di Vincenzo Maria Corseri e Valentina Richichi
Ma in mezzo sta la virtù, dice Orazio, non la verità. Altrimenti sarebbe risolto il problema. La verità, per quanto riguarda gli uomini, è sempre diversa.
Giuseppe Pontiggia, Nati due volte
Introduzione
L’espressione “progetto di vita” è immediatamente riconducibile alla dimensione del futuro. Un futuro progettato, per l’appunto, ragionato, infine – e tale è la cifra ultima della progettualità – “sperato”. La dimensione della speranza è infatti il dispositivo al quale gli esseri umani ricorrono ogni qualvolta frequentino l’ambito del futuro. Progettare il futuro è dunque progettare la vita, non per semplice identità di due espressioni che possono a prima vista sembrare simili, ma poiché la vita stessa si inserisce nel tempo e non può fare riferimento unicamente ad esso. La vita infatti non è un accadimento individuale, bensì relazione. La relazione è inter-relazione, essa si situa su più livelli dell’esistenza e dell’ambiente, assume i contorni dei propri partecipanti, dell’incidentalità dell’incontro, delle prospettive generatesi al suo interno, degli aspetti determinati dallo scenario e dall’ambiente.
Progettare la vita vuol dire dunque dover tenere conto di una complessità intrinseca alla relazione stessa tra gli esseri umani, tra esseri umani e ruoli, tra ruoli e istituzioni, tra istituzioni e istituzioni, riproducendo quello che potremmo schematizzare in un diagramma che proceda dalla buona pratica sociale risalendo via via sempre più in alto fino alla legge.
Con cosa ha a che vedere la speranza all’interno del progetto di vita? Potrebbe sembrare una domanda superflua la cui risposta soggiacerebbe nel semplice auspicarsi una buona riuscita del progetto. Ma nell’ambito concreto della didattica speciale, la speranza della buona riuscita del progetto di vita deve fronteggiare le variabili della vita in sé ma anche gli ostacoli che la società e le istituzioni non sempre riescono a riconoscere e che pertanto vanno discusse e rivalutate quali risorse per poter migliorare il contesto in cui gli studenti con disabilità si trovano a dover organizzare la propria esistenza. Motore della speranza è la forza dell’immaginazione dell’individuo, risorsa alla base della cosiddetta “coprogettazione partecipante”, dove si pianifica un percorso in cui la persona con disabilità lavora attivamente per raggiungere l’autonomia sia nelle attività individuali che in gruppo.
Accompagnare nel progetto di vita
La progettazione prende avvio già nel contesto scolastico dove il compito stesso dello studio deve costituire il banco di prova per la maturazione di esperienze che prima sotto forma di disciplina e poi quali metodi di lavoro che vengono via via conformandosi in ambiti personalizzati, determinano l’acquisizione di una coscienza del futuro da parte non soltanto dello studente con disabilità, quanto da parte dell’intero gruppo classe e con un punto di riferimento chiave che è quello dell’insegnante-accompagnatore.
La figura dell’accompagnatore è quanto si rileva dalla linea paradigmatica stabilita da Andrea Canevaro e dall’area di ricerca pedagogica che al compianto maestro della pedagogia speciale in Italia si rifà, tenendo conto dell’articolato dibattito intorno al progetto di vita promosso dai principali studiosi negli ultimi anni (Sergio Neri, Dario Ianes, Lucio Cottini, Daniela Lucangeli, Fabio Bocci, Cecilia Maria Marchisio e altri).
Canevaro situa la progettazione sul crinale del percorso scolastico quale bagaglio esperienziale utile all’elaborazione di un approccio che sia funzionale all’inclusione anche al di fuori della classe quale “ambiente protetto” ma soprattutto monitorato, ambiente “accompagnato”, per l’appunto, dagli insegnanti e dal costante intervento della comunità scolastica. Il progetto diventa quindi espressione di una dimensione soprattutto epistemologica poiché non è pensabile una prospettiva sul futuro (personale, professionale, relazionale, emotivo) che non tenga conto di una ricerca per approcci sistemica.
