutto legato alla certezza di vivere nell’estremo declino di una civiltà ormai tradita e corrotta in tutte le sue forme. Diventa quindi imperativa, a parer suo, la necessità di una rinascita e insieme di un rinnovamento, ma intende farlo con un approccio critico e selettivo. Infatti nella sua valutazione del mondo classico tende ad escludere, per esempio, Aristotele dal filone classico che egli intende recuperare, esclusione che potrebbe essere spiegata dalla sua opposizione alla Scolastica averroistica di cui Aristotele è la fonte principale.
Petrarca interpreta la Scolastica aristotelica come la tipica espressione di una filosofia astratta e morta, insensibile ed estranea ai problemi dell’uomo. Il suo obiettivo è quello di sottomettere la sapienza ad esigenze morali e religiose per cui gli autori sui quali egli richiama l’attenzione sono in particolare Platone, Cicerone e S. Agostino. Con l’esclusione di Aristotele vuole dare la prova che il suo atteggiamento non significa un’adesione cieca o entusiastica.
Renan sostiene che tutto il Medio Evo sia stato caratterizzato dal “trionfo della barbarie” e dunque era normale che ci sia stato un glorioso affermarsi della rinata antichità grecolatina e dell’Umanesimo che rendevano inutile nonchè fastidiosa l’intera cultura araba: «Tandis que les sources originales de la science antique avaient été scellées pour l’Occident, les arabes avaient rendu d’incontestables services, mais, en présence de l’antiquité elle-même, ces interprètes infidèles n’étaient plus qu’un embarras»[6].
Tornando alla famosa epistola al Dondi, si deduce che Petrarca, quando giudicava negativamente la scienza e la filosofia arabe, non lo poteva fare ovviamente per competenza diretta. Ma quando incentra il discorso sul campo letterario e in particolar modo sulla poesia, ritiene invece di avere tutte le carte in regola per trarne le dovute conclusioni. Ecco perché il giudizio appare pesantissimo: «nulla v’è al mondo di più fiacco, molle, effiminato, di più brutto insomma di una tale poesia» Allora sorge spontanea la domanda che prima aveva posto Renan e cioè «Comment Pétrarque a-t-il pu connaître la poésie arabe, dont le moyen âge n’a pas eu la moindre notion?» [7].
Prima però dobbiamo precisare che nella penisola arabica preislamica, società profondamente tribale, la lingua araba classica era quella della poesia. Essa aveva le sue forme fisse che consistevano in una prosodia quantitativa (con sedici metri differenti) in versi divisi in emistichi con la stessa rima alla fine di ogni verso. Tale metro è rimasto lo stesso anche quando, da eroica, questa poesia divenne di corte e venne anche portata in Spagna come sostiene Stern [8]. Introdottasi in un campo fertile come quello della Spagna, la poesia ha subìto delle innovazioni e così sono nate due forme strofiche che, pur essendo strettamente imparentate, presentano delle differenze sostanziali fra di loro: sono le muwasciahat e lo zagial [9]. La stessa poesia trovadorica ha delle somiglianze con quella araba in quanto entrambe trattano l’amore cortese. Ecco perché in molti sostengono che la poesia trovadorica e l’amore cortese sono fenomeni fuori dal comune nello sviluppo della cultura europea occidentale, per cui è probabile che siano stati presi in prestito da qualche parte e la poesia araba in questa congettura sembra una fonte plausibile [10].
Inoltre, si è discusso a lungo sulla compenetrazione fra l’opera di Dante, La Divina Commedia, e qualche fonte araba, sicché, nel sesto centenario della morte del poeta fiorentino, lo studioso spagnolo Miguel Asín Palacios lanciò la sua famosa nonché discutibile tesi nel suo libro: La escatología musulmana en la Divina Comedia, nel quale illustrò una serie di strette analogie fra la visione dantesca d’oltretomba e quelle svariatissime fonti arabe senza riuscire però a spiegare come quel materiale arabo fosse giunto a Dante, anche se si é parlato del Libro della Scala del messaggero dell’Islam, nonché la lettera del perdono di Abu Alalaa Al-Maarri come probabile fonti di la Divina Commedia [11]. La tesi del dotto arabista spagnolo, per una serie di motivi, fu respinta dalla maggioranza della critica dantesca [12]. È vero però che l’orizzonte culturale in cui si formò Petrarca era più ampio rispetto a quello di Dante visto che i suoi contatti erano molto più ricchi e molto più vari, ma al contempo furono intransigenti i suoi ideali filoromani e filolatini che sicuramente vanno presi in considerazione per spiegare la sua avversione agli arabi [13].
