per Consagra
di Mariella Pasinati
Pietro Consagra, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita (Mazara del Vallo 1920 – Milano 2005), ha incarnato il tipo dell’artista novecentesco per eccellenza. Dalla seconda metà degli anni ’40 fino alla fine degli anni ’80, infatti, la sua straordinaria attività creativa si è svolta parallelamente sul piano del linguaggio visivo e su quello altrettanto intenso della scrittura attraverso la quale l’artista ha precisato i suoi intenti, i termini programmatici del proprio lavoro e ha espresso le sue considerazioni critiche sul contesto artistico e culturale del suo tempo, a volte con una notevole vis polemica, sempre con autenticità.
Si tratta di scritti teorici e critici, sviluppati in libri e in interventi su quotidiani e riviste, nonché di riflessioni personali e poetiche [1]. Tutti questi testi hanno costituito certamente una fonte preziosa per la ricostruzione del suo percorso creativo e per la definizione della sua poetica, ma soprattutto hanno reso evidente quella necessità del comunicare che ha caratterizzato l’arte a partire dalle avanguardie di primo Novecento, oltre che la particolare esigenza interiore dell’artista. «Lo scrivere mi costringe […] a vedere a che stato di attenzione e anche di sintesi […] che giudizio mi viene sulle cose»[2] rivela infatti a Carla Lonzi in Autoritratto.
In scultura questa necessità si è tradotta nella frontalità, una delle più radicali innovazioni linguistiche del secondo Novecento. Siamo di fronte ad una scelta sostenuta da una determinata e costante disposizione ideale che ha contraddistinto tutto il suo percorso artistico, segnato dalla ricerca di un’arte svincolata da ogni schema, come fondamento di libertà, anche rispetto alla fruizione, e contro ogni dogmatismo, ogni rigidità tipici del potere.
Fin dal 1947 quando partecipa a Forma 1, il primo gruppo di artisti italiani costituitosi nell’ambito dell’arte astratta [3], la sua ricerca è orientata alla definizione di un vocabolario non oggettivo attraverso cui formulare un nuovo rapporto tra l’oggetto e la società, per rinnovare la vita artistica e civile dell’Italia del dopoguerra e promuovere una scultura che non sia «distaccata dall’intelligenza dell’uomo, senza idee, senza pensiero»[4]. È il periodo della militanza nel P.C.I. (1947-1956), dell’utopia di una possibile conciliazione di politica e cultura d’avanguardia [5] per rispondere all’esigenza di mettere l’arte in contatto con la vita. Ma è anche il periodo delle acute divergenze ideologiche rispetto alle scelte del partito in ambito artistico [6] caratterizzate dall’asservimento dell’arte alla propaganda politica attraverso il dogma del realismo socialista contro cui Consagra si esprimerà in termini espliciti [7]. Più tardi, nel 1980 nella sua autobiografia Vita mia scriverà che «il nostro partito ha dovuto sopportare il peso di due nemici superflui […] inventati dalla paura, dalla impreparazione e dalla mentalità settaria dei sergenti del Realismo ‒ il riferimento è ad Antonello Trombadori e a Renato Guttuso ‒ […] I due nemici inventati furono: 1) l’arte moderna dall’Impressionismo fino all’Astrattismo; 2) l’architettura moderna»[8].
Dal punto di vista formale con il passaggio all’astrazione, la produzione degli anni dal 1947 al 1952 è caratterizzata da forme stilizzate e pure, opere di ispirazione costruttivista, dai lavori più filiformi alle sculture verticali in ferro ‒ totemiche ‒ come le definisce lo stesso artista, che già anticipano uno schema frontale. Sono gli anni di opere come Plastico in ferro (monumento al partigiano) del 1947 e Manifesto elettorale del 1948.
La prima teorizzazione della frontalità risale al 1952 e l’artista la spiega così:
«[...] La frontalità è nata dentro di me come alternativa al totem, cioè alla scultura che doveva nascere al centro di uno spazio ideale. Presentando un’urbanistica diversa, cioè quella della frontalità, mi sono tolto dal proposito di occupare uno spazio al centro del quale costruire qualcosa, un punto di attenzione convergente. La frontalità io l’ho sentita come un ridimensionamento delle pretese che si erano accumulate intorno alla scultura, pretese religiose, sociali, di ordine costituito passato o futuro; ho voluto scaricare la scultura da tutte queste pretese di simbolo per creare un rapporto più diretto, frontale appunto, a tu per tu, con lo spettatore… ho sentito questo bisogno: togliere la scultura dal centro ideale»[9].