Il riferimento a un termine che si presta a nessuna traduzione e molte circostanziate interpretazioni è “tâtonnement”, così descritto all’interno del recente volume L’accompagnamento nel progetto di vita inclusivo:
«Il tâtonnement è un ragionare per frammenti, che dovrebbe essere il modo più sensato della condizione umana, di chi vive un frammento di tempo rispetto al tempo del mondo. Ma il tempo del mondo non è indifferente al singolo vivente, che si spinge, con la mente, oltre il suo tempo, nel passato come nel futuro. Nei confronti delle persone con disabilità, il ragionare per frammenti significa non cadere nell’errore di credere che, avendo incontrato un soggetto cieco, si può tranquillamente ritenere che il prossimo soggetto cieco sia identico. Potrà avere problemi analoghi, ma ciascuno è un frammento di realtà, ed esige che si ragioni in relazione a quel frammento» [1].
Tale modo di ragionare per frammenti rappresenta dunque un modo del discretizzare continuo nell’esperienza e contemporaneamente anche un approccio corale e compositivo necessario a tutti gli attori coinvolti nel complesso sistema della classe prima e della vita fuori dall’aula poi.
La scuola è il contesto d’elezione della messa in atto di una progettualità del futuro poiché all’interno dell’istituzione stessa si mette in pratica il disposto dell’art. 5 della Legge n. 328 del 2000, cosiddetta “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” che tiene conto del principio di sussidiarietà. Tale principio si realizza attraverso l’intervento di molteplici organi, enti e sistemi sociali implicati, ciascuno per le competenze specifiche, nella realizzazione dell’intervento sociale per l’inclusione. Ecco perché si parla di “progetto di qualità” [2], dal momento che esso viene concepito sul doppio binario dell’accreditamento e della formazione.
Questa fase fondamentale della costruzione del progetto di vita va intesa come prodromica rispetto alla pianificazione del dopo-scuola, all’accompagnamento dello studente con disabilità verso una conoscenza diretta delle risorse a sua disposizione per poter raggiungere i propri obiettivi e contemporaneamente verso una pragmatica dei sistemi politico-sociali garanti di una inclusività. La vita dopo la scuola viene problematizzata sulla scorta di una precedente diffusa preoccupazione, il “dopo di noi”, il timore – anche fondato – del destino del figlio con disabilità dopo la morte dei genitori.
Sul piano delle relazioni sociali, un posto di rilievo è dunque occupato dalla famiglia che continua a mantenere il proprio ruolo di interlocutore privilegiato con chi si occupa delle strategie didattiche e dei processi di mediazione destinati a rendere efficace l’azione educativa all’interno del contesto classe in cui è presente un alunno con disabilità. A fondamento del progetto di vita è infatti il proposito di fare della scuola l’ambiente in cui l’attività didattica nei diversi livelli d’istruzione sia finalizzata a fornire allo studente con disabilità gli strumenti per poter inserirsi in un ambiente che sia la base di una comprensione più organica e dettagliata della società e che possa preparare l’allievo ad una naturale interazione con la collettività. Questo processo va inteso in una accezione organica in base agli equilibri interni al microcontesto (scolastico, familiare, associazionistico) in cui il giovane assimila progressivamente gli elementi strutturali per sentirsi parte attiva, integrante, di un sistema sociale. Il suo. Anche il territorio ha il compito di essere inclusivo e determinare cioè una condizione di vita che non preveda soltanto la frequentazione di centri per la disabilità, ma che sia accogliente e in grado di supportare la disabilità se non in certi casi fornire formule che consentano una maggiore accessibilità.
A tal fine si riporta, in chiusura al presente scritto, lo schema in cui il diagramma mostra i movimenti di andata e di ritorno (rappresentati dalle frecce) all’interno del sistema sociale e istituzionale attraverso i quali si compie la progettazione. La parte relativa allo stage riporta sotto le strategie concrete di supporto alle attività lavorative, la parte relativa alla vita scolastica è invece più incentrata nella ricerca delle risorse a disposizione degli alunni. Se, in tal senso, la parola d’ordine è costituita quindi dalla diade relazione/mediazione, ciò vuol dire che va problematizzata anche la presenza professionale dell’educatore socio-pedagogico, che insieme ai servizi sociali – dei quali si auspica un concreto potenziamento – necessita di una valorizzazione «per dare nuove energie alle politiche di welfare» [3]. Si tratta della costituzione del cosiddetto “budget di salute”, col quale si intende non l’aspetto meramente economico del supporto sociale, ma l’insieme delle strutture, degli organismi, delle professionalità e delle strategie che lavorano in sinergia.
