di Antonello Ciccozzi
Scrivo queste righe prendendo spunto da una recente boutade giornalistica assurta per qualche giorno a vicenda di rilevanza nazionale, che mi ha suggerito uno spazio di riflessione su un concetto che definirei in termini di “place shaming”, ovvero di razzismo territoriale o geografico. Nel talk show “In onda” (dell’emittente La7) del 20 luglio 2022 la conduttrice della trasmissione ha elogiato il rifiuto politico del premier dimissionario Mario Draghi, che non ha votato la fiducia al suo stesso governo, come «una grande lezione» impartita con «il tono di uno che, titolare di cattedra ad Harvard, è stato incaricato di una supplenza all’alberghiero di Massa Lubrense» [1]. La giornalista ha ripetuto questa formula nel corso della trasmissione e l’ha ribadita il giorno successivo nel suo blog su “La Repubblica” [2].
Trattandosi di una professionista di orientamento progressista molto nota – che per giunta ha diretto per qualche anno l’Unità, lo storico quotidiano comunista fondato da Antonio Gramsci – l’esternazione ha suscitato un sentimento pubblico di indignazione corale e un consistente dibattito mediatico [3], a partire da una lettera aperta firmata da duecento docenti di istituti alberghieri che hanno consigliato alla giornalista di fare un «bagno di umiltà» [4], accusandola di ignorare che «negli istituti alberghieri e negli istituti professionali in genere, si lavora e si insegna con la stessa dignità, e con la stessa professionalità di tutte le scuole». Sono stati seguiti a ruota proprio dalla dirigente dell’istituto alberghiero di Massa Lubrense – il comune campano di 14mila abitanti chiamato esplicitamente in causa nell’analogia – che ha rilasciato alla stampa la seguente dichiarazione: «si tratta di parole fortemente degradanti e totalmente errate dal punto di vista pedagogico. Abbiamo intenzione di fare rete con altri istituti alberghieri e procedere per vie legali» [5]. Sulla stessa linea, Ivana Barbacci, segretaria generale della Cisl Scuola, su Facebook ha scritto così: «da queste parole insensate, intrise di sarcasmo offensivo, per la scuola, ovviamente, passa la dimensione plastica della condizione di ignoranza in cui versano alcuni nostri sedicenti giornalisti».
Dal sito della rivista della casa editrice “Il Mulino”, Nicola Lacetera [6] ha spiegato che il paragone tra Harvard e l’istituto alberghiero di Massa Lubrense inteso come segno superiorità, valore, spessore culturale rispetto a ciò che, irrimediabilmente mediocre, meriterebbe solo di essere abbandonato al proprio destino, sottende non solo una concezione classista ma implica una narrazione in larga parte fuorviante: un simile discorso maschera con la poetiche del prestigio e della capacità quello che invece è prevalentemente un privilegio politicamente determinato dalla possibilità economica di accesso. In merito, sottolinea l’autore, è stato ampiamente dimostrato che «l’ammissione ad Harvard e ad altre scuole di simile prestigio sempre più riproduce, e anzi amplifica, le disuguaglianze economiche e sociali di provenienza», per cui va notato che «molti ragazzi frequentano istituti professionali perché privi di alternative, o perché vengono da anni di scuola primaria affrontati con difficoltà a causa di ristrettezze economiche o difficili situazioni famigliari».
Al momento in cui scrivo queste parole, la digitazione del nome della conduttrice insieme al toponimo “Massa Lubrense” sul motore di ricerca di Google produce 7270 risultati, e la quasi totalità dei contenuti esprime contrarietà bollando il discorso della giornalista in termini di spocchia, snobismo radical chic, classismo, antimeridionalismo, superficialità, pochezza professionale, ignoranza dei contesti reali, sintomo ennesimo della mutazione signorile della sinistra italiana.
