di Antonio Pane [*]
Il percorso di studi che il 7 aprile 1922 porta Pizzuto a laurearsi in Filosofia inizia subito dopo il conseguimento della laurea in Giurisprudenza (il 19 giugno 1915, con una tesi di economia e statistica sulla coltivazione del caffè in Brasile, relatore Costantino Bresciani Turroni). La immatricolazione alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo reca la data del 31 agosto 1915 (numero 610, foglio 610).[1] Lo stesso giorno infatti «Pizzuto Antonino, di Giovanni, da Palermo (170 Corso Calatafimi)», prega il Magnifico Rettore di «volerlo iscrivere al terzo anno per la Laurea in Filosofia», chiedendo insieme l’esenzione «dell’intera tassa d’immatricolazione e d’iscrizione», «avendo riportato negli esami obbligatori dell’ultimo biennio del corso di Giurisprudenza e nell’esame di Laurea la votazione prescritta dal regolamento».[2] La richiesta si appoggia anche a un apposito Stato di famiglia, rilasciato dalla Giunta Municipale, che offre preziosi ragguagli sulla situazione dello studente ventiduenne (nato a Palermo il 14 maggio 1893). Vi si apprende che Pizzuto vive con i genitori, Giovanni Pizzuto Viola, sessantanovenne, e Maria Amico La Russa, cinquantottenne, il fratello Ugo, di vent’anni, e la sorella Serafina di diciotto, entrambi «a carico della famiglia»; che nessuno di loro ha un’occupazione (del padre, «impiegato avventizio», si dice che «ricavava £. 90 mensili» e che «da un pezzo è disoccupato causa l’attuale crisi»); che gli unici proventi del nucleo familiare derivano da «un terreno rustico e una casetta come da Certificato dell’Agente delle Imposte per Castronuovo di Sicilia»;[3] e che «la dispensa dal pagamento delle tasse scolastiche per il figlio Antonino è stata accordata annualmente fin dall’anno scolastico 1909/1910» (ossia quello della prima Liceo al «Vittorio Emanuele II»)[4]: notizia quest’ultima che può forse indicare un termine del progressivo degrado delle condizioni economiche della famiglia evocato nel decimo segmento Si riparano bambole, laddove si legge che il padre dell’autobiografico protagonista «una bella volta ottenne di impiegarsi, ma troppo tardi per mettere in sesto la baracca con centoventicinque mensili. Andava dalle due alle quattro, sotto il sole cocente, nell’educatorio vicino a compilare ricevute»; che «ogni tanto, saldato il conto precedente, mandava lettere gentilissime al direttore di una banca popolare di provincia per aprirne altre»; che «il campanello squillava in un continuo contrappasso di citazioni diffide e ufficiali giudiziari».[5] Fra le carte pizzutiane ereditate dalla figlia Giovanna figura la minuta di una lettera del 19 marzo 1915, su carta intestata del Reale Educatorio «M. Adelaide» di Palermo, con la quale Giovanni Pizzuto prega un amico di aiutarlo a ottenere, a chiusura di una controversia legale, «un effetto cambiario con scadenza non superiore ai sei mesi».
Comunque sia, i rari documenti superstiti mostrano che Pizzuto intraprende questa via parallela (a lui certo più congeniale della giuridica, probabilmente consigliata dal padre avvocato e da più prosaiche motivazioni) con una qualche risolutezza. Ne dà conferma la successiva iscrizione (il 29 gennaio 1916) alla annessa Scuola di Magistero, sezione filosofica (rinnovata nell’anno accademico 1916/17), con il relativo superamento delle «conferenze» di Filosofia, Pedagogia, Legislazione, (tutte premiate dalla votazione di nove decimi). Nel giugno 1916 Pizzuto affronta di slancio i primi quattro esami: il 13 Pedagogia (30/30); il 17 Filosofia morale (30/30); il 25 Letteratura latina (28/30); il 30 Ottica fisiologica (30/30).[6] Ma dopo questo brillante abbrivio la sua corsa si arresta, per riprendere tre anni più tardi, il 20 luglio 1919, con l’esame di Letteratura greca (27/30), seguito, il 21 e il 24 giugno 1920, dai trenta e lode ottenuti nell’ordine in Storia della filosofia e Filosofia teoretica, e coronato infine, dopo altri due anni, dalla nostra tesi, che arriva dunque al termine di un tragitto non lineare, che merita un supplemento d’indagine.
Il primo ostacolo è senza dubbio il servizio militare. La «Copia del foglio matricolare» fornita dal Comando Distretto Militare di Palermo il 9 marzo 1938 (conservata fra le carte di Pizzuto) ne attesta il decorso: 1° agosto 1913, arruolamento come «soldato di leva 3a categoria» «lasciato in congedo illimitato» (la terza categoria si assegnava allora o a un soggetto in buona salute, figlio unico orfano di un genitore, oppure a un riformato fatto abile per necessità e addetto ai lavori sedentari); 10 gennaio 1915, «Impiegato presso l’Ammne della associazione della C.R.I. in qualità di Commissario Ammvo di 3a classe (sotto Tenente)»; 24 luglio 1916, «Chiamato in servizio nel personale della C.R.I. e contemporaneamente collocato fuori quadro e a disposizione del R. Esercito»; 24 luglio 1916, «Riconosciutogli il grado di Commissario Ammvo di III classe (sotto Tenente)»; 25 luglio 1916, «Tale assegnato all’Ospedale Mre di riserva Girgenti»; 21 luglio 1917, «Tale assegnato all’Ospedale Mre Principale di Palermo»; 11 febbraio 1918, «Cessa di appartenere alla Croce Rossa»; 20 febbraio 1918, «Cessa posizione fuori quadro e a disposizione del R. Esercito perché assegnato al Deposito Personale Roma della C.R.I.»; 8 aprile 1918, «Tale assegnato al Comitato Regionale Palermo della C.R.I.; 8 aprile 1918, «Collocato in congedo ed inviato alla Scuola di Polizia Scientifica a Roma (dispaccio Ministero Guerra N. 6990)»; 8 aprile 1918, «Ha cessato di appartenere al personale della C.R.I. e quindi è venuto a cessare il riconoscimento del grado».
L’arido elenco di date e dati ci dice infatti che la carriera universitaria di Pizzuto si interrompe proprio all’altezza del servizio prestato negli ospedali militari (l’anno e mezzo di «congedo illimitato» e il successivo anno e mezzo da impiegato della Croce Rossa palermitana non sembrano averla intralciata), seguito a ruota da quell’ammissione alla Scuola di Polizia che, con il concorso di altri eventi, ne renderà precario il cammino e affannoso l’epilogo.