Rispondere dunque al quesito posto prima da Renan è un’impresa assai ardua, aggravata dal fatto che, nell’epistola, Petrarca non dà ulteriori informazioni sufficienti per formulare una risposta convincente, il che apre la porta ad una serie di ipotesi e speculazioni a cominciare da quella del Cerulli. Quest’ultimo esclude che Petrarca avesse avuto veramente un diretto contatto con la poesia araba che gli consentisse di valutarla isolatamente; rifiutava quella manifestazione di arte nell’ambito della sua ampia negazione dell’influenza orientale sul Medioevo. Aggiunge che il passo della Senile, riguardante la poesia araba, «non è quindi un esempio illustre, ma un insolito, del critico o del recensore che giudica un’opera che non ha letto. E nemmeno esso presuppone una lettura dei versi arabi ipoteticamente tradotti che non si sono piaciuti all’autore del Canzoniere»[14].
La considerazione del Cerulli è lontana dall’essere condivisa da Gabrieli secondo il quale è la prima volta che un grande poeta della Romània mostra di conoscere e giudicare la poesia araba. Gli risulta poi improbabile che si tratti di una infondata vanteria, che in un uomo della serietà di Petrarca è inconcepibile [15]. Gabrieli asserisce che, quando Petrarca dichiara di aver conosciuto la poesia araba, volesse alludere, molto probabilmente, a quella strofica di Spagna o eventualmente a qualche saggio di qasida (poema) in arabo classico d’Egitto o della Siria sotto il governo degli ayyubiti [16].
Molto interessante invece, nonchè abbastanza fondata, l’ipotesi avanzata dallo studioso inglese Bodenham, il quale sostiene che Petrarca sia potuto venire a conoscenza della poesia araba tramite il Commento di Averroè alla Poetica di Aristotele redatto nel 1180 [17], dal momento che nel suo tentativo di adattare il discorso dell’autore greco alla poetica araba, Averroé, accanto agli esempi greci illustrati dal filosofo greco, cita molti poeti arabi appartenenti a vari periodi storici e a varie dinastie, quali per esempio i poeti degli abbassidi e i poeti omayyadi. Cita soprattutto quelli del periodo preislamico (giahillia) del VI secolo, noti per le loro poesie che costituiscono la raccolta delle Mu‘allaqat [18] come Imru’lqais, Antara, Zuhayr e altri. A questo punto il lettore medievale interessato aveva fra le mani una vasta antologia della poesia araba, con i suoi accattivanti scenari, così poteva farsene un’idea e darne poi un giudizio [19].
Il sentimento d’avversione nutrito dal Petrarca nei confronti degli arabi non si manifesta unicamente nella Senile a cui abbiamo accennato prima, ma trapela in gran parte della sua produzione letteraria. A tale proposito Gabrieli cita anche Dalla mia ignoranza in cui riporta la sua accesa polemica contro i quattro giovani averroisti veneziani, oltre ad un accurato invito, rivolto ad un amico, di comporre una confutazione di Averroé “perfido cane rabbioso”. Gabrieli fa riferimento anche alla Vita Solitaria che contiene tra l’altro un violentissimo attacco a Maometto senza dimenticare, naturalmente, le Invettive contro un medico. Infatti i quattro libri che compongono le Invettive furono scritti per rispondere ad un medico della curia papale che aveva offeso il Petrarca.
La polemica fra il poeta e il suo accanito avversario, oltre che con i quattro giovani averroisti veneziani, è di grande utilità in quanto sintetizza in modo ineccepibile il pensiero petrarchesco e la sua opinione riguardo le tante questioni cruciali che preoccupavano la sua generazione. Per cui riteniamo che l’opera abbia uno stretto legame con l’argomento di questo articolo. Come indica il suo titolo, è un’invettiva, apparentemente contro un medico antagonista, ma in realtà è una tirata contro tutta la medicina e, non a caso, questo era il campo in cui gli arabi avevano registrato, come viene loro unanimemente riconosciuto, dei primati significativi. È innegabile che questo genere di scrittura (l’invettiva) avesse preso un nuovo fiato con Petrarca, alla violenza dell’attacco personale si alterna una discussione generale che riguarda la cultura umanistica e particolarmente la rivalità tra medici e poeti. Vi è certamente lo sdegno per la maldicenza a cui il Petrarca era particolarmente sensibile, l’orgoglio di un uomo colto contro l’ignorante e venale categoria dei medici, l’ostilità per la falsa medicina e soprattutto per l’averroismo ma è abbastanza palpabile l’esaltazione dell’amore per la poesia, per la letteratura e per la solitudine.
Molti hanno sottolineato il valore dell’opera, come il Pepe che, per l’occasione, coglie nelle Invettive contro un medico, al di là delle digressioni (da uomo ferito perfettamente giustificabili), uno spirito innovatore che segna una rottura con i vecchi modelli medioevali e che anticipa, in un certo modo, l’Umanesimo [20]. O come Ezio Raimondi che dopo essere riuscito, con grande successo, ad individuare le fonti, la messa in valore dei temi filosofico-letterari e dell’aspetto stilistico dell’opera, se ne esce con un giudizio estremamente positivo definendola, tra l’altro, un brevario poetico di singolare acutezza e ribadendo che, pur trattandosi di un lavoro minore, rispecchia il genio di Petrarca [21]. Un giudizio largamente condiviso da Rita Realfonzo dell’Area che la considera una vera e propria dichiarazione di guerra contro la scienza. Con essa nasce, in Petrarca, l’esaltazione congiunta del retaggio classico e del messaggio cristiano, finalmente fusi contro un bersaglio comune: la scienza averroistica [22].
