di Pietro Clemente
Verso l’autunno del 2015 l’associazione Bianchi Bandinelli, che si occupa del patrimonio culturale, lanciò un bando per un premio il cui tema era “la tutela come impegno civile”. Io proposi tre candi- dature che mi parevano davvero pertinenti, il lavoro di Rosario Acquaviva a Buscemi, con la creazione di una rete di musei e di edifici storici che ricostruivano la cultura materiale degli Iblei, e che aveva avuto un riconoscimento formale dalla Soprintendenza regionale siciliana ma senza reali aiuti in loco; il lavoro nell’ex ospedale psichiatrico San Salvi di Firenze fatto dalla Compagnia teatrale napoletana (ormai fiorentinizzata) dei Chille de la Balanza, che trasformava l’OP abbandonato in luogo di cultura e con la passeggiata notturna nei luoghi della contenzione faceva vivere la memoria omessa e rimossa della psichiatria del Novecento; e infine Casa Lussu ad Armungia, dove un nipote di Emilio Lussu, politico sardista e socialista ma anche scrittore e mio amico di 52 anni più grande, Tommaso, era tornato da Roma nella casa degli avi ed aveva avviato una attività di tessitura tradizionale apprendendola insieme alla sua compagna Barbara dalla nonna di lei, e rianimando la vita della generazione dei quarantenni nel territorio con varie proposte di iniziativa per promuovere la diversità culturale e il patrimonio immateriale. Fu Tommaso Lussu a vincere in ex equo. Nel premio febbraio 2016 gli fu dato il premio (vedi il mio Casa Lussu. La casa della storia e delle storie in “Dialoghi Mediterranei”, n.19, maggio 2016).
Ecco come fu motivato il premio:
«Tommaso Lussu, archeologo, dopo un periodo di attività come restauratore si è trasferito in Sardegna ad Armungia, piccolo paese in provincia di Cagliari, nella regione storica del Sarrabus Gerrei. L’Associazione Casa Lussu, da lui fondata, ha sede all’interno della storica residenza della famiglia di Emilio e Joyce Lussu: una casa a corte, edificio abitativo rurale caratteristico della Sardegna dell’Ottocento. Presso quest’ultima, che ospita un museo storico dedicato alla memoria dei coniugi Lussu, l’associazione ha messo in opera un prezioso recupero di strumenti e pratiche della tessitura a mano con telai di legno, avviandone una nuova produzione e tenendo corsi di formazione. Casa Lussu ospita anche periodici incontri di studio sulla storia del Novecento ed esposizioni di opere contemporanee. Queste attività hanno dato un notevole contributo alla conservazione della memoria storica e allo sviluppo del piccolo paese di Armungia, tutelandone attivamente il patrimonio materiale e immateriale. Esprimono inoltre un metodo originale per “lo sviluppo di un economia dell’identità”, in un territorio di grande qualità storica e ambientale, ma in crisi demografica ed occupazionale».
Era poco più di un anno fa, forse giusto un anno e mezzo, e da allora sono successe varie cose, tanti incontri, scambi di esperienze e di scritture, che ora cerco di raccontare in polifonia con i protagonisti. Dopo il mio testo di apertura si trovano qui, infatti, i testi che fanno riferimento alle Associazioni impegnate nei piccoli paesi a rischio scomparsa e che hanno, per praticità, degli autori singoli ma che si riferiscono a soggetti complessi: Tommaso Lussu rappresenta l’associazione Casa Lussu, Gianpiero Giglioni la Cooperativa Teatro Povero di Monticchiello, Corradino Seddaiu l’associazione Realtà Virtuose di Padru, e Beatrice Verri è la direttrice della Fondazione Nuto Revelli di Cuneo e rappresenta il progetto Paraloup, Valentina Zingari lavora per Simbdea ICH (Intangible Cultural Heritage) e per il Comune di Cocullo al progetto di riconoscimento Unesco per il patrimonio culturale immateriale.