Di contro la giornalista ha chiarito che non intende riconoscere la sua esternazione come una gaffe; viceversa ha ribadito quelle che sarebbero le ragioni del suo discorso. In merito infatti ha risposto ai dirigenti scolastici di Massa Lubrense che non avrebbero dovuto sentirsi offesi, anzi li ha sostanzialmente rimproverati per non aver compreso che la sua era quella che ha definito una “metafora con paradosso” (quasi fosse una categoria semiologica consolidata e nota, che bisognerebbe conoscere prima di criticare). In questa visione non vi era motivo di sentirsi offesi in quanto il soggetto della frase era Mario Draghi, e, soprattutto, poiché loro sono oggettivamente inferiori ad Harvard [7]. In merito la giornalista precisa che si tratterebbe di «un triplice declassamento» su un piano che ella ritiene «oggettivo» per delle ragioni che illustra in questo modo: «primo: essere titolare di cattedra è una condizione professionale migliore dell’esercizio di supplenza. Secondo: una importantissima università è una sede di lavoro più prestigiosa (per il docente, che continua a essere soggetto della frase) di una scuola secondaria di tipo professionale, le competenze della platea sono obiettivamente e naturalmente inferiori, anche in virtù dell’età degli studenti. Terzo: la sede, Boston, è un luogo che offre più stimoli di una qualunque cittadina di provincia» (comunque, in questo florilegio di pensiero gerarchico, ammette che tale aspetto forse è opinabile dal momento che, in un’apertura a uno spiraglio di relativismo, nota «che molti preferiscono vivere in piccoli centri che nelle metropoli»). Pertanto – assumendo una postura di monopolio interpretativo meno ermeneuticamente corretta che umanamente cortese – aggiunge che la località e la scuola che ha indicato non devono essere «intese in senso letterale», questo in quanto esse sarebbero unicamente «funzionali all’esempio» con cui intendeva indicare «la ‘retrocessione professionale’ di Draghi».
Insomma, il fine della giornalista non era quello di individuare e ingiuriare una specifica scuola alberghiera: stando alla sua precisazione questa scuola reale non è il soggetto del suo ragionamento, è stata usata come mezzo, come complemento di paragone per attrezzare un’analogia degradante in virtù del suo tangibile, «oggettivo» più basso rango. Il tutto in un’implicita visione gerarchica del mondo fatta di gradazioni tra luoghi superiori e luoghi inferiori, in differenze che si prestano a fare da traslato per indicare, infine, divari tra persone superiori e persone inferiori. La scuola reale, le persone reali che ci lavorano e ci studiano e la città reale che la ospita non dovrebbero dunque sentirsi offese: quelli di Massa Lubrense, sono collocati su un piano antropologico oggettivamente inferiore a quello di Harvard e possono pertanto essere usati come metro di paragone atto a evidenziare l’eccellenza di un soggetto altro rispetto a loro, alla loro implicita indecenza, in fondo. È la realtà, non è questione di delicatezza.
Per fare un esempio, seguendo questa logica del declassamento oggettivo, data la premessa che una giornalista e scrittrice come Concita De Gregorio è oggettivamente inferiore ad Isabelle Allende, da tale ordinamento gerarchico potrebbe scaturire la “metafora con paradosso” seguente: “è come la smorfia di un lettore che, abituato a Isabelle Allende, si imbatte in un romanzetto di Concita De Gregorio”. Il punto, in termini di “delicatezza”, è che per questa via al cattivo gusto esclusivista di enfatizzare gerarchie oltre lo stretto necessario si aggiunge il cattivo gusto di incarnarle in soggetti reali che diventano in tal modo oggetto di disprezzo riflesso. In merito si noterà che “è come la smorfia di un lettore che, abituato a Isabelle Allende, si trova a leggere un romanzetto di una scrittrice di second’ordine” è diverso; così come sarebbe stato diverso “il tono di uno che, titolare di cattedra ad Harvard, è stato incaricato di una supplenza in un scuoletta di provincia”.
Se non si può far a meno di guardare al “peccato” dell’altrui essere inferiori ci si potrebbe accontentare, come indica il proverbio, di parlare del peccato lasciando in pace il peccatore. Questo per dire che non ci vuole una mente sopraffina e un animo particolarmente sensibile per comprendere che è altamente offensivo essere usati come emblema di inferiorità in qualche metafora di esaltazione dell’eccellenza, che è del tutto avvilente trovarsi pubblicamente cuciti addosso i panni dell’esempio negativo, lo stigma del degrado su cui riflettere opposti splendori. Basterebbe il semplice esercizio di mettersi nei panni dell’altro e chiedersi “se trattassero me così mi offenderei o no?”. Quindi, se, come da lei stessa sostenuto, il fine della conduttrice non era additare di inferiorità una specifica scuola avrebbe potuto semplicemente evitare di inquadrare e usare una specifica scuola reale nel suo paragone degradante: ci sarebbe potuta riuscire semplicemente mantenendosi sul generico.