Queste circostanze hanno un riverbero nei due libri più scopertamente autobiografici del Pizzuto narratore: Sul ponte di Avignone e il ricordato Si riparano bambole. Nell’uno il narratore si rappresenta al tempo dell’entrata in guerra dell’Italia, vale a dire nella primavera del 1915: «l’Università si vuotava. Ed io seppi restare. Non feci nulla di illecito per sottrarmi. Approfittai di leggi al cui beneficio avrei dovuto rinunciare. E mentre essi morivano restai solitario nella biblioteca; i maestri entrando mi sorridevano. Lessi rapito tutto quanto Platone e gli altri».[7] Pizzuto dunque si iscrive a Filosofia, sia per seguire una sua passione, sia per sottrarsi, legittimamente, alla guerra. E fra i «maestri» rientra subito Cosmo Guastella: in casa di Pizzuto ho potuto ammirare le dispense rilegate delle lezioni di Filosofia teoretica svolte da Guastella nell’anno accademico 1915/16. Il reperto si incrocia con il luogo contiguo del romanzo che certamente commemora l’esperienza dell’ospedale militare di Girgenti, iniziata proprio sul finire di quell’anno accademico: «Non andavo in trincea: fui inviato come amministratore presso l’ospedale di una piccola città vicina. […] Nell’ospedale i soldati erano quasi tutti dei sacerdoti. Discutevamo di Padri della Chiesa, di canto-fermo, del mondo romano-cristiano; o m’ingolfavo in lunghe concioni anti-tomistiche. Spesso entravo nel corpo di guardia e predicavo. […] Facevo allora professione di fenomenismo. I miei dei erano i grandi logici inglesi: Bain, Stuart Mill. Ero convinto dipendesse dalla mia volontà di annientare la credenza in Dio di questi soldati che dicevano messa: “Ma sì, lasciamoli vivere! Lasciamoli nel loro credo! Sono ignoranti, poveretti! Conoscono forse il Treatise di Hume? E, anzitutto, conoscono l’inglese? Sanno chi è Berkeley? che cosa sono i dialoghi di Hylas e Philonous? Se facessi un quadro di Berkeley più Hume, distruggendo il loro realismo ingenuo per mezzo del primo, e il principio causale che li lega a Dio con l’altro, eccoli tutti ai miei piedi!” […] Mesi dopo fui trasferito nella città natale»[8] (vale a dire, come sappiamo, il 21 luglio 1917).
Nel decimo tratto di Si riparano bambole Pizzuto ripercorre più liberamente lo stesso periodo, riconducendolo al suo alter ego Pofi: «Anche a Pofi, giunta l’ora sua, toccò la sciabola imbrunita. Era per la prima volta fuori di casa, in terra straniera, secondo mamma, a dir vero appena sessanta chilometri lontano, dentro l’isola stessa. Giù nella pianura, sotto la cittadina illustre, non distanti dal mare, fra i mandorli a capodanno fioriti, si ergevano tre templi greci».[9] Anche questa sede (che, oltre alla trasparente allusione dei «tre templi greci», contiene, a sancire l’identità del contesto, il tragicomico passaggio dell’ufficio da «Unità infermierale di riserva» a «Unità infermierale autonoma di riserva») contempla il «corpo di guardia» con i «padri, Padre Randazzo agostiniano, Padre Petroni prete», che Pofi vuole «uditorio paziente per le sue concioni».[10] E anche qui non si parla di studi o esami. Viene anzi trasmessa l’idea di un intervallo, se non spensierato (perché vi incombe il motivo della temuta chiamata alle armi), almeno con una certa quota di irresponsabilità e di vacanza: «Le ore di ufficio gli erano piacevolissime. Correva in letizia a sorprendere le lavandaie litigiose, l’innacquamento del brodo, la rammendatrice appisolata, l’imbianchino infingardo».[11]
La fine del servizio militare (e del relativo stipendio da ufficiale) mettono Pizzuto nella necessità[12] di conquistare una nuova occupazione. Sarà quella procurata, come abbiamo visto, senza soluzione di continuità con la precedente, dal trasferimento alla Scuola di Polizia Scientifica a Roma. Svolto questo tirocinio, Pizzuto è assegnato alla Questura di Palermo. La vicenda è illuminata da tre dispacci presenti nel fascicolo personale di Pizzuto conservato presso l’Archivio di Stato di Palermo (Questura – Gabinetto, busta 413). Il primo, un telegramma della Regia Prefettura di Palermo (15 gennaio 1918), avvisa che Pizzuto «ha presentato direttamente al Ministero dell’Interno, a mezzo del Comando Militare del corpo cui appartiene, la documentata istanza per l’ammissione al concorso per alunno Vice Commissario di P. S.». Il secondo, un telegramma della stessa Prefettura (13 luglio 1918) segnala: «Con ordinanza 8 corrente Alunno Vice Commissario P. S. Pizzuto Dott. Antonino è trasferito, con indennità, da Roma (Scuola di Polizia Scientifica) a Palermo, ove dovrà assumere servizio non più tardi del giorno 18 corrente mese». Il terzo, del Questore di Palermo (20 luglio), assicura in risposta: «stamane il Dott. Pizzuto ha preso servizio in questo ufficio».[13] E anche questo approdo, epocale per Pizzuto, è registrato nei due libri gemelli. Sul ponte di Avignone: «conseguii un impiego. Era la negazione di quanto mi si confaceva; ma coltivai l’illusione che un giorno o l’altro avrei potuto riprendere la vita di prima tal quale e divenni uno spostato così insensibilmente da accorgermene soltanto dopo anni».[14] Si riparano bambole: «Il guaio essere capitato in un tale ufficio. E dire che nell’adolescenza, pur di scansarlo imboccava strade più lunghe o, se era necessario transitare da lì, si serviva del marciapiede opposto, mai sbirciando il bigio edificio».[15]
A questo «guaio», e all’«illusione» di uscirne fuori, rimandano i tre esami ottimamente superati tra il luglio 1919 e il giugno 1920, diresti con la disperata energia di chi non vuole annegare,[16] e la lettera del 13 settembre 1919, in cui Pizzuto espone a Guastella «alcune difficoltà che incontro iniziando una lettura del Suo Saggio primo»;[17] fatti cui si può a riprova allineare quanto si legge nelle Note informative sul personale per l’anno 1919, redatte il 18 marzo 1920 (busta 427): «Il Dr. Pizzuto è in ottime condizioni fisiche, di svegliata intelligenza, di buona indole, di elevato senso morale, d’incensurabile condotta sotto ogni aspetto. Durante l’anno prestò servizio ai Commissariati di P. S. di Porto e P. Reale, adempie alle sue attribuzioni con discreto interesse e con competenza per la sua cultura; si comporta bene coi superiori e col pubblico. È laureando in lettere e filosofia e non intende continuare la carriera per dedicarsi all’insegnamento [corsivo nostro]. Dimostra maggiore attitudine al servizio di polizia amministrativa, ha poca esperienza ancora pei servizi di ordine pubblico e dimostra poca attitudine pel carattere timido. In complesso è un buon funzionario».
Ma anche questo rilancio, questo ‘non mi rassegno’ − davvero ammirevole, se si pensa alle difficoltà di ambientamento e ai gravami del disaccetto ‘mestiere’ − deve accusare una battuta d’arresto, che dura quasi due anni, e che possiamo senza dubbio ricondurre alla scena-madre del Ponte di Avignone: «Quel 22 dicembre l’usciere mi venne incontro con una novità emozionante. Ero atteso da una ragazza».[18] I lettori del romanzo sanno che la data ferma l’inizio di un tormentoso e ‘romanzesco’ garbuglio che sequestra la giovinezza del protagonista. Noi sappiamo che questa e le altre date distribuite nel racconto scandiscono l’episodio-chiave della giovinezza di Pizzuto.