Nei testi che seguono queste attività culturali associative saranno raccontate. In esse è protagonista una nuova generazione che per semplicità chiamo dei ‘quarantenni’ e che è la vera condizione-risorsa della attività della rete dei piccoli paesi. Gli esponenti delle generazioni precedenti qui fanno da portavoce, interpreti, aiutanti. Ma al cuore di questa rete c’è una centralità del ‘fare’ che caratterizza anche gli incontri nei quali i protagonisti imparano vicendevolmente scambiandosi notizie su come hanno fatto, su cosa hanno fatto. Poiché questi paesi, che per me ormai sono più significativi di Tokio e di New York, sono difficili da trovare sulla carta geografica e rappresentano una idea nuova della centralità dei mondi minori, e delle ‘località’, ci sembra giusto collocarne l’attività dentro una cornice e uno scenario intellettuale che ha per me una epigrafe che traggo da un commento di T. W. Adorno agli scritti di Walter Benjamin, ed ha due Maestri contemporanei a cui fare riferimento, due autori che per me sono stati importanti a dare senso concettuale agli eventi e ai progetti: si tratta di Giacomo Becattini, economista dello sviluppo territoriale, scomparso da poco, originalissimo Maestro aperto al dialogo che ha operato all’Università di Firenze, e Alberto Magnaghi, urbanista fondatore della Società dei territorialisti, la cui attività si è svolta a partire dalla Università di Firenze [1]. I titoli dei libri che cito parlano da soli, essi sono dominati dal tema di una nuova coscienza, la coscienza di luogo.
Luoghi significa mondi piccoli, remoti, minori, interni, periferici, a portata e misura di uomini e donne, come gli orti o i piccoli paesi. E a questi luoghi si adatta questa espressione nata per indicare il metodo nella scrittura analitica di Walter Benjamin:
«Misura dell’esperienza, che fa da base a ciascuna frase di Benjamin, è la forza di porre incessantemente il centro in periferia invece di sviluppare il periferico a partire dal centro, come pretendono l’esercizio dei filosofi e della teoria tradizionale» [2].
«Porre il centro in periferia invece di sviluppare il periferico a partire dal centro» è esattamente l’idea che ci tiene in rete e che capovolge la tendenza della modernità, in cui i centri trascinano le periferie nella uniformità. Oggi invece è tempo che siano le periferie a definire nuove centralità basate sulle differenze e si facciano carico dell’immenso e titanico impegno di far voltare indietro lo sguardo delle grandi città. In altre parole una idea nuova di civiltà complessiva non può che nascere dai luoghi piccoli perché in essi sono visibili e riprogettabili i nessi che fondano la civiltà, le relazioni sociali e quelle con la natura. Cosa è in un piccolo paese una nuova nascita e cosa è in una grande città, suggerisce davvero l’idea che la vita come suo insieme profondo si può vedere molto meglio dai mondi piccoli. Pensare le città a partire dai paesi, è quel che insegna anche a fare Alberto Magnaghi [3] per dare il senso di un futuro complementare di queste due dimensioni. Ma dalla sola città, dal centro dell’attenzione sociale di oggi, non si arriva all’insieme perché la città è troppo lontana dai nessi fondamentali e pensarla come centro produce una distorsione drammatica sia nel campo demografico che in quello delle risorse e dei rapporti.
Effervescenza
Da febbraio 2016 a giugno 2016, in pochi mesi, Casa Lussu ha lanciato l’idea di festeggiare il premio con un evento culturale che ha avuto come titolo: “Andiamo ad Armungia a prendere il caffè: la cultura per la rinascita dei piccoli paesi”. L’idea era quella di mettere al centro le zone interne, il rischio del cratere demografico che è previsto per la Sardegna del 2050 (abitanti solo sulle coste) , e di chiamare l’attenzione della gente delle città che – venendo a prendere un caffè nel piccolo paese – prendessero coscienza di quanto lo spopolamento sia un problema di qualità della vita futura anche e forse soprattutto per loro. In questa circostanza identificammo i primi paesi compagni di viaggio, ci furono dichiarazioni di condivisione da parte della rete degli Ecomusei, della Società dei territorialisti, dell’associazione dei musei demoetnoantropologici SIMBDEA che si è fatta partner di questi progetti, e di due studiosi che scoprimmo essere già protagonisti di una rete dei paesi a rischio tra Piemonte e Calabria: Antonella Tarpino (storica, Fondazione Revelli) e Vito Teti (Antropologo, Università della Calabria), creatori della Rete del Ritorno, sono diventati protagonisti anche della rete dei piccoli paesi, in qualche modo attori e figure di riferimento perché al tempo stesso studiosi [4 e soggetti attivi nel ‘fare’ e nel ‘pensare’ i luoghi nei luoghi.