C’è dunque più di una intenzione alla base della scelta estetica e del rifiuto della tradizionale tridimensionalità della scultura monumentale: c’è il tentativo di recuperare la valenza originaria della scultura, sottraendola alla convenzionalità retorica e all’autoritarismo di piedistalli e gerarchie, c’è la volontà di sviluppare un rapporto libero e diretto con il pubblico, promuovendone la partecipazione attiva, c’è il proposito di instaurare un nuova relazione con l’ambiente e una diversa visione dello spazio.
È ancora l’artista a chiarire quest’ultimo punto a Carla Lonzi:
«La mia scultura è frontale perché nasce da considerazioni tecniche di semplificazione del punto di vista costruttivo e dei materiali, ma soprattutto perché nasce dal concetto di Spazio Differente. … Gli elementi plastici ridotti al piano, a una semplice sovrapposizione di piani sono stati la conseguenza tecnica del mio rifiuto alla plastica modellata risolvendo con la minima spesa una scultura fatta di metallo leggero, strisce di legno o di ferro»[10].
Si afferma così un’idea di arte – di forma – che di per sé rimanda ad un dialogo col mondo e un nuovo orizzonte della scultura, quale territorio di incontro, di scambio umano e sociale. Sul piano del linguaggio formale la frontalità, quest’idea alternativa di spazio, si esprime primariamente nel passaggio dalla verticalità all’orizzontalità, intesa come luogo dei rapporti, «nell’ipotesi di uno spazio colloquiale». Ne deriva la serie dei Colloqui dove il dialogo oltre che fra scultura e fruitore, si materializza fra gli elementi stessi che compongono l’opera e nel contrasto superficie/profondità. Dal punto di vista visivo, infatti, le sculture sono concepite secondo uno schema bidimensionale di forma quadrangolare e dal perimetro irregolare, uno schema che si presenta a volte più aperto, con due/tre elementi che esplicitamente si confrontano (Colloquio col tempo, 1957), a volte in forma più compatta (Colloquio fermo, 1960).
Sono piani sottili che l’artista dispone in modo da ottenere un contrasto dinamico accostando e sovrapponendo le superfici di diverso spessore che ora avanzano ora arretrano presentando fenditure e tagli più o meno ampi e profondi, vuoti che liberano le forme e immettono lo spazio esterno all’interno della figura. Il gioco di contrasti chiaroscurali delle superfici è messo in evidenza dal materiale impiegato, in un primo momento il ferro, poi il bronzo e, dal 1954 anche il legno bruciato, a volte con inserti in bronzo, che notevolmente accentua l’effetto dinamico ‒ e drammatico ‒ di superficie.
Dopo il 1964, l’elaborazione del linguaggio procede con le serie dei Piani sospesi, Piani appesi, Ferri trasparenti, Giardini, tutte impostate secondo la medesima razionalità operativa e procedurale, a partire dalla definizione della forma attraverso il disegno, come specifica lo stesso artista: «Tutte le mie sculture sono nate da un disegno. I disegni sono immediati e mai ripresi con aggiustamenti. Se il disegno è perfetto, diventa una scultura, altrimenti resta disegno. Perfetto, se è come una cellula organica vivente e riproducibile»[11]. Questa caratteristica era ben presente ad Ugo Mulas, il grande fotografo e amico di Consagra, che ha saputo raccontare il lavoro degli artisti comprendendone il comportamento durante l’atto creativo ed esplicitandolo nell’immagine. Mulas, infatti, sottolineava che Consagra «lavora su dei disegni che, attraverso vari passaggi, sono arrivati all’esattezza di quelli di un ingegnere, dove tutto è tradotto in numeri […] Questo vuol dire che è inutile fotografare Consagra mentre esegue l’opera; bisogna invece cercarlo prima, fra i suoi disegni e le macchine da proiezione, fra i soggetti delle opere e gli enormi disegni esecutivi»[12].
È dunque nella seconda metà degli anni Sessanta che Consagra imprime una svolta significativa al suo lavoro: lo spessore dei piani si riduce, le forme si fanno più morbide, le superfici si incurvano lievemente e si colorano di tinte delicate: rosa, turchese, viola, la scultura diventa più briosa e leggera. La scelta cromatica, quasi una risposta alla Pop Art, in realtà non è del tutto nuova, come lo stesso Consagra dichiarava nell’intervista a Carla Lonzi già citata, le sculture in ferro degli anni Quaranta, infatti, erano state colorate col minio e a volte in blu, grigio o nero, allo scopo di proteggerle dalla ruggine. Ora, però, l’artista spiega che il colore risponde a un preciso intento formale ed espressivo, costituisce «un alleggerimento della tensione dalla mia scultura e dal senso polemico della frontalità. Il colore, quindi, per me non è stato un aggiungere ma un togliere»[13].