Quel giorno Pizzuto riceve in questura la diciannovenne Erminia, che, separatasi dal marito, ne è da tempo perseguitata, e si rivolge ora per protezione alle forze dell’ordine, impersonate nel caso dal nostro giovane funzionario. Ne nasce, di lì a poco, una ‘storia’, che dà presto luogo a una gravidanza. Il ventisettenne e inesperto Pizzuto, che è da dieci anni fidanzato ‘ufficialmente’ con Carolina Biuso (sua vicina di casa, di un anno più anziana) e si accinge alle nozze, viene di colpo a trovarsi in una situazione più grande di lui: non ha il coraggio di lasciare la donna che lo ha così tanto atteso; e si rifiuta di abbandonare a un destino prevedibilmente squallido quella che sta per renderlo padre. Così prende tempo. Mentre continua in segreto a prendersi cura di Erminia, il 29 luglio 1921 sposa Carolina. Il successivo 25 ottobre Erminia dà alla luce una bambina, Giovanna.[19] Con questa nascita e con quella, il 3 giugno 1922, della figlia legittima, Maria Anna,[20] prende forma la ‘doppia vita’ che Pizzuto porterà penosamente avanti per un decennio fino alla liberatoria rivelazione (nel romanzo il «so tutto» della moglie del narratore),[21] e che gli impedirà la ‘svolta’ desiderata.
È questo il candidato che il 7 aprile 1922 va a discutere la sua dissertazione di laurea, con il conforto di un biglietto del 18 marzo 1922 in cui Cosmo Guastella scrive al paleografo Carlo Alberto Garufi: «Ho ricevuto la tesi del sig. Pizzuto. Io volentieri sarei il relatore tanto più che la tesi gli è stata proposta da me». Nella lunga intervista concessa in limine mortis a Paola Peretti Pizzuto rivela: «Io sono stato l’ultimo allievo di Cosmo Guastella […] come un ancello a pendere dalla sua parola».[22] La sua vicinanza al maestro è ancora evocata nelle lettere a Margaret e Gianfranco Contini. Con la prima Pizzuto rivive «la stessa vertigine, lo stesso infinito stupore che mi suscitava da giovane. […] E lo rivedo, ne odo la voce, roca, mi riappare vestito di nero sempre, la barba bianca, le piccole mani intente a grattarsi perpetuamente la testa, la grafia a dorso d’asino, le infinite pipe di coccio, l’odor di gatti in tutta la casa, l’umile calamaio da un soldo, cui attingendo la penna mandava un toc d’urto nel fondo; e mi scriveva: non merito né i Suoi elogi né i Suoi biasimi, e d’improvviso nella Sua effigie austera appariva un sorriso supremo, luminoso e fanciullo. Indulgenti gli allievi lo guardavano con benevola considerazione, e mi chiamava sa come? non Pizzuto, né Antonio. Mi chiamava, indovini un po’! Avvocato. E veniva a trovarmi a volte in ufficio. Vengo, mi diceva, a chiederle un consiglio. E restavo senza parola».[23] Al marito confida: «rimiro il ritratto di lui, con una grinta d’occasione che egli, personificata dolcezza, non aveva; che anzi, pur raro, gli era proprio un χείλεσι γελᾱν alla Monna Lisa proprio delizioso. Professore, gli chiesi io mentre lo accompagnavo, crede Lei in Dio? E quanto, quanto tempo si prese prima di un no».[24] E gli parla, riferendosi alle Ragioni del fenomenismo, di «bozze in parte corrette da me».[25]
Conosciuto questo retroterra, in cui l’itinerario di studi si lega a una complessa parabola umana e la condivisione della dottrina a una calda amicizia, possiamo ora accostarci al nostro elaborato, per dire subito che esso non offre elementi di apprezzabile originalità: è interamente esemplato sul pensiero di Guastella, riproposto nell’impianto del tema e in significativi dettagli.
Nella seconda parte della tesi Pizzuto sostiene che lo scetticismo di Hume deriva dal fatto che il suo empirismo è minato da «credenze» (l’evidenza intrinseca, la causa efficiente, la cosa in sé) che lo contraddicono, spingendo a diffidarne. Di questa posizione humiana Guastella ha già misurato il potenziale ‘scettico’. Riguardo al credito accordato alla evidenza intrinseca egli scrive: «Lo scettico crede, come il filosofo apriorista e per lo stesso sofisma a priori, che le induzioni dall’esperienza non possono essere certe, perché non sono accompagnate dall’evidenza intrinseca. | Egli non nega, ma mette in dubbio, le così dette credenze naturali del genere umano (la causa efficiente, il realismo, la sostanza me, ecc.), e se solamente ne dubita, è perché il fenomenismo è contrario all’evidenza intrinseca. Ma questo dubbio, per un altro effetto dell’evidenza intrinseca, lo porta a dubitare anche della causazione nel senso empirico (cioè della legge di sequenza invariabile), e quindi di tutte le uniformità del mondo reale».[26] «Il fenomenismo, mostrando il niun valore dell’evidenza intrinseca come prova della verità, e mettendo in luce il processo per cui si forma e per cui dà origine alle dottrine contrarie alla filosofia dell’esperienza, non dimostra solamente l’illusorietà dei sistemi metafisici, ma anche quella dello scetticismo».[27]
Quanto allo scetticismo indotto dalla credenza nella cosa in sé e nella causa efficiente, Guastella si pronuncia nel decimo paragrafo del sesto capitolo della Filosofia della metafisica, dedicato a Hume: «Uno dei caratteri dello scetticismo ― e segnatamente di quello di Hume ― è l’opposizione tra le credenze naturali dell’uomo e i risultati della riflessione scientifica. Lo scettico non prende partito né per le une né per gli altri, e nemmeno intende di conciliarli, quando vi ha contraddizione fra le une e gli altri: così, nella quistione del mondo esteriore, Hume ammette la credenza naturale che le cose materiali esistono per se stesse e sono indipendenti dai nostri sensi, e al tempo stesso la validità delle obbiezioni dei fenomenisti (o, come sono detti ordinariamente, seguaci di Berkeley) contro questa credenza. Così fa pure nella quistione della causalità: egli ammette al tempo stesso la credenza naturale delle cause efficienti, e la vera teoria psicologica sull’idea di causalità, che tende alla distruzione di questa credenza».[28]
Queste credenze sono da Pizzuto costantemente addebitate all’irresistibile assimilazione dei fatti meno familiari a quelli più familiari, cioè seguendo la formula-chiave di Guastella, esposta, sempre in relazione allo scetticismo, in Filosofia della metafisica: «Da ciò che è stato detto di Locke e di Hume, abbiamo il dritto di inferire che una delle sorgenti dello scetticismo ― questo fenomeno dello spirito umano non meno naturale e costante della metafisica, che esso accompagna come il rovescio accompagna il dritto ― è questa tendenza del nostro spirito, su cui è fondata la metafisica apriorista, per cui egli si sforza di assimilare la forma delle conoscenze delle connessioni dei fenomeni in generale, alla forma delle conoscenze delle connessioni più familiari».[29]
Sebbene il nome di Guastella, con educato understatement, non vi figuri mai, le ‘professioni di fede’ scandiscono tutto il lavoro. Un palese quanto eccessivo omaggio al maestro è la menzione dei «sommi filosofi dei quali siamo umili ma fervidi seguaci» (ossia Stuart Mill e lo stesso Guastella, che hanno definito «sofismi a priori» le illusioni della ragione). E quando esprime la sua adesione al fenomenismo, «dottrina di cui siamo seguaci», Pizzuto la presenta nel modo in cui soleva presentarla lo stesso Guastella, che, all’inizio del secondo volume delle Ragioni del fenomenismo, si dice consapevole che il sistema è «poco seducente»,[30] e che «si è forzati ad accettare il fenomenismo, per quanto esso sia contrario alle tendenze spontanee del nostro spirito»,[31] e, nelle dispense delle lezioni da lui svolte per l’anno accademico 1914/15, afferma che «il fenomenismo […] non si deve ammettere perché ci piace, perché è seducente: è anzi al contrario il sistema più rivoltante, il più contrario alle nostre credenze naturali. Non dobbiamo ammetterlo che perché non abbiamo altre scelte».[32] Pizzuto, da sua parte, scrive: «noi siamo obbligati dalla induzione più irresistibile ad abbracciare il fenomenismo»; «È questa tendenza al realismo che, accompagnata da quella ad ammettere delle cause efficienti, e, in una parola, un’esistenza per sé ci fa apparire il fenomenismo, sistema che intanto siamo costretti, con tutta la nostra riluttanza, ad abbracciare perché l’unico coerente e immune da illusioni, come una filosofia che desta ribrezzo»; «Dopo questa semplice riflessione il realismo non può farci più illusione e non crediamo sia più sostenibile una difesa qualunque di esso e dei suoi derivati metafisici, né possibile una critica valida del fenomenismo, che siamo obbligati, quantunque a malincuore, ad abbracciare».