Insomma la deplorazione, da parte di Petrarca, di quel periodo oscuro che disprezzava la lezione degli antichi, considerati superiori, si trasforma in un attacco ai dialettici delle scuole che hanno rotto con la dottrina dei padri per abbracciare quella moderna dei nuovi filosofi e medici avendo come unica guida Averroé, oggetto della più dichiarata ostilità del Petrarca. Al filosofo e medico arabo è fatta risalire la responsabilità di aver imposto l’assoluto predominio di Aristotele. I temi più salienti delle Invettive contro un medico trovano, quindi, espressione nella condanna categorica dell’averroismo. Petrarca disistima i filosofi averroisti perchè esaltano Aristotele e umiliano Cristo. La sua ostilità per l’averroismo va al di là della sfera della scienza per abbracciare quella religiosa, considerando il filosofo di Cordoba sempre in antitesi con Cristo e accusando poi il medico, suo antagonista, di preferire il primo.
Averroè dunque contro Cristo (il Sole elevatissimo); l’eresia contro la fede, il sapore naturalistico contro la cultura dell’anima, il mondo della cultura greco-araba (aggiungerei anche musulmana) contro la tradizione latina–occidentale. Petrarca cercava – come sostiene il Bosco – di difendere la teologia dalla futilità degli averroisti e non esitava ad esprimere il suo rammarico nel vedere la teologia e la filosofia ridotte ormai a mere chiacchiere averroistiche portatrici di teorie eretiche. Perciò sembra proprio che Petrarca non dia grande attenzione ad Averroè in quanto filosofo ma che gli importi di più metterlo in uno scomodo posto agli antipodi di Cristo, come prototipo dell’arabo empio, cioè da un punto di vista puramente religioso più che filosofico. E a questo punto il Bosco afferma che nella polemica contro gli averroisti «sembra che sia stabilita l’equivalenza dialettica averroismo-empietà»[23].
Petrarca non esita ad attaccare la cultura dei medici ritenuta rea di perdere di vista l’uomo e le sue esigenze e per questo motivo Eugenio Garin giustifica quell’attacco con la necessità di una riforma della cultura affinché essa si interessi prevalentemente all’uomo e non alle cose [24]. Del resto, fra Aristotele e Platone, Petrarca sembra prediligere il secondo perché fu il primo filosofo ad avvicinarsi di più alla virtù, anche se teneva comunque ad esaltare le qualità di Aristotele. Tofanin tiene a precisare che non c’è nessuna prevenzione di Petrarca contro Aristotele, ma il poeta attribuisce tutte le empie deviazioni ai commentatori arabi e alle volgarizzazioni latine [25].
Infatti, non si tratta assolutamente di un’avversione pregiudiziale perché la medicina viene creata da Dio per essere utile, sono alcuni medici invece che l’hanno resa inutile. In questo è abbastanza chiaro il riferimento agli arabi rei, secondo Petrarca, di pervertire l’intramontabile patrimonio lasciato da Ippocrate e Galeno. I medici sono arroganti nonché portatori di una cultura meccanica sporca che bada solo a curare il corpo e le sue crudeltà trascurando l’anima. Ecco perché i toni dell’opera sono stati molto aspri, anzi in certi passaggi sembrava che il poeta del Canzoniere avesse perso il controllo di sé. Il testo si presenta fitto di metafore sarcastiche impiegate, secondo gran parte della critica, con grande maestria e con toni molto forti, un linguaggio spietato che punta ad umiliare il suo antagonista. A questo riguardo, la parola urina, per esempio, ritorna frequentemente, elevata quasi a simbolo della bassezza del mestiere del medico, cui unico compito sembra essere per Petrarca quello di contemplare e valutare l’urina altrui, a significare che una mente abituata solo a giudicare un’urina non può certo capire le più alte verità filosofiche.
A questo vanno aggiunte le similitudini tratte dal mondo zoologico che sono numerose, tese anche esse, ovviamente, a definire sprezzantemente l’avversario e, tramite lui, tutta la categoria dei medici di cui il suo acerrimo nemico Averroé è un autentico rappresentante. Infatti il medico antagonista viene paragonato all’asino, talvolta al serpente, al topo, alle formiche e addirittura gli attribuisce comportamenti da porco mentre sceglie il leone come animale da paragonare a se stesso. Petrarca quindi è un leone mentre le parole del medico sono latrati. Introduce così il simbolo del cane (riferendosi ad Averroé) che abbaia con una bocca schiumante di rabbia contro il sole stesso della giustizia, cioè contro Cristo.