Le prime nuove sculture colorate sono i Piani sospesi superfici sottili in legno o alluminio tagliati e dipinti su ambo i lati, traforati così da lasciare ulteriormente percepire lo spazio, da far passare la luce e l’aria; sospesi dall’alto si muovono e sono visibili dai due lati, come Piano sospeso viola (1965). È così che prende forma una prima versione della bifrontalità. Lo stesso avviene con i Ferri trasparenti, del 1965-66, che ulteriormente diversificano il rapporto di fruizione e l’interazione con lo spazio dal momento che sono sculture che possono girare su se stesse, vuoi che siano sospese o rette da un’asta sottile (Ferro trasparente rosa, 1966). Per la loro forma si potrebbe pensare a queste opere come a segni di un nuovo riferimento alla natura, «alberi di un umanesimo da utopia» come li ha definiti Giuliano Briganti che però acutamente sottolineava che «La natura […] è lontana da questi alberi di ferro, queste sezioni colorate di tronchi, così come ne è lontano ogni richiamo organico e psicologico, ogni presenza umana. Non sono simboli, ma forme, idee di forme»[14]. Lo stesso vale per la serie dei Giardini dove le lamine leggere dai colori vivaci e dai profili curvilinei e frastagliati sono segnate da tagli e fessure che a volte seguono una direttrice a spirale definendo forme libere ed espanse (Giardino arancio, 1966).
Durante il soggiorno negli Stati Uniti, fra il 1968 e il 1969, seguono le Sottilissime che rispondono all’esigenza di Consagra di sperimentare un materiale capace di autosostenersi ma sottile come carta. Sono forme diafane, realizzate con fogli d’acciaio dello spessore di soli due decimi di millimetro attraversati da una trama di segni incisi che creano un effetto di trasparenza, rarefazione e smaterializzazione consentendo di leggere lo spazio oltre la trama (Sottilissima possibile numero 1, 1968).
Dalla estrema sottigliezza al suo opposto, il grande spessore di un edificio, il passo è breve. Così, a partire dalla fine degli anni ’60, la pratica artistica di Consagra si estende alla dimensione architettonica con gli Edifici Frontali che traducono direttamente in architettura la sua idea della frontalità. La riflessione sulle relazioni fra il linguaggio della scultura e quello dell’architettura, in realtà era già iniziata negli anni ’50 e continuerà ad essere un elemento centrale nel suo percorso creativo. Ma l’istanza che lo muove nel ripensare la frontalità in termini architettonici non è meramente teorica, puro esercizio intellettuale, è sostenuta invece da una forte spinta ideale. Il suo interesse per l’architettura, infatti, si manifesta fin dagli scritti del 1952 dove afferma la necessità e la possibilità di una collaborazione dell’arte astratta con l’architettura moderna, nonché la responsabilità degli artisti «di rispondere positivamente con la loro opera per un’estetica che abbia per oggetto lo sviluppo dell’uomo nuovo»[15].
Non si tratta dunque di una mera operazione di abbellimento e decorazione degli edifici e degli spazi urbani, bensì della necessità di far vivere una nuova concezione della città basata su un rapporto armonico fra architettura e ambiente e di determinare migliori condizioni del vivere, grazie a strutture ed architetture dalle forme originali, ad uno spazio «mobile, provvisorio, trasparente, paradossale» in grado di porsi in condizione di dialogo con chi lo abita per esaltarne le capacità creative [16].
Svilupperà la sua concezione urbanistico-architettonica nel libro La città frontale, pubblicato nel 1969, dove afferma che
«la città frontale è possibile, può nascere oggi e dovrebbe già essere impiantata: non è una città del futuro. [...] non vorremo più stare dentro dei cubi, […] non vorremmo stare dentro alcuna dimensione prestabilita dal carattere di produttività standardizzata, non vorremo stare dentro alcun concetto di stabilizzazione. Qualsiasi spazio ci capiterà di dover usare, deve essere mobile, provvisorio, trasparente, paradossale, sfuggente alle strutture eternali di Potere, disponibile alla mutabilità delle scelte»[17].