Oltre a sposare senza riserve un sistema di pensiero, Pizzuto ne adotta spesso le parole, a partire da certe forme desuete care a Guastella (penso ad esempio alle 13 occorrenze di «cangiamento» o «cangiare», e alle 3 di «quistione»), e continuando con il tacito prelievo (a volte mediante parafrasi o variazioni deliberate del tema) di passi tratti dalle opere del maestro. Alcuni esempi. Quando Pizzuto parla della fallacia delle «verità assiomatiche ed intuitive, che si presentano al nostro spirito con estrema frequenza ed irresistibilmente» e le paragona a «certi titoli di credito che inspirano una fiducia internazionale tanto grande quanto ingiustificabile in maniera concreta e che talvolta ritornano ad essere dei semplici pezzi di carta, ai quali non viene attribuito più alcun valore», declina a suo modo un’immagine di Guastella: «I simboli sono la carta moneta del pensiero: dei simboli che non possono scambiarsi in niun modo in rappresentazioni sono come della carta moneta che non ha più corso, parole e niente di più, che hanno l’aria di avere un significato misterioso e profondo, perché non hanno in realtà nessun significato».[33] E quando denuncia il postulato scettico che «l’esperienza non può dar luogo a proposizioni universali», ripete quasi alla lettera il Guastella che allo scetticismo rimprovera «la pretesa che l’esperienza non può dar luogo a proposizioni rigorosamente universali».[34] A proposito della gravitazione universale, e in genere delle leggi della natura, Guastella scrive: «Lungi di sembrarci necessari, questi legami ci sembrano arbitrari; lungi di sembrarci evidenti, ci sembrano misteriosi; lungi di sembrarci naturali, ci sembrano, per usare le espressioni di Bacone, strani e inverisimili e come altrettanti articoli di fede».[35] E Pizzuto, a specchio: «Ma perché i corpi si attirano in ragione inversa del quadrato della loro distanza? Questo fenomeno ci sembra arbitrario e misterioso e lo ammettiamo, per ripetere la famosa espressione di Bacone, come un articolo di fede rivelatoci dall’esperienza, ma non desistiamo per questo dal cercarne una spiegazione». Infine, ma si potrebbe continuare, ecco come Guastella presenta il processo che conduce al fenomenismo: «Le due ultime forme del realismo si fondano ciascuna sulle rovine della forma anteriore. Il realismo dei fisici si stabilisce facendo la critica del realismo naturale; il realismo dei metafisici, facendo la critica del realismo dei fisici. Il fenomenismo poi si fonda sulle rovine del realismo dei metafisici, come questo su quelle del realismo dei fisici, e il realismo dei fisici su quelle del realismo naturale».[36] Ed ecco la versione di Pizzuto: «la concezione realistica che subentra alla volgare sia per parte della scienza che per parte della filosofia sorge come una modificazione di quella volgare dopo che se ne è riconosciuta la natura illusoria, perché la distruzione del realismo volgare non implica la distruzione della credenza nella cosa in sé; ma questa persiste dopo che la concezione realistica volgare è rimasta distrutta e le sostituisce un altro modello di realismo che è quello che abbiamo studiato tutti in fisica e quello che, distrutto anche quest’ultimo, le sostituisce la metafisica».
Sempre sul versante degli imprestiti, è poi da registrare il fatto che i pochi riferimenti a testi diversi da quelli sparsamente citati di Hume (in una tesi peraltro priva di una bibliografia) sono attinti da Guastella. Lo è senza dubbio, come mi segnala Nicola De Domenico, il rimando implicito a Hume. Sa vie – sa philosophie (1880), di Thomas Henry Huxley, l’unica opera della letteratura su Hume espressamente citata nella tesi: «Questi processi spontanei, extra-logici, come li ha definiti Huxley, non sono, per sé stessi, né veri né falsi»; definizione che Guastella aveva data per esteso, traducendola dal francese, nel primo dei Saggi sulla teoria della conoscenza: «Huxley dice: “il principio di causalità è il simbolo verbale d’un atto automatico, il quale è estralogico, e sarebbe illogico, se l’esperienza non venisse costantemente a dargli ragione”».[37] Lo è, quasi sicuramente, il richiamo ai «tentativi di risoluzione meccanica dell’attrazione universale, come ad es. quelli del Padre Secchi e di altri», che sembra originare da una citazione puntuale di Guastella: «Ascoltiamo il P. Secchi: I fisici ora cercano di conoscere la causa della gravità, quantunque la nessuna necessità di conoscerla e la grande difficoltà di assegnarne un’origine ragionevole li abbiano distolto sino a poco tempo fa da queste speculazioni. “Per noi è assurdo (salvo sempre, come si è detto, il caso d’intervento degli enti spirituali) che il moto nella materia bruta abbia altra origine che dal moto. Noi rigettiamo quei principi detti forze, che non sono né spirito né materia, dei quali non è stata mai provata l’esistenza: esse ci sembrano mere astrazioni realizzate. Noi cercheremo di ridurre tutti i fenomeni a mero scambio e comunicazione di moto e assumeremo questo scambio come un fatto primitivo, la cui spiegazione sta nella natura della materia”».[38] E lo stesso può dirsi, come avverte sempre Nicola De Domenico, di altre menzioni concernenti Locke, Condillac e Stuart Mill.