Quando si parla dell’accompagnare uno studente con disabilità nella costruzione del proprio progetto di vita si deve quindi superare il paradosso dell’“enfasi dell’autonomia autarchica” [4], e cioè del fraintendimento dell’obiettivo finale cui tendere che non è il raggiungimento di una totale autonomia dello studente accompagnato dalle strategie degli attori e dell’ambiente con cui egli interagisce.
Rispetto alla nostra epoca contemporanea in cui la compressione dello spazio e del tempo determinano l’esigenza di risposte che facciano capo sia alla buona prassi di vita che a una prudenza in generale nei confronti dei pericoli che inevitabilmente possono insorgere, la progettazione di vita deve tenere conto anche della possibilità di incontrare delle fasi critiche e di doverle superare in un tempo ragionevole.
La crisi fa parte della vita di tutti e, pertanto, non può esistere un concetto di autonomia privo della possibilità di dover affrontare delle criticità, bensì occorre la costruzione di una cassetta degli attrezzi per rispondere alle difficoltà e ai cambiamenti. Uno degli strumenti, se non il più importante, è la fiducia in sé stessi. Ecco che l’educatore, attraverso attività nella lunga durata del percorso scolastico finalizzate a far sì che l’allievo con disabilità sviluppi una buona fiducia nel proprio sé, può e deve lavorare per condurre lo studente verso una consapevolezza organica delle proprie capacità e dei propri limiti, delle risorse materiali a propria disposizione e questo lo si raggiunge anche attraverso lo strumento didattico del compito di realtà col quale l’alunno può confrontarsi con pratiche di vita quotidiana complesse quali la spedizione di una lettera, l’acquisto di un bene o di un servizio, e così via, negli ambiti sociali, relazionali, abitativi, lavorativi.
«Un buon accompagnamento attraversa le crisi. Collegandoci a questo, ricordiamo e sottolineiamo che l’indennità di accompagnamento non è incompatibile con lo svolgimento di attività lavorativa dipendente o autonoma. È bene chiarirlo per evitare una falsa contrapposizione fra tale indennità e l’accompagnamento inclusivo. Questo chiarimento può aiutare a superare uno degli ostacoli che a volte vengono posti all’impegno come accompagnatori degli educatori socio-pedagogici. Il loro compito è o dovrebbe essere proprio l’accompagnamento nel progetto di vita» [5].
L’inclusione, come abbiamo visto, è quindi un processo corale che necessita di tante tessere come in un mosaico, per dirla con Jared Diamond [6], poiché la complessità sociale e il superamento delle singole asperità che naturalmente si presenteranno nella vita quotidiana dipenderanno dall’azione combinata di più fattori. In tal senso, Bandura osserva come il principio di agency sia opportuno per individuare l’insieme di azioni con cui l’individuo riesce a vivere all’interno della complessità sociale e ne fa in particolare la base della sua definizione di pedagogia istituzionale. Bandura infatti riconosce all’interno della società l’istituzione come una realtà costituita da istituito e istituente, corrispondenti rispettivamente alle strutture così come si presentano e all’attore che opera all’interno di esse. Quest’ultimo è caratterizzato, appunto, anche dall’agentività che è l’area all’interno della quale dovrà muoversi il lavoro della didattica speciale nella preparazione del progetto di vita per la costituzione della cosiddetta ‘pedagogia istituzionale’, «ispirata a Freinet. Il suo modo di intendere e vivere la cooperazione educativa è una continua riorganizzazione – istituito + istituente – del gruppo eterogeneo che compone una classe» [7]. Questo approccio ha come diretta implicazione il fatto che le azioni istituzionali siano finalizzate a preparare il campo all’inclusività condivisa quale risorsa complementare alle azioni individuali coinvolte.
L’accreditamento e le normative di riferimento
L’apparato normativo a sostegno della organizzazione di servizi sociali sul territorio è stato interessato da una prima evoluzione di ordine concettuale che ha superato la natura assistenzialistica alla Legge Turco n. 328 del 2000 in cui è contemplata l’adozione di un approccio sistemico che coinvolge famiglie e servizi. In seno all’evoluzione dei servizi e delle loro tipologie, la normativa ha disposto successivamente che si emanassero dei regolamenti regionali la cui osservanza è garantita dai Comuni. Gli enti locali si occupano infatti dei servizi sociali sul territorio, ma il loro non è un lavoro esclusivo: è stata ampliata la dimensione dialogica tra enti locali ed enti del terzo settore per permettere la creazione di una rete organica di supporto alla disabilità.