L’iniziativa di Armungia produsse un evento all’interno del Convegno del 7-9 ottobre 2016 La Piazza e la scena, per i 50 anni del Teatro Povero di Monticchiello, che ebbe una sessione iniziale dedicata alla costruzione della rete [5]. La rete dunque esisteva di fatto, per incontro fisico dei protagonisti, e fu effettivamente dichiarata in un seminario che si svolse a Roma presso la Fondazione Basso l’8 febbraio 2017 [6]. Non è una rete formale, una federazione, una associazione di associazioni, è solo un dialogo avviato tra diversi interlocutori che si scambiano esperienze convocandosi nei luoghi delle proprie iniziative culturali, promuovendone così anche la notorietà.
Il lavoro di autoformazione fu rafforzato con la presentazione dei libri L’Italia dei piccoli centri, numero unico della rivista Testimonianze (507-508, 2016) a cura di Severino Saccardi, e Il paesaggio fragile di Antonella Tarpino (Torino, Einaudi, 2016). Anche l’esperienza della rivista Testimonianze entrava in sintonia, portando l’eredità della visione di padre Ernesto Balducci e il dibattito sui problemi del presente. In questa circostanza fu elaborata una bozza di ‘Manifesto’ per definire le caratteristiche della rete, in un quadro di molteplici iniziative analoghe. Ma il Manifesto non nacque, era forse prematuro, e forse per le esperienze in atto lo scambio del ‘fare’ era più importante di una teoria dell’essere qualcosa e in qualche modo. Su questo le acquisizioni della rete sono liberamente individuali, la rete non ha sue teorie e princìpi, ma io posso dire cosa ci vedo, come la interpreto, come sto cercando di fare, e come altri possono fare anche diversamente, consapevole che è più l’antropologia del fare di una generazione che è in gioco, che una antropologia dei paesi a rischio che è altra cosa ed ha bisogno di sociologi, economisti, statistici, studiosi del turismo etc… Io ho imparato molto dal fare di queste realtà, e cerco di svolgere una mia parte riflettendo e collaborando da esterno.
A Roma nacque l’impegno di Soriano a ospitare una gita museale di Simbdea e a promuovere un convegno sul patrimonio locale il 25 e 26 marzo 2017. Una larga adesione, al centro i musei del territorio, visite alle strutture della modernità e a varie iniziative del vibonese hanno caratterizzato l’incontro che è qui testimoniato nel testo di Matteo Enia.
Armungia è tornata a giugno del 2017 con il secondo incontro chiamato ormai Festival: Un caffè ad Armungia – Festival dei piccoli paesi. Un evento nuovo con forte attrattiva sul territorio e tra le nuove generazioni, come si legge nel resoconto di Tommaso Lussu, qui pubblicato. Casa Lussu ha avuto un contributo regionale e si avvia a darsi una struttura stabile in forte collaborazione con i due musei del Comune: il Museo demo-etno-antropologico della comunità locale (Sa domu de is ainas – La casa degli oggetti da lavoro) e il Museo di Emilio e Joyce Lussu.