È altresì interessante notare come nel dibattito si è intravista un’opinione, per quanto ampiamente minoritaria, che ha elogiato il discorso della giornalista prendendolo come esempio di realismo, sincerità, onestà intellettuale. In proposito su “Linkiesta” Giulia Soncini dalla sua rubrica “L’avvelenata” chiosa così: «noialtri poco ricchi con pretese intellettuali come reagiremmo, se invece del liceo-classico-che-apre-la-mente la nostra prole ci dicesse di voler frequentare una scuola in cui imparare a sfilettare il branzino? Diremmo ma certo, tesoro, meglio di Harvard, vuoi mettere?».
Insomma: potendo scegliere, tutti, o almeno quasi tutti, manderebbero i figli a studiare ad Harvard, mica a Massa Lubrense. Ci mancherebbe. Non si tratta di ammiccare noumenicamente a un mondo isotopo, piallato dei dislivelli tra centri e periferie, tra i “sopra” e i “sotto” che lo segnano in profondità, tanto più che certi posizionamenti di fantasia di solito riescono meglio quando, fenomenicamente, si abitano le parti più fortunate del mondo adottando posture da tribuni della plebe. Non si tratta di fingere che non ci sono luoghi migliori o peggiori, più desiderabili o meno desiderabili, luoghi a cui si vorrebbe approdare, luoghi da cui si vorrebbe fuggire. Non è questione dei luoghi che, potendo, si scelgono. In questo caso è questione di come e perché si scelgono le metafore. È questione di delicatezza, ma non solo.
In merito alle parole su Massa Lubrense mi è venuto in mente un discorso del gennaio del 2018 dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump – subito giustamente bollato come razzista in un coro globale di esecrazione progressista – su quelli che aveva ribattezzato come shithole countries: i “paesi-cesso” (Haiti, El Salvador e i Paesi africani) da cui accogliere meno migranti possibile, scegliendo invece, ha precisato, le persone provenienti da paesi come la Norvegia [8]. D’altra parte, potendo scegliere, chi non sceglierebbe di accogliere un migrante ricco e istruito invece che povero e ignorante? Anche qui, oggettivamente, in Norvegia si sta meglio che in Nigeria. Potendo scegliere chi non sceglierebbe di vivere in un attico al centro di Oslo invece che in una baracca nelle bidonville di Lagos? Non a caso, si sarà notato, la gente tende a migrare da posti brutti e poveri a posti belli e ricchi. A ben vedere il discorso di Trump si basa su una declinazione selettiva del principio NYMBY (not in my back yard): apertura verso l’alto e chiusura verso il basso, ovvero una logica immunitaria dall’altro-povero e comunitaria verso l’altro-ricco, un’attitudine che nel pensiero conservatore si esplicita come valore esclusivista da ostentare contro la sinistra come segno politico-identitario di distinzione.
Difatti l’esternazione trumpiana è stata salutata positivamente in ambiti di destra. Ad esempio, in Italia su “Il Giornale” [9] si è potuto leggere che «Trump segue una linea storica costante per gli Stati Uniti che hanno sempre deciso da soli se e chi ammettere sul suolo patrio» (affermazione errata in quanto non è stato “sempre” così, poiché le politiche migratorie degli USA sono caratterizzate da un’oscillazione costante tra tendenza all’apertura e alla chiusura). Secondo il quotidiano è lecito erigere barriere verso Paesi «da cui arrivano fiumi di disperati illegali senza alcuna particolare abilità, affetti da depressione, crisi endemica refrattaria alle cure che può offrire la modernità», e comunque, al di là dei tentativi di riassetto diplomatico poi accampati da Trump, «shit-holes erano e shit-holes restano Paesi come Haiti che divorano miliardi di aiuti per terremoti ed epidemie, sempre preda della peggiore barbarie».