Quanto al primo, Pizzuto scrive: «Reid [...] cita approvandola la proposizione di Locke che “l’impero che l’uomo ha sul piccolo mondo del proprio intendimento è lo stesso di quello che esercita nel gran mondo degli esseri visibili” e che si riduce a modificare i materiali disponibili senza poter produrre la minima particella di nuova materia». Anche se non è stato possibile individuare il luogo di Reid in cui figura la citazione, essa ricorre in Guastella: «L’impero che l’uomo ha sul piccolo mondo del proprio intendimento è lo stesso, dice Locke (Saggio sull’intendimento um. Lib. II, c. II, § 2) di quello che esercita nel gran mondo degli esseri visibili. Come tutta la potenza che abbiamo sul mondo esteriore si riduce a comporre e a dividere i materiali che sono a nostra disposizione, senza poter produrre la minima particella di nuova materia, così noi non possiamo formare nel nostro intendimento alcuna idea semplice, ma solo delle idee complesse, ripetendo, comparando e unendo insieme, con una varietà pressoché infinita, le idee semplici che ci vengono dai sensi e dalla riflessione».[39] Lo comprova il fatto che in Sinfonia 1923 Pizzuto riporta per intero ed esattamente proprio questa citazione di Guastella.[40]
Nel medesimo saggio Guastella chiama così in causa il filosofo sensista: «Il suo Trattato delle sensazioni non è, secondo Condillac, che una serie di proposizioni identiche in se stesse, e il principio che comprende tutto il sistema può brevemente enunciarsi di questa maniera: le sensazioni sono sensazioni».[41] E Pizzuto: «Condillac in un campo opposto (ma per analoghi motivi) affermava che il suo Trattato delle sensazioni si poteva riassumere in questa proposizione: “le sensazioni sono sensazioni”».
La citazione di Mill configura infine un vero e proprio plagio. Guastella aveva scritto: «com’è stato segnalato dal Mill, è un sofisma naturale, anzi il sofisma naturale per eccellenza, del nostro spirito, credere che ai legami necessari o molto intimi tra le nostre idee devono corrispondere dei legami tra le cose corrispondenti a queste idee: le cose che non si possono pensare l’una senza l’altra devono coesistere; le cose che non si possono pensare insieme non possono coesistere».[42] Pizzuto ripete: «Il sofisma naturale per eccellenza del nostro spirito è, dice John Stuart Mill, di credere che ai legami necessari o molto intimi fra le nostre idee devono corrispondere dei legami fra le cose corrispondenti a queste idee: le cose che non si possono pensare l’una senza l’altra devono coesistere; le cose che non si possono pensare insieme non possono coesistere».
Insomma, il Vice commissario Pizzuto si è arrangiato, anzi ha dovuto arrangiarsi: i casi della vita, in particolare quelli occorsi dal Natale 1920, non gli hanno permesso di produrre qualcosa più di un ‘compitino’, di fornire un contributo scientifico di qualche pregio.
Ma in questo lavoro sbrigativo affiora di quando in quando lo scrittore che Pizzuto già sentiva di essere (almeno dall’esordio, nel 1912, a diciannove anni, con Rosalia (novella marinaresca):[43] il discorso allora si accende, apre altri orizzonti, accusa una diversa vocazione. Così, parlando dello Hume che smaschera il concetto di causa ma esita ad accettarne le conseguenze, Pizzuto intravede «lo sconforto che dovette accompagnare in lui la capitale scoperta», divina l’«irrequietezza che non sapeva trovare riposo», dipinge la sua controversia con la ragione che «si dissolve come nebbia non appena egli la guarda», illustra il conflitto teoretico con la potenza di un’immagine («parrebbe che in certi momenti egli consideri il pensiero come composto di due grandi provincie, l’immaginazione e la ragione, ciascuna delle quali avrebbe la sua giurisdizione, indipendente da quella dell’altra») da cui germina una elegante variazione: «Se ci fu lecito paragonare la seconda forma a due Provincie di uno stesso Stato, potremmo dire della terza che essa ci presenta la ragione, nei suoi rapporti con l’immaginazione, come uno stato indipendente entro un altro stato».
Sulla medesima spinta Pizzuto può parlare di «falla aperta nel fianco della conoscenza», di «sbalordimento progressivo ed insanabile, così opposto al tranquillo e preciso andamento della ragione», della «spensieratezza» dei filosofi che lasciano scoperto il loro punto di partenza, delle illusioni visive «che trasformano ad esempio un mantello ai piedi del letto in un bandito che sta per balzare sul dormente», dello «splendente panorama dell’immaginazione» al cui confronto la logica è «un più modesto e meno attraente, ma sicuro porto», ovvero concedersi una raffinata similitudine: «La verità era guardata con l’occhio del credente, era come un poema letto nella lingua originale da uno che la conosce ancora poco».
Non solo. Talvolta l’argomentazione è sorretta da perfomances narrative: si fa apologo, aneddoto, favola. Così il «realista metafisico», che ha distrutto il «realismo volgare», ma retrocede quando si trova dinanzi la via fenomenista, diviene quasi il personaggio di una comica: «È come se, chi dovesse percorrere 10 kilometri verso nord, dopo averne percorso 5 in tale direzione, voltasse le spalle per percorrere gli altri 5 e pretendesse, contati tutti i 10 kilometri, di essere giunto a destinazione, malgrado si ritrovi di fatto al punto onde era partito». Così, a illustrare la preminenza delle associazioni abituali, che producono automatismi, su quelle non abituali, che hanno sempre bisogno di prove, Pizzuto convoca quella ha l’aria di essere una sua esperienza: «Un principiante di greco o di tedesco che incontra per la prima volta il verbo prokóptein o il vocabolo Blutbild, si sente in dovere, dopo averne appreso il significato, di risalire alle componenti di queste parole e di valutare le immagini che risultano dalla unione delle parti per appropriarsi di tali dizioni e, se è abbastanza scrupoloso, non si rassegnerà mai a rinunciare a queste elementari etimologie prima di ritenere acquisita la nuova nozione; cosa che intanto egli non fa altrettanto istintivamente pei termini della lingua materna che, il più spesso, adopererà tutta la vita senza cercarne il preciso significato e l’origine, a meno che non si versi in prosieguo agli studi filologici». Così, per chiudere in bellezza la sua prova, si dà a ripercorrere, con piglio romanzesco e con un finale a effetto, il drammatico crescendo dei Three Dialogues between Hylas and Philonous: «Noi sappiamo che questa sospensione, che questo dubbio, accompagneranno ormai, come fatto psicologico, il povero Hylas per tutta la sua vita».
Per questi aspetti squisitamente letterari la nostra tesi è uno spartiacque tra il Pizzuto filosofo e il Pizzuto narratore (il passaggio di consegne sarà idealmente ratificato dal fervore gnoseologico del suo primo ‘romanzo che vuol riformare il romanzo’: Sinfonia 1923). Ma gli interessi teoretici di Pizzuto non verranno mai meno, e persisterà fino alla fine il culto del Maestro.