Sicuramente gli insulti costituiscono la parte meno edificante delle Invettive che potrebbe dispiacere ai lettori abituati ad un Petrarca, per così dire, serio e contenuto. Del resto il poeta stesso dovette rendersene conto chiedendo scusa al lettore e giustificandosi con il fatto di esser stato provocato soprattutto quando gli fu dato dell’ignorante dal medico e dai quattro giovani averroisti. Probabilmente sotto quella mordacità pungente, il motivo dominante delle invettive è senz’altro l’esaltazione vibrata della poesia e della cultura contro la medicina. Dunque l’ostilità del Petrarca verso i medici non era altro che frutto della sua avversione all’averroismo a cui i medici aderivano perché come afferma il Pepe: «scienza araba significava un complesso di cultura che, come un tempo si era opposta alla cultura cristiana, ora si opponeva al rinascimento di idee ed arte classica»[26].
A conferma della sua totale scarsa considerazione nei confronti della medicina e dei medici, è quanto mai esemplificativo il fatto che verso la fase finale della sua vita, quando era in preda alla malattia, egli aveva chiesto ai suoi servi di non badare alle prescrizioni dei medici riguardanti la sua persona, anzi, se proprio fosse necessario fare qualcosa, avrebbero dovuto fare esattamente l’opposto. Anche se c’è chi cerca di giustificare quella mancata fiducia considerando la situazione della medicina di quel periodo che era ancora, nonostante gli sforzi di Federico II, un tessuto di imposture magiche, un irrigidimento di dottrine arabiche rimaste senza sviluppo e prive di qualsiasi fondo scientifico.
Nel rispondere al quesito posto prima su come l’Occidente del Petrarca fosse venuto a contatto con la scienza e la filosofia arabo-musulmane, riteniamo doveroso rilevare il fondamentale ruolo del movimento di traduzione, soprattutto l’importante laboratorio sviluppato nell’Italia meridionale, a Salerno e a Montecassino, grazie agli sforzi preziosi di Costantino l’Africano [27] che, con la traduzione in latino di diverse opere arabe, contribuì alla celebrità della Scuola di Salerno, che fu alla base dell’insegnamento medico in Occidente fino alla fine del Medioevo. Le definizioni chiare che proponeva il corpus costantiniano diedero un impulso decisivo al radicamento di una scienza medica. Le prime opere tradotte orientarono decisamente, come sottolinea Jacquart, l’insegnamento medico occidentale. Proprio a Salerno si è registrata la fusione tra le cognizioni dei testi arabi e l’eredità greco-latina. Lo testimonia il gran numero dei termini tecnici di matrice araba introdotti da Costantino e conservati nel vocabolario anatomico moderno [28].
Non meno importante era il centro di Toledo in Spagna, capitale dell’antico Regno visigoto. In essa convissero per lungo tempo cristiani, musulmani ed ebrei. Fu la prima città musulmana a cadere nelle mani dei cristiani per convertirsi poco dopo in un importante centro di trasmissione del sapere con le sue grandi biblioteche, ricche di tesori della scienza araba messi a disposizione dei conquistatori cristiani. Ecco perché la città spagnola è stata raggiunta da un gran numero di dotti, tra cui Gerardo da Cremona che ci venne inizialmente per la ricerca di alcuni scritti, imparò poi l’arabo e trascorse oltre quarant’anni portando a compimento un immenso progetto che puntava a trasmettere ai latini più di ottanta volumi, tra cui le opere fondamentali di Razi e Avicenna rivelatesi di estrema utilità per l’ulteriore sviluppo della Scolastica in generale ma soprattutto della filosofia e della scienza.
Alain de Libera ricorda come le traduzioni eseguite nel centro di Toledo abbiano consentito agli occidentali la conoscenza dei grandi testi di Avicenna prima che lo stesso Aristotele fosse stato tradotto interamente e aggiunge: «S’il y’a eu au XII siècle une philosophie et une théologie dite scolastique, donc un destin occidental-chretien de la philosophie, c’est parce que Avicenne a été traduit, lu et medité dès la fin du XIII siècle. En fait, n’en déplaise à Heidegger, c’est Avicenne, non Aristote, qui a initié l’occident médiéval à la philosophie»[29]. Gli fa eco Daniel De Morley, citato da Jacques Le Goff che, deluso dai maestri parigini scrisse:
«De nos jours, c’est à Tolède que l’enseignement des Arabes est dispensé aux foules (..). Nous aussi, qui avons été libérés mystiquement de l’Egypte, le Seigneur nous a ordonné de dépouiller les égyptiens de leurs trésors pour en enrichir les Hébreux. Dépouillons donc conformément aux commandements du Seigneur et avec son aide, les philosophes païens de leur sagesse et de leur éloquence, dépouillons ces infidèles de façon à nous enrichir de leur dépouille dans la fidélité» [30].