Per evitare che gli enti, le fondazioni, le associazioni di categoria e di promozione sociale volgano la loro attenzione verso interessi differenti, il ricorso all’accreditamento costituisce un dispositivo di acquisizione delle forze e di un loro monitoraggio sia per quanto concerne determinati standard operativi che per quanto riguarda la garanzia nel campo delle tutele anticorruzione: «entro l’anno in corso, la Riforma del terzo settore, ex Legge n. 106 del 2016 con il relativo Codice dovrebbero finalmente giungere a compimento mediante gli ultimi decreti esecutivi e, nonostante il Parere n. 2051 del Consiglio di Stato del 2018, chiesto dall’ANAC [Autorità Nazionale Anti Corruzione], che ha problematizzato il passaggio dalle gare di appalto alle partnership tra pubbliche amministrazioni e organizzazioni di terzo settore, quali l’accreditamento e la coprogettazione, le stesse non vengono comunque compromesse» [8]. Questa possibilità di ricorrere al partenariato si rispecchia anche in una volontà di evitare la competizione tra enti del terzo settore e quindi che si inneschi quel meccanismo per il quale un ente vince una gara perché richiede un compenso più basso, ma al contempo l’affidamento del servizio a quello stesso ente risulterebbe compromesso dalla mancanza di risorse economiche preposte alla erogazione efficace e di qualità. Come è evidente, nella costruzione dell’inclusività, la società che ricorre alle normative per poter garantire i servizi deve puntare sempre ad un miglioramento delle leggi, funzionale a garantire i principi di sussidiarietà a fondamento della migliore prassi per il bene pubblico.
Da ricordare, infine, è la notevole miglioria concettuale, finalizzata al perseguimento di una progettazione del futuro, apportata dalla Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) sui diritti delle persone con disabilità del 2006 (ratificata in Italia nel 2009): essa
«non costituisce un approccio metodologico da affiancare o sostituire ad altri: entrare in un cambio di paradigma non significa modificare la maniera in cui si costruiscono soluzioni, ma quella in cui si definiscono i termini di un problema. Non si tratta di cambiare il modo di prendere in carico o di prendersi cura, ma come intendere le persone con disabilità, le quali passano, nel nuovo modello, da essere soggetti che è necessario assistere a essere cittadini» [9].
Tale approccio alla disabilità consente di osservare da nuove prospettive l’apparato normativo che fa capo alla Legge 104 che è base del riconoscimento del diritto agli accessi per la disabilità e che annovera tra questi anche la possibilità di avvalersi degli educatori e degli insegnanti di didattica speciale.
Progettare la vita adulta
La progettazione organizza le proprie azioni tenendo conto dei principi di pertinenza, coerenza e sostenibilità ai quali deve concorrere anche l’efficacia. Mettere in atto questo ultimo principio significa adoperare anche la valutazione, ovvero la capacità nel tempo di adeguare le azioni e configurarle in base a cambiamenti imprevisti. La progettazione infatti «accoglie, anche in progress, informazioni e suggerimenti: ogni evoluzione è frutto di un progetto bottom up» [10] e ciò avviene anche nell’economia delle risorse, che possono rinnovarsi e riconfigurarsi durante il percorso. A questo approccio fa capo il concetto di “benchmarking” che prevede un confronto non competitivo ma costruttivo tra gli attori istituzionali e associazionistici al fine di costituire una rete con una comunanza di obiettivi e di metodi.
L’obiettivo comune da perseguire è l’inclusione, attraverso la quale si promuove la cittadinanza attiva e si incrementa la capacità produttiva, facendo sì che non ci siano persone che non riescono ad ottenere il proprio ruolo nel mondo, al contrario: l’inclusione permetterà ai soggetti disabili di essere parte della grande macchina produttiva e sociale. Perché tale obiettivo venga perseguito con successo occorre che la risposta dei pubblici servizi garantisca una adeguata accessibilità. Quando si conclude il percorso scolastico con l’educatore sociopedagogico, è la cooperativa accreditata a lavorare in rete sul territorio in un’ottica di perseguimento di una sempre crescente autonomia del soggetto con disabilità.
«L’educatore deve aver cura che l’altro impari ad avere cura di sé, si vince nella relazione educativa solo quando l’educatore non serve più. Deve sapere stare all’interno della relazione di cura: quella cura che si lega alla relazione di aiuto che non evita all’altro la fatica, non lo prende in braccio, ma mantenendo la giusta distanza gli consente di organizzarsi, per trovare le giuste soluzioni. Esiste un modo di aiutare l’altro che è un ‘dono leggero’, che Heidegger chiama ‘cura autentica’ rappresentata da un gesto che libera ed emancipa […]» [11].