La milizia filosofica di Pizzuto è testimoniata in prima battuta dalle conferenze da lui svolte alla Biblioteca Filosofica di Giuseppe Amato Pojero (che sarà raffigurato, come «dottore» Amarena, in Si riparano bambole):[44] quella su Appunti di nuova estetica (data il 4 giugno 1930 e riepilogata il successivo 29 giugno) e quella su Il fenomenismo nello stato presente della filosofia (data il 14 agosto 1936 e proseguita i successivi 29 e 30 agosto).[45] Vi è poi la ‘perla’ costituita dalla traduzione, con introduzione e note, dei kantiani Fondamenti alla metafisica dei costumi, apparsa da Sandron nel 1942, di cui, secondo Ruggero Jacobbi, «riconobbero la competenza kantisti avvedutissimi come Carabellese e Martinetti».[46] Vi sono ancora, negli anni cinquanta, la Conferenza ai Questori su l’indagine contemporanea − risalente al periodo in cui, dopo il pensionamento (1° gennaio 1950), Pizzuto insegnò alla Scuola di Polizia −, che si chiude su una rassegna delle principali correnti della filosofia contemporanea,[47] il saggio Note su una nuova estetica e le recensioni e traduzioni di testi filosofici tedeschi apparsi sulla rivista «Sophia», i fogli di taccuino redatti fra il 16 e il 21 novembre 1950, che offrono un ampio raggio di speculazioni private.[48] E quando, con la prima pubblicazione di Signorina Rosina (1956), Pizzuto chiude virtualmente questo ‘cantiere’, la sua febbre teoretica si riversa per intero nel tessuto delle sue narrazioni, impregnandone ogni fibra, brillando ancora di luce propria nelle note di poetica che talvolta le accompagnano,[49] e mandando un ultimo barbaglio nell’estate 1976, a pochi mesi dalla morte, con il ‘corso di filosofia’ impartito alla figlia Giovanna e all’amico Maurizio Lupo.[50]
L’ammirazione per Guastella, iperbolicamente profferta nella citata missiva del 13 settembre 1919, dove la sua opera viene definita «il più grande, eterno e granitico monumento che la mente umana abbia fin qui innalzato o possa compiere nello avvenire», sarà comunque ribadita, detratta l’esuberanza giovanile, ma sempre con sorprendente vigore, in varie occasioni (possiamo quasi certamente annoverarvi, pur non disponendo del testo, la detta conferenza alla Biblioteca Filosofica).
Comincerò dalla più curiosa. Il 14 novembre 1967 Pizzuto interviene in una libreria di Palermo alla presentazione del suo «Pesce d’Oro» Nuove paginette. E dinanzi a un uditorio di giovani impegnati ed esponenti delle avanguardie artistiche tira fuori a sorpresa lo sconosciuto Guastella, definendolo «il più grande filosofo italiano».[51] Ma prima di coinvolgere quell’assemblea presessantottina la ‘propaganda’ di Pizzuto aveva avuto modo di esercitarsi nientemeno che su Gianfranco Contini.
Il 5 luglio 1964, nella fase iniziale della sua amicizia con il grande filologo, Pizzuto gli parla del «mio grande maestro di filosofia teoretica, Cosmo Guastella, dimenticato – provvisoriamente – da tutti: neppure il nome, pensa, nelle grandi storie della filosofia […] Un giorno te ne leggerò qualche nota: bastano esse a riconoscere il gigante! naturalmente soffocato in vasta congiura di silenzio dalle cricche imperanti allora: la crociana filosofia delle quattro parole e il burbanzoso attualismo. Eravamo guardati con gran sussiego noi misera minoranza ignorante e plebea. Ti ho detto già della mia singolarissima apostasia appena lui morto, voglio dire della dottrina specifica (opere grosse quanto dizionari, da me amorosissimamente provvedute di scolii, le ritroverai alla Nazionale di Firenze, io ne amo dippiù la Ia, Saggio sui limiti e l’oggetto della conoscenza apriori, perfetta l’ultima in 3 voll. Le ragioni del fenomenismo, ma le leggo e medito e studio ancora oggi, sono la mia delizia ».[52]
Pizzuto torna alla carica quattro anni più tardi, il 24 aprile 1968, all’epoca dell’uscita dell’antologia continiana Letteratura dell’Italia unita, con l’auspicio che in una seconda edizione «trovi, con Gentile e Croce, una sede il massimo – quanto ignorato – nostro filosofo dello stesso periodo, und zwar Cosmo Guastella! Potrei facilissimamente fornirti quanti luoghi tu voglia dalle sue opere monumentali, specie dall’ultima, le duemila pagine – tutte carne di porco – de Le ragioni del fenomenismo: nulla da sbadigliare, nulla da Graecum est, non legitur: un pensiero di una profondità, lucidezza, attrattiva senza pari, splendidior vitro, da impallidirne quei due, e con loro ogni altri, contemporaneo, moderno o antico che sia».[53]
L’apostolato pizzutiano culmina, trascorso un triennio, nell’invio di una copia delle Ragioni del fenomenismo, preannunciato da un’altra persuasa perorazione: «Ti innamorerai di lui, ti accompagnerà nell’impervio e nel profondo con una lucidità e finezza di pensiero, e coerenza e acume e vigore quali solo in Hegel, in san Tomaso e Kant si possono ritrovare, e con sviluppi che dànno le vertigini: il II volume, di oltre 650 pp., ha per unico oggetto le antinomie, delle quali Königberg si sbrigò alla svelta, come ben sai). Vi fa seguito, in replica a una preventiva obiezione del filologo («Mi pare, come del resto accade di Bergson, che il Guastella soffra un poco d’una rappresentazione antiquata del mondo esterno»),[54] una altrettanto fervida apologia: «Che quella di lui sia una rappresentazione del mondo esterno, tu non tarderai a ricredertene. Quel suo mondo non è mai un presupposto o un’ipotesi, ma costantemente e infallibilmente una mera algebra elegantissima, cui giammai soggiace alcunché di esistenziale. In questo anzi Guastella è maestro incontestabile di coerenza perfino ai logici matematici del nostro tempo, polacchi, tedeschi, inglesi o americani che siano. Il realismo degli esistenzialisti, dell’intuizionismo, dello stesso Einstein, etc., è assolutamente non solo evitato, ma annientato da lui. Delle mie scarse letture non conosco nessuna più radicale di questa».[55]
Il nome di Guastella ricorre due volte nell’opera letteraria di Pizzuto, e sempre in posizione eminente. Innanzitutto come dedicatario di Pagelle, libro che vede un «vistoso incremento di interessi teorici e speculativi».[56] Che Pizzuto vi annettesse una particolare importanza lo attestano due messaggi ravvicinati all’editore Alberto Mondadori: del 29 marzo 1973 («ho dimenticato di raccomandarti che Pagelle I rechi la seguente dedica: A Cosmo Guastella») e del successivo 14 aprile («Quanto a Pagelle I, vi raccomando di aggiungervi una pagina con la dedica: “A Cosmo Guastella”»).[57] Questa ‘menzione d’onore’ è raddoppiata dall’epigrafe di La Tempestosa, XXIV elemento di Penultime («Lo spirito è un fatto, la materia un’ipotesi»),[58] che riassume il seguente passo guastelliano: «tutti coloro per cui lo sviluppo della filosofia moderna, da Cartesio sino ai nostri giorni, non è il libro chiuso dai sette sigilli, sanno che lo spirito è un fatto mentre la materia non è che un’ipotesi, e un’ipotesi che presenta le più gravi difficoltà».[59] Quasi a completare l’omaggio, sempre in Penultime (VIII, Pupille) Guastella è associato a un treno di filosofi d’alto lignaggio («ove Platone, che Søren, Misilmeri o Tagaste»)[60] i cui ultimi due sono identificati, con ardita metonimia, dal luogo di nascita.