Il movimento delle traduzioni ebbe la sua continuazione, in Sicilia, con Federico II (1215-1250) che era fortemente affascinato dalla scienza e dalla cultura musulmana. Egli suggeriva spesso ai grandi traduttori che lo circondavano di superare l’ostilità verso il mondo musulmano e di valorizzarne invece i suoi apporti. Le traduzioni tolediane rappresentarono un solido punto di riferimento per gli aspiranti studiosi di medicina e di filosofia. Citiamo a modo di esempio quelle di Hunain Ibnu Isaaq con la sua opera intitolata Questioni di medicina, di A-rrazi, autore di un gigantesco Continens (al-hawi vale a dire il contenitore della professione medica) in cui muove certamente dalla tradizione medica degli antichi, soprattutto Galeno, ma non esita a prenderne le distanze ogni qualvolta contraddice i risultati della sua propria esperienza, di Al-Magiussi con la sua Opera Reale (Liber Regales) ma soprattutto il Canone di Avicenna, un grande libro in cui l’autore tenta di accompagnare la teoria con la prassi e in cui sono compenetrati l’aspetto enciclopedico dell’opera di A-rrazi da una parte e quello organizzativo di Al-Magiussi dall’altra.
Ma siccome le opere dei medici arabi sono fitte anche di nozioni filosofiche dovute principalmente al carattere della loro formazione, giova ricordare che lo spirito di Avicenna si presenta conciliatore fra la filosofia e l’essenza della religione. È proprio quello spirito che gli ha procurato una larga diffusione sia nel mondo musulmano che presso i cristiani tentati di ispirarsi alla sua opera, soprattutto laddove essa offre loro una giustificazione filosofica della loro propria fede. Una concezione che non giovava affatto poi ad Averroé. Quest’ultimo, essendo stato bersaglio del feroce attacco di Petrarca merita maggiore approfondimento, vista la sua portata medica racchiusa principalmente nel suo Colliget (Al-Kolliat fi a-ttib) in cui si misura, non con Avicenna che lo supera citandolo poco, ma addirittura con Galeno, il padre della medicina nonché il suo punto di riferimento.
A questo proposito Jacque Despart [31], citato da Al-giabri, è stato molto chiaro nel marcare i ruoli e il valore dei dotti arabi affermando che, se A-rrazi è considerato «il supremo sperimentatore», «il più grande e il più esperto medico dopo Ippocrate e Galeno», «un laboratorio di più alto livello», Averroé è definito «il colpo mortale» e «l’uomo che ha corrotto tutti i medici» [32]. Infatti il coraggio di quest’ultimo, la sua grande capacità di argomentazione e soprattutto il suo ridimensionamento di Galeno non potevano che spingere in avanti la medicina suscitando l’ira di coloro che vedevano in lui soltanto il medico che ha rovinato la materia, e sicuramente il Petrarca non si sentiva fuori dal quel coro. Da un’altra parte il riconoscimento del suo eccezionale valore filosofico doveva essere unanime nel Medioevo. Fu considerato un fondamentale punto di riferimento con la sua mirabile e perspicace interpretazione dei testi aristotelici adottando come metodo di lavoro il Commento prestato dalla tradizione scientifico-medica.
La sua concezione filosofica distrugge il pacato ordine ideato da Avicenna, la cui filosofia, secondo lui, non è altro che una miscela impura di ragione e credenza da un lato e metafisica e religione dall’altro. Quella di Averroé vorrebbe essere una filosofia libera da qualsiasi vincolo. Il filosofo di Cordoba inaugura un nuovo cammino per la sapienza medievale dando maggiore spazio all’uomo perché la verità la si può raggiungere solo attraverso i mezzi umani e naturali. Egli invita, dunque, a guardare il mondo naturale con una visione fisica e non teologica, non come una semplice creatura di Dio, ma come cosmo con una struttura propria, così che la società umana non deve essere dipendente dalla rivelazione, per cui egli viene spesso considerato eretico e blasfemo. L’averroismo del XIII secolo fu di grande portata socio-culturale. Le sue radici intellettuali sono Aristotele e Averroé ma il suo ambiente sociale è formato da quello che veniva chiamato la nascita dello spirito laico.
Quanto alla poesia araba a cui faceva riferimento la famosa ipotesi di Bodenhame è molto probabilmente quella delle mu-allaqat. Una materia ricca di immagini nonché straordinariamente espressa (poeticata) da beduini in un ambiente rigido, arido ed ostile ma affascinante in cui si intrecciano l’amore per la donna spesso irraggiungibile [33], la passione per i cavalli e i cammelli, i valori sociali tramandati come la cavalleria, la generosità, l’ospitalità, l’audacia, qualche volta anche l’intransigenza e la cultura della vendetta e della “faida”. Spesso quella poesia doveva essere introdotta da versi chiamati nasib che erano la sua parte più bella, incarnando il travaglio del poeta che si ferma di fronte ad un accampamento o delle rovine abbandonate per evocare i trascorsi indelebili con l’amata.