È chiaro che in questa occorrenza del classico moto di separazione della “civiltà” dalla “barbarie” siamo di fronte alla manifestazione estemporanea di una struttura discorsiva archetipica che, come cifra della modernità, scinde la weltanschauung occidentale nella polarizzazione tra xenofobi e xenofili, tra chiusura e apertura, tra immunitas e communitas, assumendo la forma dell’opposizione politica destra/sinistra: se per il pensiero di destra i Paesi-cesso esistono nitidamente, sono così per colpa loro ed è un diritto-dovere dei Paesi “avanzati” alzare una barriera contro di essi, per la sinistra i Paesi-cesso non esistono, esistono le persone-cesso come Trump che di essi farneticano l’esistenza, e anzi semmai i veri Paesi-cesso sono in fondo quelli occidentali, colpevoli di aver ridotto il Sud del mondo alla fame solo a causa dell’imperialismo coloniale, e pertanto in dovere di ripagare il mal fatto con un contrappassistico abbattimento delle frontiere votato all’accoglienza incondizionata in nome della cittadinanza universale [10].
Al di là di questa polarizzazione schismogenetica resta il fatto che, come dicevo, potendo, la maggior parte di noi sceglierebbe di vivere in un posto bello e ricco più che in uno brutto e povero. Si tratta, anche qui, di brutale realismo. In continuità sostanziale con questi temi mi torna in mente l’ironia di Massimo Catalano che, nel programma cult “Quelli della notte” del 1985 sentenziava che «è meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente che una donna brutta, povera e stupida». Questo dove, stando alla sopra menzionata logica del “declassamento oggettivo”, una volta approdati a un simile lapalissiano oggettivismo, si può anche fare pubblicamente nome e cognome della donna brutta, povera e stupida che si scarta: è oggettivamente inferiore all’altra, è ai suoi antipodi, la colpa è sua. Il livello è questo.
Volendo ammiccare a una certa moda divulgativa fatta di anglicismi a due termini direi che in questi casi siamo di fronte a manifestazioni di place shaming, di derisione dei luoghi. Ossia, in accordo con l’abitudine di usare il termine di razzismo nella sua accezione più ampia come sinonimo di discriminazione, mi pare che qui si delinei una poco ragionata tendenza al razzismo territoriale, a un razzismo geografico che non riguarda direttamente le persone ma prevede una gerarchizzazione dello spazio in luoghi ammirabili e luoghi disprezzabili, in luoghi desiderabili e in luoghi deprecabili, in luoghi a cui approdare e luoghi da cui fuggire. I luoghi sono comunque diversi, per cui, sempre declinando certe mode, una postura idealistica da place blindness atta a opacizzare certi dislivelli, cancellandoli solo discorsivamente, noumenicamente, in un egualitarismo territoriale di comodo che maschera di propositi eucaristici di inclusione e apertura un piano fenomenico fatto di distanze economiche, sociali, politiche, culturali destinate a indicare scalini antropologici difficilmente eludibili, lascia il tempo che trova. Lascia il tempo che trova di fronte all’impatto del reale fatto di baratri spesso inquietanti con cui prima o poi si dovranno fare i conti.
In tutto questo la differenza sta nel piglio, nelle intenzioni, e dicevo che la questione qui in esame non riguarda i luoghi che si scelgono: il punto è come si scelgono le metafore. Il discorso di destra è un discorso costitutivamente elitarista, volto ad aumentare la distanza tra i luoghi, in un’intenzione di allontanamento, di esclusione rispetto a un confine che si reputa argine contro un’impurità contaminante, di immunitas, di separazione intesa come valore da preservare per preservare sé stessi dal negativo dell’altro. Il discorso di sinistra dovrebbe essere un discorso egualitarista volto a ridurre la distanza tra i luoghi, in un’intenzione di avvicinamento, di inclusione, di cura, di communitas, di unione intesa come valore da perseguire per arricchire sé stessi con il positivo dell’altro. Resta che confrontarsi con l’altro dovrebbe significare farsi carico della sua complessità, della sua ambivalenza, del fatto che l’altro, proprio in quanto umano-come-noi, è e può essere positivo o negativo; e si dovrebbe iniziare a riflettere sul fatto che questo vale anche per i luoghi altri.