Oltre che del pensatore, Pizzuto ha anche lasciato memoria dell’uomo, e primamente in Sinfonia 1923, dove il terzo capitolo, La morte del filosofo,[61] ne disegna la sembianza di «piccolo vecchio curvo, dalla barba candida, dagli occhi fiammeggianti», ne rappresenta sul catafalco la «fronte divina che conteneva tutti gli splendori e tutte le trasparenze», ne segue le esequie solenni. Questo ritratto viene replicato in Devota, lassa conclusiva di Sinfonia,[62] che include un ricordo del «suo vecchio maestro, aula semivuota, incompreso, evitato, bianca la barba, nero abito, tal dimessa schiena», della sua abitazione («Il balconcino lassù, dalle screpolate persiane, lo studiolo carico di scritti righe arcute sottili senza pentimenti, logori tomi, innumeri pipe fittili, lor cannucce a cataste, penne scolaresche, umile calamaio», della sua salma («lui supino fra quattro ceri, conserte le sue piccole mani, scarpe nuove, ben rivestito, disgombra la cameretta, ancora gli pensava quel viso»), dei suoi funerali di prima classe, così estranei alla modestia del vivo: «l’exit, in gramaglie i grandi morelli, via, appresso banda, gonfaloni».
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
[*] Introduzione al volume di Antonio Pizzuto, Sullo scetticismo di Hume, a cura di Antonio Pane, Palermo, University Press, in corso di stampa. Si ringrazia per l’autorizzazione alla pubblicazione in anteprima
Note
[1] Traggo questa notizia e le seguenti dal fascicolo personale di Pizzuto conservato negli archivi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo.
[2] Gli esami menzionati nella certificazione allegata sono: Medicina legale (30/30); Diritto amministrativo (27/30); Storia del diritto italiano (28/30); Diritto civile (27/30); Diritto internazionale (27/30); Procedura civile (27/30); Diritto penale (28/30); Diritto romano (30/30); Laurea in Giurisprudenza (110/110 e lode).
[3] Nel certificato, emesso dall’Agenzia delle Imposte Dirette e del Catasto di Alia il 28 agosto 1915, si legge che «figura iscritto il Sig. Pizzuto Viola Giovanni del fu Antonino per l’imponibile di lire 1081.21 all’art. 2457 terreni di Castronovo e per l’imponibile di lire 86.25 all’art. 765 fabbricati di Castronovo».
[4] Sezione C, come risulta dal registro conservato negli archivi dell’Istituto.
[5] Vd. Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, a cura di Gualberto Alvino, Palermo, Sellerio («La memoria»), 2001: 142, 143, 145 (d’ora in poi SRB).
[6] A questi studi è verosimilmente ispirato un passo della tesi: «Sottoponendomi nei gabinetti scientifici ad esperimenti ottici mi sono sempre trovato in una vera impossibilità a suscitare in me, ad es., le immagini doppie, il colore complementare e simili, che, peraltro, si sono riprodotte facilmente quando la mia attenzione non è stata molto desta, ciò che attribuisco appunto alla forte tensione di essa, che inibisce all’immaginazione di agire».
[7] Antonio Pizzuto, Sul ponte di Avignone, a cura di Antonio Pane, postfazione di Rosalba Galvagno, Firenze, Polistampa, 2004: 12 (d’ora in poi SPA).
[8] Vd. SPA 13-14.
[9] Vd. SRB 147-148.
[10] Vd. SRB 151.
[11] SRB 150.
[12] Certificata, ancora quattro anni dopo, dallo Stato di Famiglia del 5 maggio 1922, adibito alla dispensa dalle tasse universitarie, dove si dichiara che il Vice Commissario Pizzuto «percepisce ancora lo stipendio iniziale» ed «è il sostegno principale e necessario di tutta la famiglia».
[13] Gli atti della questura (busta 413) riferiscono inoltre che Pizzuto sostenne gli «esami di idoneità» a Roma il 19 settembre 1918 e che il successivo 1° ottobre fu nominato Vice Commissario di 5a classe.
[14] SPA 14.
[15] SRB 161.
[16] Questa fase è vividamente restituita nella lettera del 27 novembre 1951 a Salvatore Spinelli, in cui Pizzuto, rievocando la sua lettura di Tucidide (per l’esame di Letteratura greca), aggiunge: «essendo V. Commissario di P. S., mi alzavo alle 3 del mattino e lo lasciavo alle 9, presentandomi in ufficio (Gabinetto del Questore a Palermo) alle ore 9,45 tutti i giorni con una impudenza che mi dà oggi i brividi e le docce del rimorso». Vd. Antonio Pizzuto − Salvatore Spinelli, Se il pubblico sapesse… Lettere (1950-1963) con una lettera di Pizzuto a Federico Fellini, a cura di Antonio Pane, nota introduttiva di Lucio Zinna, Palermo, Nuova Ipsa («Scrittura mediterranea»), 2003: 17-18.
[17] Apparsa in appendice a Antonio Pizzuto, Sinfonia 1923, a cura di Antonio Pane, Messina, Mesogea («La grande»), 2005: 191-194 (d’ora in poi S 23).
[18] SPA 15.
[19] Così è chiamata la figlia naturale del protagonista e narratore di Sul ponte di Avignone, che nasce proprio un «25 ottobre» (SPA 25). Giovanna Paladino, coniugata Friscia, mi ha confermato in due interviste (realizzate a Palermo, nella sua casa di via dei Normanni 13, il 1° e l’8 agosto 1991) che gli avvenimenti di Sul ponte d’Avignone corrispondono a quanto da lei vissuto e a quanto riferitole dalla madre.
[20] In SPA 40 si legge: «La seconda sera di giugno diede alla luce una femmina».
[21] SPA 215.
[22] Vd. Antonio Pizzuto, Pizzuto parla di Pizzuto e altre interviste, a cura di Antonio Pane, Chieti, Solfanelli («Aretusa»), 2013: 47 (d’ora in poi PPP).
[23] Lettera del 28 marzo 1967. In Antonio Pizzuto, Lettere a Margaret Contini (1964-1976), a cura di Gualberto Alvino, Firenze, Polistampa («Il Diaspro / Epistolari»), 2000: 210-211. La «signora Lo Cascio» è la moglie di Guastella, Maria. L’«ultima opera di Guastella» è naturalmente Le ragioni del fenomenismo in tre volumi (Palermo, Priulla, 1921-1923).