Se, come abbiamo visto, l’inclusione istituzionale si dispiega sui due piani dell’istituito e dell’istituente, l’attore individuale coinvolto prende parte attiva a un tutto grazie alla propria agentività e quest’ultima ha come fine il raggiungimento di un benessere che è a sua volta un tassello del benessere dell’intera comunità cui appartiene. Entrare a far parte in modo altamente partecipativo al gruppo comunità è comunque un processo in cui ci si scontra anche con una considerazione dei livelli di competenza e sviluppo inseriti in una ottica lineare. Si parla proprio di sviluppo lineare e, in modo complementare, di sviluppo eco-sistemico per descrivere il benessere di una società. Lo sviluppo lineare è quel concetto socialmente condiviso che vede la possibilità di acquisire competenze su una ideale linea progressiva. Pertanto questo concetto implica il fatto che ci siano individui che hanno raggiunto determinati obiettivi e altri che «non hanno ancora raggiunto ‘quel livello’ e che sono rimasti ‘indietro’». Al cospetto di tale percezione del percorso formativo, e quindi di inserimento e affermazione sociale della persona con disabilità, le aspettative sono spesso poco realistiche e non aderenti alle specificità del profilo strutturale, psicologico e fisico dell’individuo coinvolto. Emerge quindi la condizione di non inclusività purtroppo particolarmente diffusa a causa della competitività sociale e dell’inadeguatezza culturale di un sistema di relazioni non sempre attento ai valori precipui della persona.
Lo sviluppo eco-sistemico interessa invece la dimensione del sistema sociale quale rete di connessioni tra individui, tra gruppi e delle loro attività intese anche come nessi causali del profilarsi di una determinata comunità. Questa considerazione organica dei gruppi sociali, insieme a un urgente riconoscimento del modello di sviluppo lineare come modello inadeguato, offrono l’opportunità di riflettere e rivedere il modo di stare al mondo e di operare al suo interno senza dover necessariamente ricorrere all’idea consumistica e impersonale di lavoro, bensì grazie a un ripensamento dell’attività lavorativa in generale.
La Convenzione ONU del 2006 ha fatto da apripista a cambiamenti nell’intenzionalità dei servizi dedicati alla disabilità, trasformandoli da servizi di assistenza a contesti di formazione e auto-formazione. Un’autentica possibilità di autoaffermazione e autodeterminazione del soggetto con disabilità è costituita dalla possibilità concreta di raggiungere l’autonomia anche come vero e proprio passaggio all’età adulta. Si riconosce infatti una tendenza, da parte delle famiglie di soggetti con disabilità, a non pungolare i giovani nella ricerca di una emancipazione dalle dinamiche familiari e domestiche come invece avviene per i giovani a sviluppo tipico.
«Appare necessario, dunque, ripensare la transizione alla vita adulta attraverso nuove categorie che consentano di superare, sia nelle concettualizzazioni che nelle pratiche, quella che attualmente è definita come un’adultità speciale, andando alla ricerca di approcci che consentano di muoversi in modo maggiormente coerente con lo scenario definito dall’approvazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità» [12].
L’applicazione dei principi della Convenzione ha incontrato i suoi primi ostacoli innanzitutto nel reiterarsi della prassi convenzionale fino ad allora adottata e nello scetticismo circa la concreta possibilità che le persone disabili potessero approdare a certi livelli di autonomia decisionale e operativa. Una delle prime cornici a risentire di una riconfigurazione è stata il lavoro per gruppi che ha lasciato il posto alla pianificazione individualizzata. Questa nuova prospettiva ha determinato l’abbandono graduale di un repertorio di pratiche assistenzialistiche che riducevano a un numero finito le possibilità di uno studente con disabilità quali determinati istituti da frequentare (in Italia sono stati chiusi definitivamente), determinate (e limitate) pratiche da compiere, una determinata vita dal copione assai prevedibile. Insieme quindi a un cambio di repertorio di pratiche, la progettazione ha risentito anche della necessità di rinnovare e ripensare la metodologia della didattica alla luce anche delle nuove collaborazioni tra la ricerca universitaria e le famiglie grazie al progetto “VelA – Verso l’autonomia”, «che ha fornito l’occasione per definire consistenti elementi di metodo e ha consentito di mettere a punto le basi del nuovo approccio. Lo stesso è stato poi sviluppato attraverso il progetto ‘A. Pro’ e, in seguito, a partire dalla sperimentazione ‘19 Pari!’, nell’ambito della quale è stato denominato ‘coprogettazione partecipante» [13].