In conclusione, dovremmo comprendere che se il discorso che rileva la differenza gerarchica per intenzioni emancipatorie è di sinistra, quello che lo fa in senso umiliante e per allontanare è di destra (altro è, come dicevo, il discorso che vorrebbe rimuovere noumenicamente la differenza gerarchica tra i luoghi mascherandola in isotopie egualitariste oniriche rette da idealismi di comodo, in un wishful thinking variamente scollato dal reale). In tal senso, per tornare al caso che ha motivato questa riflessione – minuto ma esemplare e poco compreso in quanto segno di un bug nel pensiero progressista – essere di sinistra non significa far finta che Massa Lubrense vale come Harvard ma evitare di parlare di Massa Lubrense come topos di inferiorità opposto alla superiorità di Harvard, ammiccando a uno scenario assiologico che assume connotati morali polarizzati tra emblemi dell’eccellenza e dell’indecenza, del bene e del male. Da una prospettiva concretamente progressista i luoghi subalterni dovrebbero essere chiamati in causa nella loro subalternità solo in discorsi orientati a un lavoro culturale atto a ridurre la distanza tra essi e i luoghi egemonici, non evocati in poetiche elitariste della distanza che ammiccano a una concezione castale dello spazio e della vita. Resta il fatto che forse una discussione sul “place shaming”, inteso come razzismo territoriale o geografico, meriterebbe di essere aperta.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] https://www.la7.it/in-onda/rivedila7/in-onda-puntata-del-2072022-20-07-2022-446148 (il tema è esposto al minuto 6:30 e ripetuto al minuto 12:00).
[2] https://invececoncita.blogautore.repubblica.it/articoli/2022/07/21/le-regole-il-suk-e-la-classe/
[3] Ho partecipato personalmente alla discussione in ambito divulgativo con un testo su TPI, che la Redazione ha pubblicato con il titolo “Cara Concita De Gregorio essere di sinistra significa annullare le distanze tra Harvard e Massa Lubrense”(https://www.tpi.it/opinioni/concita-de-gregorio-harvard-massa-lubrense-annullare-distanze-20220727918603/). Personalmente, anche per non incentrare il discorso sulla persona, avevo proposto il titolo “Place shaming, la mutazione signorile della sinistra e il razzismo territoriale”; poi, rispetto al proposito idealistico, assoluto, direi asintotico, deciso dal titolista di “annullare le distanze” avrei preferito un più realistico “lavorare per accorciare le distanze”. In tutti i modi quella che riporto qui è una versione più articolata del discorso che ho ivi presentato.
[4]https://www.tpi.it/cronaca/faccia-un-bagno-di-umilta-oltre-200-docenti-dellalberghiero-scrivono-a-concita-de-gregorio-20220722917428/
[5]https://www.fanpage.it/napoli/le-parole-di-concita-de-gregorio-sulla-crisi-di-governo-fanno-infuriare-massa-lubrense/
[6] https://www.rivistailmulino.it/a/harvard-a-massa-lubrense-1
[7]https://www.tpi.it/cronaca/ecco-la-lettera-che-concita-de-gregorio-ha-inviato-a-dirigenti-e-docenti-20220726918260/
[8]https://www.washingtonpost.com/politics/trump-attacks-protections-for-immigrants-from-shithole-countries-in-oval-office-meeting/2018/01/11/bfc0725c-f711-11e,7-91af-31ac729add94_story.html
[9] https://www.ilgiornale.it/news/mondo/bravo-trump-i-paesi-cesso-esistono-e-chi-pu-fugge-1482710.html
[10] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/migrazioni-cittadinanza-polarizzazioni/
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Antonello Ciccozzi, è professore associato di Antropologia culturale presso Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Si è laureato con una tesi sulla teoria ciresiana dei dislivelli di cultura. S’interessa dei processi di rappresentazione sociale della diversità culturale, di causalità culturale in ambito giuridico, di antropologia del rischio, dell’abitare, delle istituzioni, della scienza, delle migrazioni. Ha svolto ricerche etnografiche nell’Appennino rurale, in contesti di marginalità giovanile urbana, in ambito post-sismico, in luoghi di lavoro precario dei migranti.
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