Al di là della questione della sua autenticità rimossa soprattutto da Taha Hossein, che in realtà non fece altro che riprendere e riformulare le tesi di alcuni orientalisti [34], la poesia delle mu-allaqat costituisce uno splendido tesoro, per riprendere una espressione cara a Goethe, un tesoro letterario prestigioso che resterà inciso nella memoria degli arabi, non solo delle persone colte ma anche – come afferma Jacque Berque – dell’intero popolo, inclusi i beduini. È sicuramente, aggiunge, grazie a questo tratto specifico, che manca agli occidentali, che la poesia raggiunge l’universalità [35] anche se per la verità si sarebbero dovuti, come aveva sottolineato Gabrieli, aspettare quattro o cinque secoli dopo Petrarca affinché venisse scoperto il suo fascino soprattutto da un poeta del calibro di Goethe in cui sono palesi gli influssi delle mu-allaqat, fonte di ammirazione nonché di grande ispirazione assieme alla figura di Maometto [36]. Alla luce di tutto questo, risulta molto difficile cogliere, in una poesia così prestigiosa, l’aspetto molle e osceno su cui insisteva molto spesso il grande Petrarca.
Si deve dire però che dopo quella enorme diffusione, la sapienza araba subì una battuta d’arresto dalle condanne parigine (del 1277) di alcune idee “averroistiche”, giudicate pericolose. Confusi ed incastrati, gli europei dovevano scegliere tra le interpretazioni arabe, che dominavano il XII e il XIII secolo, e l’eredità greco-latina ormai nettamente conosciuta. L’Umanesimo e il Rinascimento pretendevano ritornare alle fonti greche; le traduzioni greche attraverso l’arabo diventavano quindi simbolo della falsificazione e il termine arabismo acquisì una connotazione peggiorativa nonché sintomo di un periodo barbaro contro il quale si doveva reagire.
In questi termini, Petrarca, nella sopra citata epistola, invitava gli ambienti dotti padovani ad abbandonare la tradizione del pensiero medioevale nel campo delle scienze e della filosofia, che era fondata in gran parte su quanto dell’opera degli arabi era giunto in Europa, per tornare alla grande tradizione classica latina. Ricordiamo tutti il famoso passo in cui si annuncia: «nous aurons souvent égalé, quelquefois surpassé les Grecs, et par conséquent toutes les nations, excepté, dites-vous, les Arabes! O folie! O vertige! O génie de l’Italie assoupi ou éteint!» [37].
Petrarca non si accontenta, come ci riporta Renan, delle Invettive contro un medico per attaccare Averroé ma, per i numerosi impegni che aveva, non è riuscito a portare a compimento il suo progetto, per cui chiama in causa uno dei suoi amici, Luigi Marsiglio, un religioso agostiniano invitandolo a completare il lavoro già iniziato:
«je te demande une dernière grâce, c’est de vouloir bien, aussitôt que tu jouiras de quelque loisir, te retourner contre le chien enragé d’Averroès, le quel, transporté d’une aveugle fureur, ne cesse d’aboyer contre le Christ et la religion catholique (…) applique-toi toutes les forces de ton esprit à cette entreprise, qui jusqu’ici a été négligée, e dédie-moi ton opuscule soit que je vive ou que je sois mort» [38].
La durissima reazione petrarchesca nei confronti degli arabi coincide, dunque, con una fase storica cruciale in cui nasce una cultura in Occidente che dava segni di ripresa rispolverando i manoscritti e le opere classiche. Ma indipendentemente dalle direttive e dalle influenze esterne, era naturale che il mondo greco-romano, così elevato, dovesse apparire agli studiosi occidentali più grandioso di quello che era veramente. In un ambiente dotato di una tale mentalità sostanzialmente gelosa e conservatrice, paralizzata dall’ammirazione sincera per la grandiosità della sapienza antica, era naturale che gli sperimentatori così come i fisici ammiratori degli arabi, considerati una specie di rivoluzionari, fossero mal visti.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
[1] F. Gabrieli, Petrarca e gli Arabi, in Testimonianze arabe ed Europee, Bari, Dedalo libri, 1976.
[2] E. Renan, Averroès et l’Averroïsme, Francfort, Ist. Ges. Arab.Islam, Univerité di Francofort, 1985.
[3] F. Gabriele, Petrarca e gli Arabi, op. cit.: 43.
[4] E. Said, Orientalismo (1978), trad. it. Torino, Bollati Boringhieri (III, Paris, Calmann-Levy, 1991) : 149-150.
[5] E. Renan, op.cit.: 328.
[6] Ibidem: 329. È abbastanza noto che nella sua valutazione del mondo arabo e orientale, di cui è un autorevole specialista, Renan non riesce a liberarsi sia dall’eredità greco-latina che dal mito delle origini indoeuropee. Dice Edward Said: «Ogni qualvolta s’accingeva a fare qualche affermazione intorno agli ebrei o ai musulmani, mostrava di avere in mente le proprie considerazioni per lo più sfavorevoli (e infondate salvo che dal punto di vista della scienza da lui stesso praticata) sulle popolazioni semitiche. Per di più il semitico di Renan era inteso come contributo sia allo sviluppo della linguistica indoeuropea, sia alla differenziazione dall’orientalismo. Rispetto alla prima, il semitico rappresentava una forma degradata, sia in senso morale che in senso biologico; rispetto al secondo il semitico era una – se non “la” – forrma stabilizzata di decadenza naturale. Per finire, il semitico era la prima invenzione di Renan, una creazione da lui compiuta nel laboratorio della filologia, destinata a soddisfare il suo senso di missione, e a sancire la sua funzione nella società. Non dovremmo mai dimenticare che il semitico era per l’io di Renan il simbolo del dominio europeo (e perciò anche suo personale) rispetto all’Oriente e all’epoca in cui viveva».