Per spiegare il significato di questa locuzione, Cecilia Maria Marchisio presenta tre differenti livelli della progettazione: il modello classico, il modello individualizzato, il modello personalizzato. Il modello classico fa capo a una concezione della relazione con lo studente con disabilità basata esclusivamente su obiettivi/attese preconfigurati e incasellati con il preciso scopo di indirizzarvi l’allievo in modo univoco e limitato/limitante. Le altre due tipologie di modello, che a prima vista potrebbe sembrare vogliano enunciare un significato analogo, si distinguono invece perché con “individualizzato” si intende un lavoro che è propaggine dell’approccio classico, che semplicemente tiene conto di alcune specificità dell’allievo e ritagliandolo su di lui sempre secondo la prospettiva degli obiettivi prefissati e il metodo dell’educatore, alla stregua della cosiddetta ‘compliance’, ovvero la somministrazione di una terapia sanitaria (il termine è infatti mutuato dall’ambito medico); “personalizzato”, invece, sta a progetto costruito dall’allievo stesso, al quale spetta il ruolo di regista del proprio progetto e che matura via via un approccio agli obiettivi che lui stesso si pone. In tale contesto, la figura professionale dell’educatore è imprescindibile perché è proprio in questo equilibrio che si gioca la sua competenza. Infatti
«la progettazione personalizzata […] non prevede di partire dall’articolazione di servizi, metodi, luoghi e attività esistenti, declinandoli sulla base di obiettivi individuali: al contrario, si parte da questi ultimi per identificare o costruire sostegni, supporti, strategie, tempi, luoghi e azioni che non sono preesistenti ma realizzati in modo, appunto, personalizzato, pienamente rispondente alle aspettative dell’individuo e situati nella comunità» [14].
Per comprendere il funzionamento di questo modello è fondamentale tenere presente che la differenza sostanziale tra la forma individualizzata e quella personalizzata risiede nell’adozione di due punti di vista differenti: nel primo caso, è il punto di vista dell’educatore a prevalere, anche quando tende a farsi portavoce dei bisogni e delle aspettative dell’allievo. In realtà è una illusione, un puro paradosso, poiché la voce dell’allievo risulterà in ultima analisi sempre filtrata dalle categorie interpretative dell’educatore che lo accompagna nella progettazione. Nel modello personalizzato ricorre invece una caratteristica che è fondante ed è la narrazione dell’individuo, l’espressione personale e originale dei propri bisogni, delle proprie inclinazioni, esigenze, curiosità, aspettative per il futuro, la volontà di cambiare strada davanti a un bivio, soprattutto il suo essere bricoleur della costruzione della propria strada di vita. In tal senso, l’apertura a una condizione esistenziale inserita in un progetto è un percorso dove la libertà di operare scelte slegate da schemi precostituiti è la chiave di volta. Le narrazioni hanno il compito quindi di esplicitare la pluralità dei punti di vista coinvolti nella costruzione del progetto di vita dove il punto di vista dell’allievo con disabilità è il vero obiettivo dell’educatore che a tal fine dovrà porsi in modo accogliente e senza presunzioni interpretative.
A sostegno della coprogettazione capacitante è il concetto di “capability”, termine mutuato dal “Capability Approach” di Amartya Sen e Martha Nussbaum per quanto concerne il campo della filosofia politica. Sen adopera questa prospettiva di analisi per descrivere le possibilità che individui e gruppi hanno a loro disposizione sulla base del riconoscimento di determinati funzionamenti. Per funzionamento, in questo caso, non ci si riferisce alla nozione di funzionamento che fa capo all’ICF (ovvero alla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), ma alle attività, anche elementari come mangiare e lavorare, svolte dagli individui. Più funzionamenti un individuo o un gruppo avranno a loro disposizione e più potranno compiere azioni intersecandole e ponendole in relazione tra loro, maggiori saranno la loro libertà di operare scelte e la loro libertà tout court. Il repertorio di funzionamenti a propria disposizione e la possibilità di scegliere cosa e come adoperare tra essi definisce uno spazio di manovra e una maggiore capacità di vivere in società. Ma, attenzione: non è con “capacità” che il termine “capability” va tradotto, come talvolta è avvenuto, in alternativa a “competenza” e a “capacitazione”, quest’ultima una traduzione «più vicina al concetto originario, perché anche la capacitazione chiama in causa la dimensione del potere e delle opportunità reali», ma «rischia in ogni caso di risultare in definitiva confondente soprattutto in ambito operativo, poiché si è tentati di rappresentarsi la capacitazione (ancor più se capacitazioni, a causa di questo plurale) come un oggetto, mentre si tratta di un processo» [15].