Da febbraio del Premio Bianchi Bandinelli a oggi ci sono stati dunque cinque eventi e a brevissimo ci sarà il sesto a Paraloup, il 29 e 30 settembre, dedicato a “Una scuola di memoria attiva per le comunità che (ri)abitano la montagna. Il buon uso della memoria come esercizio preliminare a ogni operazione di Ritorno”
A questa effervescenza si aggiunge, essendone parte, il volume di Vito Teti, Quel che resta, (Donzelli, 2017), in cui l’autore continua una antropologia del proprio mondo calabrese che muore e che cerca di rinascere, e ne declina alcuni temi fondamentali per una antropologia critica dell’abbandono e del ritorno. Una antropologia minuta e minuziosa, come la vita quotidiana dei piccoli centri, che ha il ritmo della quotidianità e delle sue emozioni. Che si caratterizza per la forza di una antropologia per la quale il ‘campo’ è in modo radicale il proprio mondo esistenziale con i suoi processi e i suoi dolori. La lunga ed ampia ricerca calabrese di Vito Teti, la sua antropologia nativa profonda, è anche la risorsa teorica più ampia di questi piccoli mondi, proprio perché incorporata, insieme soggettiva e raccontata, ma anche descritta e oggettivata, capace di una fenomenologia che è anche una guida vitale per quella antropologia del fare e di ciò che si fa, che oggi anima una nuova generazione di ritornati al paese.
Nel corso di questi processi anche il Comune di Cocullo, il suo museo legato al rapporto tra gli abitanti e l’ecosistema boschivo con al centro la festa di San Domenico e il mondo dei serpenti – amici, con il suo progetto di riconoscimento Unesco per il patrimonio culturale immateriale. Intorno alla data della festa, il primo maggio, SIMBDEA e il Comune hanno promosso un seminario di presentazione della candidatura, e su questi temi si era tenuto un convegno a Chieti, promosso da questa Università a dicembre del 2016 che aveva al centro la candidatura dell’elemento “Conoscenze, saperi e pratiche legati al culto di San Domenico abate e Rito dei serpari di Cocullo” nella Lista di Salvaguardia Urgente della Convenzione UNESCO ICH.. Anche se Cocullo non è stata fisicamente presente negli incontri di rete fino ad oggi (è spesso molto difficile per chi lavora nei piccoli paesi avere tempo e risorse, per partecipare agli incontri, il più delle volte assai decentrati), le sue attività sono entrate nella comunicazione e nella esperienza comune. Cocullo nella rete rappresenta un piccolo paese che nel tempo ha difeso e cambiato le sue tradizioni, e al quale aveva dato un contributo importante una antropologia di terreno legata al nome di Alfonso Di Nola, e al suo libro del 1976, Gli aspetti magico religiosi di una cultura subalterna italiana (Bollati Boringhieri). Il museo locale è appunto dedicato ad Alfonso Di Nola, e l’associazione che negli anni ha seguito l’attività e la memoria del territorio è intestata all’antropologo. Un nesso fortissimo tra uno studioso e una comunità.
In questa comunità di comunità, fatta da associazioni e cooperativa che si impegnano localmente sui temi dello sviluppo locale investendo sulla cultura e sul patrimonio culturale materiale e immateriale, si affacciano ora altre comunità sorelle: Topolò in Provincia di Udine, Altavalle in provincia di Trento. Speriamo di introdurre in futuro anche la loro voce.
I testi che seguono sono molto diversi tra loro, per presentarli seguiamo il calendario delle iniziative, si comincia quindi con Armungia: il testo scritto da Tommaso Lussu è un report ricco di informazioni e riassuntivo di esperienze e riferimenti, il testo su Monticchiello è una relazione tenuta nell’incontro di Roma alla Fondazione Basso, è una trascrizione e ne abbiamo mantenuto la freschezza e la polifonia, il testo di Matteo Enia su Soriano è anch’esso un rapporto sulle attività culturali a Soriano e sull’incontro della rete svoltosi in quella comunità. Lo scritto di Corradino Seddaiu è la trascrizione di un intervento svolto nel Festival di Armungia del 2017, quello di Beatrice Verri è invece un breve documento di presentazione delle attività di Paraloup, utilizzato in diversi incontri, ed è la base del lavoro sul ritorno in montagna, infine il testo di Valentina Zingari presenta il progetto Cocullo sul quale è in corso una candidatura Unesco e alcune linee di ricerca sui temi del patrimonio immateriale (saperi naturalistici e pratiche antropologico-religiose) .