[7] E. Renan, op. cit.: 330.
[8] S. M. Stern, Esistono dei rapporti letterari tra il mondo islamico e l’Europa occidentale nell’alto Medioevo?, in L’Occidente e L’Islam nell’Alto Medio Evo, Settimane di studio sul Medioevo, XII, Spoleto, 1965: 639.
[9] Le muwasciahat sono un genere completamente inserito nell’ambito della poesia classica araba per quel che riguarda l’argomento, la lingua e lo stile. Mentre zagial, benché sia destinato alla società cortese, è scritto in arabo volgare, tratta argomenti considerati fuori posto nelle poesie dignitose della metrica classica e quella del muwasciah.
[10] L’amore viene percepito come un omaggio feudale alla donna amata.
[11] Abu-al-Aala al-Maarri (Maʿarra, 973 – Maʿarra, 1058) fu un filosofo e poeta arabo non vedente, controverso razionalista del suo tempo che attaccava i dogmi della religione e rifiutava che l’Islam avesse il monopolio della verità.
[12] F. Gabriele, Gli Arabi nella Civiltà Italiana dal Trecento al Novecento, in Gli Arabi in Italia, Garzanti, Milano 1978: 228.
[13] A questo proposito bisogna ricordare che il Preumanesimo petrarchesco fu prettamente latino sicchè ignorava la tradizione greca e in questo era palese la sua insofferenza verso le tesi che volevano dimostrare il primato dei Greci.
[14] E. Cerulli, Petrarca e gli Arabi, in “Rivista di studi classici e medioevali”, Roma, ed. dell’Ateneo, gennaio-dicembre 1965: 335.
[15] F. Gabriele, op. cit.: 45.
[16] Lo Stato degli Ayyubiti era uno Stato islamico nato in Egitto, esteso anche nei territori dell’attuale Siria e Yeman. Aveva come capitale il Cairo. Si chiama così in riferimento al suo fondatore, Salahddine Youssef Ben Najmeddine Ayoub. Fu proclamato un nuovo Stato islamico in seguito al declino dei Fatimiti nel 1171.
[17] La traduzione latina del Commento di Averroé fu effettuata a Toledo da Hermannus Alemanus nel 1256. Questa traduzione – puntualizza Bodenham – è nota a Ruggero Bacone, ad Albertino Mussato, a Jean de Fayt, autore di una raccolta di sententiae aristoteliche e frequentatore della corte papale di Avignone negli anni di Petrarca, al frate inglese Robert Holcot, a Benvenuto da Imola nel suo commento dantesco. La traduzione di Hermannus che poteva essere consultata dal lettore latino tranquillamente nell’edizione di Lorenzo Minio Paluello, conserva fedelmente quelle citazioni
[18] Le mu-allaqat sono dei componimenti poetici di grande bellezza che vengono cantati ancora oggi. Furono scritti nel periodo prima dell’Islam ed erano recitati in occasione di una gara che si svolgeva nella città di Mekka per scegliere il testo più bello. Infatti il componimento scelto veniva riscritto con un inchiostro d’oro e appeso sul muro del Kaaba da cui il nome mu-allaqa (appesa).
[19] Il lettore italiano può ricorrere alla traduzione nonché al ricchissimo apparato di note di Carmela Baffioni, Averroé, Commento al “Perì Poietikes”, a cura di cura di C. Baffioni, Milano, Coliseum, 1990.
[20] Gabrieli Pepe, L’invettiva del Petrarca contro un medico, in Da Cola Rienzo a Pisacane, Roma, Colombo, 1947: 111-122. Nella sua critica, il Pepe pur sottolineando l’importanza della ricca tematica dell’opera, diede un giudizio molto negativo sia sotto l’aspetto che riguarda il contenuto, con l’assenza di uno sviluppo organico dei concetti e la presenza massiccia di digressioni e ripetizioni, sia sotto quello formale ritenendo, pesantemente, che il valore dell’opera è nullo perché carente di eloquenza e ricca solo di volgarità. Sempre secondo il Pepe il trattato di Petrarca fu dettato dalla necessità di difendersi da voci calunniose che circolavano sul suo conto. Ma pur essendo la mano del Pepe molto pesante nei confronti dell’opera e dello scrittore, riesce comunque a coglierne uno spirito innovatore che segna una rottura con i vecchi valori medievali e che anticipa, in un certo modo, l’Umanesimo. I contributi critici, sia di Pepe che di Ricci, inaugurarono un’ondata di interesse consolidata dalla notevole fioritura di recensioni, commenti e publicazioni dedicati alle invettive contro un medico, finalmente messi sotto gli occhi della critica letteraria.
[21] In “Studi Petrarcheschi”, I, 1948: 97-109.