Questo compito innovativo, tuttavia, per Consagra non può che spettare ormai all’artista, il solo che può riconsegnarci «una Città da vedere». L’analisi delle città americane, infatti, lo ha confermato nella convinzione dell’inadeguatezza degli ambienti urbani contemporanei, espressione di una organizzazione dogmatica e gerarchica del “Potere”, e si è acuita la sfiducia e la critica nei confronti degli architetti che sembrano essersi sottratti al loro ruolo: «Per l’Architetto non ha senso la rinuncia, non ha senso la crisi. Quanto più si inserisce nel Potere tanto più si sentirà riuscito e utile. Il Potere non può disgustarlo»[18].
Da queste riflessioni nascono dunque i progetti degli Edifici Frontali in acciaio inox, concepiti come strutture trasparenti e articolate, caratterizzate dalla continuità di piani curvi e avvolgenti; in questi ambienti coloro che li abitano non saranno solo accolti ma diventeranno, nell’intenzione dell’artista, «autori interni» in un processo di partecipazione che li rende «partner dell’artista»[19].
L’occasione per mettere alla prova la frontalità in architettura è data, dopo il terremoto del 1968, dalla costruzione di Gibellina nuova, lo straordinario esperimento voluto dal sindaco Ludovico Corrao, una scommessa sulla capacità trasformativa dell’arte nel rendere la città luogo di vita e partecipazione attiva, capace di stimolare in chi vi risiede il desiderio di abitarla in maniera creativa. Di quella eccezionale esperienza resta oggi il museo a cielo aperto che Gibellina rappresenta, ma la città vivente purtroppo non è riuscita a conciliarsi con la città di pietra.
Consagra contribuisce al piano architettonico-urbanistico della nuova Gibellina con la progettazione, nel 1972, di due edifici: il Meeting e il Teatro frontale. Il primo, portato a termine nel 1984 e destinato ad essere sede di incontro ed eventi, si presenta come una struttura piatta, dalla facciata caratterizzata da linee curve continue che ne definiscono il profilo e superfici chiuse che si alternano ad estese aree vetrate che consentono intensi giochi di luce e trasmettono un effetto complessivo di trasparenza; il secondo è una terribile incompiuta, anche in cattivo stato di conservazione, come del resto molte delle altre opere d’arte che segnano il territorio urbano. È di questi giorni, tuttavia, la notizia che è appena iniziato il restauro delle sedici grandiose opere di Consagra che formano La Città di Tebe costruite come scenografia per l’Edipo Re rappresentato alle Orestiadi del 1988 e oggi collocate di fronte al palazzo del comune, certamente una buona notizia per celebrare il centenario della nascita dell’artista.
Negli anni a Gibellina, Consagra realizza anche diverse altre sculture che fanno della città la più significativa e varia concentrazione di opere del maestro siciliano, un insieme che testimonia buona parte della sua ricerca estetica: Riferimento all’unicità e Riferimento all’irripetibile (1977) che formano il cancello di ingresso al cimitero monumentale di Gibellina (scelto dall’artista come ultima dimora), la ormai celebre, imponente porta di accesso alla città, La stella del Belice (1981), il gruppo di sculture antistanti la casa di riposo per anziani Tris (1988) e la Porta del Cremlino (1996) che segna l’ingresso all’Orto botanico. Altri lavori si trovano anche al Museo delle trame mediterranee e in quello d’Arte Contemporanea.
La ricerca visiva in architettura si articolerà ulteriormente negli anni Novanta con le Facciate di Ghibli città frontale (1995) intitolata al vento del deserto che, nell’interpretazione di Consagra, spiritosamente ne “sferza” le forme. Identificate in relazione al colore, le composizioni sono determinate a partire dalla dimensione geometrica che l’artista segna con tagli, slabbrature, aperture dai profili definiti, in alcune di esse, da decorazioni e modanature che richiamano negli andamenti arcuati le forme e i ritmi delle sue sculture.