Questi testi mostrano la polifonia della rete dei piccoli paesi, la varietà delle forme del fare e del raccontare. Questi eventi di incontro si stanno collocando quasi sistematicamente in quello che gli studi di folklore chiamano ‘ciclo dell’anno’, che concerne il calendario del ritorno delle stagioni e delle ricorrenze astronomiche e religiose che vi si connettono. Armungia ha addirittura legato il suo festival alla notte di San Giovanni e al solstizio. Credo che il calendario continuerà con ritorni e nuovi incontri mentre un congresso nazionale dei piccoli paesi (intesi come associazioni culturali e cooperative che operano localmente nel campo culturale per lo sviluppo) tende a delinearsi nel 2018, forse nel 2019. Con questo spazio su Dialoghi mediterranei vogliamo aprire anche altre realtà all’incontro e al confronto nonché alle riflessioni di lungo respiro che questi piccoli centri rendono necessarie.
Conclusioni
Proprio per questa necessità di confronto e di pensiero progettiamo di dedicare alcuni prossimi interventi a discutere libri e teorie, a dare una prima idea di un possibile ‘Manifesto’ delle pratiche locali e della critica delle ideologie e delle politiche che le rendono difficili o invisibili. Oltre che dare voce a nuove comunità. Ora vogliamo solo anticipare in chiusura alcune possibili tracce. Sono citazioni di mie letture lontane e vicine.
Quella vicina è dal libro di Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, (ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2016) . Mi aiuta alla sintesi la prefazione di Andrea Riccardi. Annota Gesualdi alla fine di questo libro: «Priore del niente di Barbiana (…) quel niente che lui ha fatto fiorire e fruttificare prendendosi cura degli altri». Oggi Barbiana resta un fatto della nostra storia, nonostante la sua piccolezza, ma anche un simbolo. Un simbolo su cui converrebbe interrogarsi. La dimostrazione di quanto, in condizioni impossibili, possono fare un uomo o una donna che amano e lavorano per gli altri … Torna alla mente quanto scrisse alla madre: «La grandezza di un uomo non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani».
Don Milani è stato una straordinaria compagnia nella mia vita di studente in rivolta. Nel 1967 aprii una grande assemblea di studenti alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, citando due soli testi La Lettera a una professoressa e l’Autobiografia di Malcom X. Ancora adesso sintetizzo le attività culturali che faccio con tanti altri con una frase lapidaria di Don Lorenzo e dei suoi ragazzi: «sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica». Quanta fatica si fa a sortirne insieme; le nostre vite, e anche la mia sono come chiuse nell’impossibilità di trovare forme nuove di ‘sortirne insieme’. Da agnostico ho letto sempre gli scritti di Don Milani in una chiave laica. Leggendo questo testo di Gesualdi ho finalmente capito che non lo posso e non lo devo fare. La dimensione religiosa è centrale anche nella sua scuola di Barbiana, contro la scuola di classe. Ma anche adesso quell’esperienza religiosa di amore per i poveri mi aiuta a pensare laicamente. Nell’esperienza di Barbiana la coscienza di classe era in qualche modo anche coscienza di luogo. E Don Milani, nel sottolineare le competenze dei bambini di montagna, e il loro valore, agiva quasi antropologicamente a mostrare le differenti culture, si avvicinava ai temi delle culture rurali che anche io transitai in Toscana e in Sardegna e che Carlo Levi raccontò in Basilicata. Quelle della restanza e del ritorno che Vito Teti continua a raccontare. Così quest’etica degli ultimi che ho imparato a criticare come laico la sento ugualmente dentro di me, come un fondamento: «E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani», è come ‘porre il centro in periferia’, ripartire dal locale e dal piccolo. Non è questione di quantità. Nel libro di Gesualdi sono stato molto colpito dal dialogo bellissimo e emozionante tra Don Lorenzo e sua madre, agnostica come me, durato sempre con grande ricchezza e sincerità.