La traduzione adottata da Lorella Terzi è “approccio della capacità”, e fa capo sempre alla considerazione dell’ampiezza del repertorio dei funzionamenti quale indicatore dell’autonomia e quindi del benessere dell’individuo che a sua volta è un tassello del benessere dell’intera società. Scrive Terzi:
«L’approccio delle capacità contribuisce alla riconcettualizzazione di disabilità e bisogni educativi speciali, permettendo l’interazione tra il livello teorico, relativo al definire la disabilità come aspetto della diversità umana, e il livello politico, relativo al determinare e assicurare un giusto diritto all’istruzione (trattando le persone paritariamente). All’interno di questo approccio, le differenze individuali sono riesaminate in termini di funzionamento e di capacità (capability), e sono viste come centrali nella valutazione delle effettive opportunità di funzionamento in campo scolastico. Inoltre, riesaminando menomazione e disabilità attraverso i concetti di funzionamento e capacità (capability), la prospettiva delle capacità concettualizza gli aspetti relazionali della disabilità, sia rispetto alla menomazione che ai fattori scolastici, superando così le interpretazioni unilaterali basate sulla dicotomia artificiosa individuale/sociale e le relative definizioni» [16].
Lo sbocco occupazionale, uno degli obiettivi perseguiti dal progetto di vita, presenta oggi numerosi problemi che la crisi della pandemia ha esacerbato. La Legge n. 68 del 1999 per l’inserimento lavorativo dei disabili ha previsto delle soglie occupazionali che spesso non rispondono alle esigenze delle aziende in difficoltà nell’individuare i ruoli e le collocazioni più coerenti. Ad ogni modo, una congiuntura economica come quella che abbiamo attraversato prima e a seguito della pandemia da Coronavirus, ha determinato difficoltà nell’accesso ai posti di lavoro poiché aderente a un concetto di lavoro che pone distanze e barriere all’inclusione, da una parte perché lo sviluppo tecnologico ha posto l’esigenza di figure professionali sempre più circoscritte e dalle pratiche in qualche modo “obbligate”, dall’altra perché il mercato del lavoro presenta oggi una prevalenza di mestieri dove è richiesta manodopera a basso prezzo e sembra non esserci alcuna volontà a creare posti di lavoro per disabili poiché antieconomici e poco funzionali alle logiche del profitto.
Cercare di adeguarsi ai modelli proposti, anche professionali, è quanto la persona con disabilità tende a fare per poter raggiungere un livello di “normalità” che è quello da lui percepito e offerto come tale dalla comunità di appartenenza. Il cosiddetto paesaggio sociale necessita di essere riconfigurato dando anche all’esperienza lavorativa l’opportunità di restituire alla comunità un servizio “sociale” nei termini di una inclusione di tutti gli individui con le loro peculiarità e facendo sì che l’esperienza lavorativa sia una dimensione anche intesa come costruzione, svago, attività guidata da una particolare vocazione.
Questa opportunità è data dalla costruzione anche auto-educativa dell’allievo con disabilità che dovrà quindi vedere nell’educatore non l’altro da emulare, ma l’interlocutore situato in una relazione dove le specificità e le possibilità offerte all’altro da ognuno dei due costruiscono la relazione e i ruoli:
«Questo che chiamiamo ‘lavoro educativo’ non è chiuso nel binomio adulto/bambino o insegnante/allievo o chi aiuta/chi è aiutato. Non è educare: è educarsi. Associare e associarsi progressivamente alla progettualità che comporta distinguere ciò che è negoziabile e ciò che non lo è; imparare continuamente ad agire o a prendere decisioni a rischio di assumere la propria responsabilità individuale nella prospettiva di salvare la possibilità di decisioni partecipate. In questa prospettiva, vi può essere continuità, con le discontinuità significative e utili, fra le varie fasi della vita, che chiamiamo educazione alla cittadinanza. Educarsi e non educare. Rendendosi conto che ogni segregazione è dannosa all’educarsi e al progetto istituzionale» [17].