[22] Rita Realfonzo Dell’Area, Uno dei primi messaggi dell’Umanesimo: le Invectivae contra medicum quedam”, in “Italica”,V. XXIX , 1952: 95-102.
[23] U. Bosco, Francesco Petrarca, Bari-Roma, Laterza, 1977: 114.
[24] E. Garin, Petrarca e la polemica con i “moderni”, in Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari-Roma, Laterza, 1975: 71-88
[25] G. Toffanin, Il Petrarca, in Storia dell’Umanesimo, vol. II, Bologna, Zanichelli, 1964: 97-98.
[26] G. Pepe, op. cit.: 112.
[27] Bisogna aspettare però l’intervento di un altro noto mediatore, Costantino l’Africano, perché si cambiasse radicalmente la situazione. Poco si conosce della sua vita, anzi la sua biografia è piena di leggende. Quello che si suppone generalmente è che sarebbe nato a Tunisi all’inizio del XI secolo e morto nel 1087. A quarant’anni si recò in Italia come commerciante ma dopo aver notato lo stato deplorevole della medicina, decise di rientrare a Tunisi per studiare la medicina per tre anni, poi si stabilì finalmente in Italia, a Montecassino, dedicandosi pienamente alla traduzione delle opere arabe che aveva portato con sé dal Nord d’Africa.
[28] D. Jacquart, Influence de la médecine arabe en occident médiéval, in Histoire des Sciences Arabes, T. 3, Paris, Seuil, 1995 : 214.
[29] A. De Libera, Comment l’Europe a découvert l’Islam, in Connaissance de l’Islam, Paris, Syros 1992: 53.
[30] J. Le Coff, Les intellectuels au Moyen Age, Paris, Seuil, 1957 : 24. Vd. anche J. Vernet, Ce que la culture doit aux Arabes d’Espagne, Paris, Seuil, 1985.
[31] Jacque Despars, un illustre studioso francese (morto nel 1458), famoso per il suo commento al Canone, svela il suo metodo di lavoro dichiarando che, per capire ed arricchire il testo di Avicenna, si è basato sugli illustri greci, Ippocrate, Aristotele, Galeno nonché sugli arabi più famosi, come Avenzoar, Razi, Averroé ed altri.
[32] M. Abed Al-giabiri (a cura di), Il colliget, Beiruth, Centro di Studi dell’Unione Araba, 1999:50.
[33] Donna irraggiungibile anche perché è andata via o perché è promessa ad un altro. Interessanti sono le coincidenze con la teoria del Dolce stil nuovo e, prima ancora, con la poesia provenzale sviluppata in Sicilia.
[34] Quindi Taha Hussein (scrittore egiziano:1889-1973) vuole rispondere ad un problema reale e lo fa tramite due opere: la prima apparsa nel 1926, intitolata Nella poesia preislamica, considerata una negazione categorica dell’autenticità delle opere poetiche prima dell’avvento dell’Islam. In quest’opera l’iperscettisimo dell’autore non risparmiava neppure la Sira (biografia) ed i Hadit (raccolta dei detti) di Maometto, considerati dai musulmani la seconda fonte delle leggi islamiche dopo il Corano, il che gli è valsa l’opposizione feroce nonché la mobilitazione degli sceicchi dotti dell’autorevolissima scuola religiosa dell’Azhar. La seconda, Nella letteratura preislamica (1927), riprende lo stesso discorso però allargandosi un po’. Pur essendo anch’essa suffragata da tanti argomenti filologi, rimane, per le enormi critiche che ha ricevuto la prima, una esposizione molto attenuata nonché privata di un certo numero di affermazioni, difficilmente sostenibili, ma in compenso viene consolidata da nuovi argomenti forniti dalla storia per mettere in risalto i fattori che spinsero, secondo il suo parere, gli arabi dell’era islamica ad inventare quella letteratura.
[35] J. Berque, Les dix grandes odes arabes de l’anté-islam:le mu-allaqat , Paris, Sindibad, 1979 : 16.
[36] Cfr. a a questo proposito: K. Mommsen, Goethe und die arabische Welt, trad. araba di A.A.Ali, in “Alam Almaarifa” (rivista specializzata) pubblicata dal C. N. della cultura, dell’arte e delle Lettere, Koweit, n. 194, febbraio, 1995.
[37] Petrarca: Rerum Senilum Epistolae, citata da E. Renan: Averroès e l’averroïsme, op.cit.: 330
[38] E. Renan, Averroès et l’averroïsme, op.cit.: 337.
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Abdelkader Mouloud, professore di lingua e letteratura italiane all’Università di Casablanca (Marocco), ha studiato all’Università di Bologna, Dipartimento d’Italianistica, dal 1992 al 1995. Specializzato in Letteratura Comparata e Traduzione con particolare attenzione ai rapporti fra l’Italia e il mondo arabo, dal 2021 è il nuovo capo del Dipartimento degli Studi Italiani presso la Facoltà di Lettere e Scienze Umane Ain Chock di Casablanca.
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