Voglio proporvi un altro salto all’indietro sulla riflessione di questi temi, qui è Claude Lévi Strauss che parla:
«Occorre dunque ammettere che ragioni più profonde, d’ordine sociale e morale, mantengono il numero degli individui destinati a vivere insieme entro certi limiti, tra cui si collocherebbe quella che potremmo chiamare la popolazione ottimale. Sarebbe dunque possibile verificare sperimentalmente l’esistenza di un bisogno di vivere in piccole comunità, bisogno che è forse condiviso da tutti gli uomini; ma che non impedisce alle comunità di unirsi quando una di esse subisca un attacco venuto dall’esterno …..Contrariamente a Rousseau, che voleva abolire nello Stato tutte le società parziali, una certa restaurazione delle società parziali offre un ultimo strumento per rendere alle libertà malate un po’ di salute e di vigore. Purtroppo non dipende dal legislatore far risalire alle società occidentali la china su cui stanno da parecchi secoli scivolando … Ma può almeno mostrarsi attento all’inversione di tendenza di cui qua e là si scorgono gli indizi; incoraggiarla nelle sue manifestazioni imprevedibili….» [7].
Un testo che mi ha molto colpito e che continuo a portarmi appresso, e che sta in una raccolta in cui Lévi Strauss critica l’Unesco e l’antirazzismo istituzionalizzato, e che ha avuto anche alcune letture di destra. E in cui parla della libertà non certo nei modi dell’universalismo figlio della rivoluzione francese e che fu comune anche alla sinistra marxista (Gramsci ad esempio scrisse pagine di fuoco contro le culture ‘paesane’[8]) . Con il suo ‘sguardo da lontano’ impietoso, che lo ha portato a definire le società umane avanzate come una metastasi del mondo naturale, qui il Maestro francese ‘antiumanista’ non nasconde una dimensione di pietas e un avvertimento umanista. E segnala una tendenza che in più cicli appare, ma poi anche recede e scompare, quella del ‘ritorno’ . Anche questi pensieri della libertà letti insieme con quelli di Don Milani e con il porre il centro in periferia, fanno un piccolo patch work per il lavoro riflessivo.
Tutti i nostri pensieri oggi però vanno a Ischia, ad Amatrice, a Lampedusa, i piccoli paesi che sono diventati frontiera del mondo e del futuro. Macerie di case e di esseri umani al centro di un futuro incerto, in cui ancora una volta la periferia è il centro e il campo di battaglia.
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Note
[1] Solo un testo per ciascuno Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2010, Giacomo Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma 2015.
[2] T. W. Adorno, Introduzione agli ‘Scritti’ di Benjamin, in Th. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, Torino, Einaudi, 1979: 246,
[3] Alberto Magnaghi, Piccole città crescono. Il ritorno del comune, in Testimonianze n. 507-8, L’Italia dei piccoli centri, 2016, a cura di S. Saccardi, Alberto Magnaghi, Alzare lo sguardo, poi sorvolare, o guardare a terra? in Il Manifesto , marzo 2017
[4] V. Teti, Il senso dei luoghi, Donzelli, Roma 2004, Antonella Tarpino, Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi, Torino, 2016
[5] Venerdì 7 ottobre: Comunità resistenti: la progettualità culturale come strategia di resistenza alla marginalità. Un’ideale mappa italiana. Interverranno: Vito Teti (esperienze calabre); Antonella Tarpino e Marco Revelli (la borgata Paraloup nelle Alpi cuneesi); Tommaso Lussu (Armungia, Sardegna).
[6] All’ordine del giorno le esperienze legate al patrimonio culturale immateriale e alla memoria fatte da quattro comunità patrimoniali: Casa Lussu di Armungia (CA), Teatro Povero di Monticchiello (SI), Soriano (VV) Paraloup (CN) .
[7] C. Lévi Strauss, Riflessioni sulla libertà, in Lo sguardo da lontano. Antropologia, cultura, scienza a raffronto, Torino, Einaudi, 1984. Lo scritto sulla libertà è stato pensato nel 1976 per una occasione pubblica
[8] P. Clemente, Paese/Paesi, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Struttura ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1997: 5-39,
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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