Ma la matrice originaria di tutte le facciate è il progetto concepito per l’edificio comunale di Mazara del Vallo (1984), nato per un moto interiore immediato che l’artista ha spiegato così: «Quando ho visto l’insopportabile edificio del nuovo Palazzo Comunale, costruito in tempo record nella più bella piazza settecentesca di Mazara del Vallo, mi sembra fosse nel 1983, mi indignai per l’incoscienza dell’amministrazione cittadina. […] non riuscivo a disinteressarmi a quel guaio, non me la sentivo di arrendermi, di cedere all’irreparabile. Infine mi venne l’idea di progettare una facciata, traforata da sculture-finestre, da sovrapporre a quella mostruosità»[20]. Purtroppo, dopo oltre trent’anni dal primo progetto ‒ e dagli altri che sono stati ideati nel corso del tempo ‒ dopo incertezze, ostilità, pasticci, quell’occasione unica per la città è stata colpevolmente mancata. C’è da augurarsi che sulla spinta del centenario Mazara sappia ricomporre il rapporto con l’artista restituendo integrità, immagine e valore alla scultura-fontana donata da Consagra alla sua città natale (Uomini che vengono dal mare, 1962) attraverso il restauro e l’attivazione di una corretta funzionalità.
Il 1972 è un anno importante per l’evoluzione del linguaggio della spazialità; Consagra partecipa alla Biennale veneziana con Trama: sette sculture bifacciali in legno dipinte in vari colori (bianco, nero, celeste e marrone), di consistente spessore ed alte quasi tre metri sono collocate a distanza ravvicinata su un’unica piattaforma, a definire un ambiente all’entrata del Padiglione centrale che il pubblico deve attraversare per accedere alla mostra “Aspetti della scultura contemporanea”. La disposizione e l’altezza delle singole opere rendono impossibile una visione a distanza, il punto di vista è raddoppiato nei due fronti dello stesso corpo e chi visita la mostra è coinvolto in un rapporto di fruizione molto fisico, in uno spazio da penetrare. Ma alla fine del percorso si può anche sperimentare un modello di plasticità e spazialità del tutto opposto, sfogliando Un millimetro, piccolo libro-scultura in acciaio collocato su un piedistallo e composto da 12 pagine.
Lo stesso anno Consagra realizza anche i primi lavori con pietre di diverse caratteristiche fisiche e cromatiche; nell’autobiografia scrive di essersi «sentito molto fortunato a entrare nella scultura in marmo con tutta la variabilità del colore che altri scartano come disturbo all’unicità plastica»[21]. E saranno in marmi policromi anche le opere della serie Paracarri (1974) che reinterpretano i dissuasori in pietra tipici delle città italiane, elementi architettonici che per la forma che rimanda all’organo sessuale maschile possono essere letti come espressione e simbolo del potere patriarcale maschile.
Il tema della bifrontalità viene ulteriormente declinato, dal 1978, con la serie degli Addossati, con i quali Consagra esplora la doppia frontalità a partire dalla distanza tra due sculture di forma diversa accostate a formare un’unica figura. Sono in un primo momento opere di piccole dimensioni in alabastro, in marmo nero e bianco, poi anche imponenti come La materia poteva non esserci, la maestosa struttura in cemento armato alta 18 metri eretta nel 1986 nel paesaggio della Fiumara di Tusa. L’opera si compone di due piastre, due vaste arcate di curve leggere traforate e colorate in contrasto bianco-nero, con la facciata bianca rivolta verso il mare; indipendenti dal punto di svista strutturale, sono poste a breve distanza l’una dall’altra così che l’intercapedine che le distanzia sia percorribile mentre, da una visione frontale esterna, ogni lato consente di osservare buona parte delle forme della piastra posteriore: uno straordinario esempio di quello che l’artista ha definito «il miracolo del colloquio tra una scultura e l’ambiente circostante, sconfinato in questo caso, e a cielo aperto»[22].
Fra le opere degli ultimi anni sono le Porte del Cremlino (1990-91) e la Doppia bifrontale del 2000, riproposta nel 2003 in dimensioni maggiori per la sede del Parlamento Europeo a Strasburgo. Nelle Porte il distacco fra i piani, la fessura, il taglio si fanno passaggio e si manifesta una nuova variante della bifrontalità, nella definizione della sagoma del varco che segna l’attraversamento e relaziona due diversi punti di vista della stessa, identica figura. Si tratta di una dozzina di modelli in legno dipinto, di queste, oltre alla porta che segna l’ingresso all’orto botanico di Gibellina, è stata realizzata in pietra anche la Porta numero 10, fatta da grandi blocchi di marmo rosso di Verona e botticino sovrapposti ed alternati, oggi nel Parco di sculture di Briosco della Fondazione Pietro Rossini.
La Doppia bifrontale si presenta invece come la giustapposizione in un’unica figura uniformata dal colore bianco di due bifrontali con diverso appoggio alla base e differenti nel segno che ne definisce i profili, con forme ondulate per una, frastagliate secondo una linea spezzata per l’altra.