[24] Lettera del 2 maggio 1971. In Antonio Pizzuto – Gianfranco Contini, Coup de foudre. Lettere (1963-1976), a cura di Gualberto Alvino, Firenze, Polistampa («Il Diaspro / Epistolari»), 2000: 234 (d’ora in poi CdF).
[25] Lettera del 27 dicembre 1970 (CdF 220).
[26] Cosmo Guastella, Le ragioni del fenomenismo (volume secondo), Palermo, Priulla, 1922: 408 n. (d’ora in poi RF II).
[27] RF II 409 n.
[28] Ora in Cosmo Guastella, Opera omnia. Volume primo. Saggi sulla teoria della conoscenza. Tomo II. Saggio secondo. Filosofia della metafisica. Parte prima. La causa efficiente, con introduzione e a cura di Corrado Dollo, Padova, cedam («I filosofi siciliani»), 1973: 389 (d’ora in poi STC II).
[29] STC II 394.
[30] RF II 6.
[31] RF II 8.
[32] R. Università di Palermo. Lezioni di filosofia teoretica del prof. C. Guastella. Anno accademico 1914-1915. Tip. Castiglia, Via Saladino, 5. Scrittura a macchina, Via Alessandro Paternostro, 74. Esemplare, segnato 22.F.5, posseduto dalla Biblioteca Centrale della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo: 138 e 275 (devo questa segnalazione al Prof. Nicola De Domenico, che ringrazio di cuore).
[33] RF II 193.
[34] Ora in Cosmo Guastella, Opera omnia. Volume primo. Saggi sulla teoria della conoscenza. Tomo I. Saggio primo. Sui limiti e l’oggetto della conoscenza a priori, con introduzione e a cura di Corrado Dollo, Padova, cedam («I filosofi siciliani»), 1972: 105 (d’ora in poi STC I).
[35] STC II 8-9.
[36] RF II 7.
[37] STC I 343 n.
[38] Cosmo Guastella, Le ragioni del fenomenismo (volume primo), Palermo, Priulla, 1921: 397.
[39] STC I 307 n.
[40] Vd. S 23 70.
[41] STC I 127.
[42] RF II 147.
[43] Apparso in «Illustrazione popolare», a. 43, n. 20, Milano, Treves, 16 maggio 1912: 311-312.
[44] Vd. SRB 111-139.
[45] Vd. La Biblioteca Filosofica di Palermo. Cronistoria attraverso i registri manoscritti ed altre fonti, a cura di Epifania Giambalvo, con la collaborazione di Ernesta Parroco, Armida Puleo Scerrino, Anna Spica Russotto e tre contributi di Nicola De Domenico, prefazione di Giuseppe Silvestri, Palermo, Edizioni della Fondazione nazionale «Vito Fazio-Allmayer», 2002: 176-177, 276-277.
[46] Vd. Ruggero Jacobbi, Antonio Pizzuto, Firenze, La nuova Italia («Il castoro»), 1971: 88.
[47] Vd. «La taverna di Auerbach», numero monografico su Pizzuto a cura di G. Alvino, a. II, n. 2-3-4, 1988: 141-145.
[48] Apparsi in Le «comparative simiglianze» di Antonio Pizzuto. Catalogo della mostra bio-bibliografica con testi inediti. Firenze, 15 aprile 2002. Aula Grande, Dipartimento di Italianistica, a cura di Felicita Audisio e Antonio Pane, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2002: 25-28.
[49] Paragrafi sul raccontare, «Questo e altro», n. 5, 1963: 31-32 (poi, con lievi modifiche, in appendice a Paginette, Milano, Lerici, 1964: 175-179; e, col titolo Vedutine circa la narrativa, in appendice alla ristampa di Paginette, Milano, Il Saggiatore, 1972: 185-189); Lessico e stile, in Atti del convegno di studi su lingua parlata e lingua scritta (Palermo, 9-11 novembre 1967), «Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani», vol. XI: 409-413; Dello scrivere difficile (seguìto dalle pagelle II, III, IV, poi in Pagelle I), «Nuovi Argomenti», n.s. n. 14, aprile-giugno 1969: 55-64; Sintassi nominale e pagelle (con le pagelle V, VI, XIII, XIV, XV, poi in Pagelle I), «L’approdo letterario», a. XVI, n. 52 n.s., dicembre 1970: 14-22.
[50] Vd. Antonio Pizzuto, Esaudite il mio testamento, a cura di Antonio Pane, «Oggi e domani», a. XXI, n. 9, settembre 1993: 7-14.
[51] Vd. la cronaca di Orsola, «L’Ora», 15-16 novembre 1967: 12.
[52] Vd. CdF 61-62.
[53] Vd. CdF 174-175.
[54] Vd. CdF 232 (lettera del 1° aprile 1971).
[55] CdF 233 (lettera del 2 aprile 1971). In una lettera successiva (2 maggio 1971, CdF 234) Pizzuto scrive ancora: «Per me, il capolavoro è il II volume, dedicato alle Antinomie, e a rileggervi, ad aperta di libro, come nella Bibbia o Kempis, imparo sempre qualcosa di nuovo». L’importanza di Guastella sarà riaffermata nell’intervista con Paola Peretti: «Guastella è uno sconosciuto ora, ma è il più grande filosofo che noi abbiamo avuto, non è certo un Benedetto Croce o un Gentile che possono ridarci questa dignità di pensiero» (PPP 47).
[56] Così Silvia Longhi, nella presentazione (in sovraccoperta) di Antonio Pizzuto, Pagelle II, traduction française, notes et commentaires de Madeleine Santschi, Milano, Il Saggiatore, 1975.
[57] Vd. Antonio Pizzuto – Alberto Mondadori, L’ultima è sempre la migliore. Carteggio (1967-1975) con le lettere di Antonio Pizzuto a Madeleine Santschi e Pierre Graff (1968-1976), a cura di Antonio Pane, introduzione di Claudio Vela, Firenze, Polistampa («Il Diaspro / Epistolari»), 2007: 86-87.
[58] Antonio Pizzuto, Ultime e Penultime, edizione critica di Gualberto Alvino, Nota per l’ultimo Pizzuto di Gianfranco Contini, Napoli, Cronopio («tessere»), 2001: 207 (d’ora in poi UP).
[59] Ora in Cosmo Guastella, Opera omnia. Volume primo. Saggi sulla teoria della conoscenza. Tomo III. Saggio secondo. Filosofia della metafisica. Parte prima. La causa efficiente. Appendice alla parte prima, con introduzione e a cura di Corrado Dollo, Comune di Misilmeri – Università di Catania, 1998 (Palermo, Grafiche Reanna S.p.A.): 100.
[60] UP 176.
[61] Vd. S 23 51-54.
[62] Vd. Antonio Pizzuto, Sinfonia, commento di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 2012: 101-105. Per l’identificazione di Guastella come ‘personaggio’ dei due testi, vd. la mia introduzione a S 23.
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
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