Fino alla fine del suo percorso umano ed artistico Consagra ha dunque continuato a sviluppare ed arricchire il suo vocabolario di forme mettendo continuamente a nuova prova la finalità e i concetti chiave della sua pratica creativa. La frontalità, un nuovo rapporto tra oggetto e spazio, tra scultura e ambiente attraverso il coinvolgimento del fruitore/della fruitrice sono stati il perno di una ricerca e di una pratica di autoregolazione frutto di una necessità interiore autentica, di «un’esperienza dentro se stessi»[23].
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] L’autobiografia Vita mia, Feltrinelli, Milano 1980, con la quale vinse il premio letterario Mondello e la raccolta di poesie Ci pensi amo, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1985.
[2] Carla Lonzi, Autoritratto, con prefazione di Laura Iamurri, et al./edizioni, Milano 2010: 30; la prima edizione, senza prefazione, è stata pubblicata da De Donato, Bari 1969.
[3] Carla Accardi, Ugo Attardi, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato.
[4] Pietro Consagra, Necessità della scultura, Lentini, Roma 1952, in Consagra che scrive, scritti teorici e polemici 1947/89, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989: 21.
[5] «Noi ci proclamiamo formalisti e marxisti, convinti che marxismo e formalismo non siano inconciliabili…» così si apriva il Manifesto Forma 1.
[6] «Io e Turcato eravamo considerati nel Partito una coppia di pecore nere» (P. Consagra, Vita mia, Feltrinelli, Milano 1980: 68)
[7] Pietro Consagra, In difesa dell’Astrattismo, in Consagra che scrive, scritti teorici e polemici 1947/89, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989: 15.
[8] Pietro Consagra, Vita mia, Feltrinelli, Milano 1980: 80.
[9] Carla Lonzi, Intervista a Pietro Consagra, catalogo della mostra personale, Galleria dell’Ariete, Milano 1967 in Carla Lonzi, Scritti sull’arte, et al./edizioni, Milano 2012: 510.
[10] Carla Lonzi, Autoritratto, cit.:76.
[11] Pietro Consagra, Vita mia, cit.: 142.
[12] Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 1973: 61.
[13] Carla Lonzi, Intervista a Pietro Consagra cit.: 512.
[14] Giuliano Briganti, Il mondo vestito di ferro, in “L’Espresso”, 4, 22 gennaio 1967: 17.
[15] Pietro Consagra, Necessità della scultura cit.: 22.
[16] «Se siamo sicuri che un edificio deve superare le sue funzioni pratiche, tanto da affermare che più che funzionale e retorico, opulento, demagogico, deve essere un’opera nuova, un’opera che rifletta un rapporto nuovo tra fruitore e oggetto, è chiaro che vogliamo affrontare un campo minato: addentrarci nella responsabilità di aver fiducia in una diffusione differente della coscienza plastica a livello dell’opera d’arte». (Pietro Consagra, Architetti mai più, Prearo editore, Milano 1993: 21).
[17] Pietro Consagra, La Città Frontale, De Donato, Bari 1969: 13.
[18] Ivi: 30. Sulla critica agli architetti vedi anche Carla Lonzi, Autoritratto, cit.: 177-180 e Pietro Consagra, Architetti mai più, Prearo, Milano 1993.
[19] «Se ora consideriamo la città frontale come una dimensione oltre i problemi plastici e introduciamo in essa tutta una serie di concetti che riguardano la vita, i rapporti sociali, le cose, nella grande apertura dobbiamo registrare, accogliere la presenza del nuovo personaggio che costituisce il fruitore: l’autore, il partner dell’artista» (Pietro Consagra, Architetti mai più cit.: 21).
[20] Paola Nicita su exibart 8/5/2001 https://www.exibart.com/sicilia/intervista-a-pietro-consagra/ .
[21] Pietro Consagra, Vita mia cit.: 34.
[22] Paola Nicita, cit.
[23] Carla Lonzi, Autoritratto cit.: 177.
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Mariella Pasinati, già insegnante di storia dell’arte, è impegnata nella ricerca e nella pratica pedagogica ed è presidente della Biblioteca delle Donne e centro di consulenza legale UDIPALERMO onlus. Autrice di saggi di storia e critica d’arte sull’opera di artiste contemporanee, ha anche curato: Insegnare la libertà a scuola. Rendere impensabile la violenza maschile sulle donne (Carocci, 2017); Riletture (Ila Palma, 1999); Parole di libertà (Ila Palma, 1992).
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