La cittadinanza e l’essere uguale a tutti gli altri cittadini è così parte integrante di un progetto all’interno del quale l’urgenza non è la ricerca di un’assistenza ma il conseguimento di una autonomia su più livelli.
L’accompagnamento nel progetto di vita si dispiega dunque anche in una guida all’autoeducarsi e alla formazione per raggiungere livelli di autonomia che devono incontrare crisi, reinventarsi, essere resilienti, portare il proprio contributo in modo complementare senza adagiarsi nelle nicchie sociali che sono state precedentemente costruite con l’intento di fornire esclusivamente assistenza senza possibilità di crescita. In tal senso la sfera lavorativa, così come concepita da Canevaro, individua tre versanti dell’attività lavorativa così distinti:
1. l’apprendimento operoso
2. la produttività operosa
3. L’operosità produttiva
dove il primo è il processo attraverso il quale, tramite le esperienze di stage, tirocini, apprendistati, l’allievo può confrontarsi con una realtà lavorativa inserita in una cornice di formazione permanente; il secondo punto riguarda invece la dimensione lavorativa così come prevista da una prestazione formalizzata da regolari contratti di lavoro. Il terzo ed ultimo, che appare come un ribaltamento della locuzione precedente, rispetta la strategia della formazione, dell’autoformazione (o, come abbiamo visto, autoeducazione) e la sua caratteristica creativa, inscritta nella possibilità di offrire il proprio contributo al paesaggio sociale.
Nello schema che si riporta accanto è presente, sviluppata in diverse parole chiave, la sintesi derivante dall’intersezione tra i concetti alternativi di lavoro/non-lavoro e di vincolo/libertà, dove l’inserimento inclusivo del soggetto con disabilità si esprime nell’agency situata nella propria inclinazione svincolata dal lavoro, ovvero di una libertà del non-lavoro che garantisce una serena conduzione delle proprie attività, ma pur sempre in grado di dare all’individuo l’opportunità di fare la propria parte:
«Fondamentale per una siffatta conversione che può dare valore oltre al lavoro, anche al non lavoro, intenso come lavoro non retribuito, a valore d’uso, non di scambio, è il potere fare affidamento su ‘misure di sostegno al reddito continuative’ sostenute dalla fiscalità generale e/o come risultante di una più equa ripartizione della ricchezza complessivamente prodotta dallo sviluppo tecnologico, con un ‘welfare di prossimità’ e ‘politiche attive del lavoro promozionali’ (non sanzionatorie, da workfare anglossasone)» [18].
A fianco alle forme di reddito, notevole importanza è data anche dal Servizio Civile Democratico e dal CEPS (Centro Emiliano Problemi Sociali per la Trisomia 21) che operano per l’inserimento professionale dei disabili, una sfida resa oggi ancora più complessa dal difficile tempo che il mercato del lavoro sta vivendo.
Conclusioni
La vita di un individuo con disabilità da quando frequenta la scuola fino a quando approda all’età adulta è oggi sostenuta da una serie di sostegni che sono maturati in seno a discipline anche molto diverse tra loro ma il cui lavoro le ha rese complementari: da una parte la ricerca e gli studi pedagogici e di didattica speciale, dall’altra i nuovi passaggi normativi che hanno garantito l’accesso ai primi e una sostanziale crescita delle competenze degli educatori e degli insegnanti di didattica speciale. Termine ultimo del confronto è, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la preparazione dell’allievo a un progetto di vita che ha esso stesso, nella fase prodromica della sua ideale, impalpabile “stesura”, il compito di renderlo consapevole e pronto a compiere scelte autonome. L’atto stesso del progettare, del prendere in mano la propria vita nelle intenzioni, nelle inclinazioni, nelle scelte personali, è l’obiettivo che si prefigge il progetto stesso: far sì che l’autonomia tanto agognata venga raggiunta e che quindi l’allievo con disabilità entri nell’ottica del poter far da solo quanto anche del fare non da solo, accompagnato, ma fare secondo una sua progettualità e secondo i propri spunti dell’immaginazione.
Immaginazione che è il recto, insieme alla speranza che è il verso, di un’unica operazione che compie una equilibrata e lucida impresa didattica: lo potremmo definire attivismo sociale? In un certo senso, sì. Se le strutture complesse della società, dove molto è dedicato al profitto e poche sono le nicchie di buone prassi, a queste ultime si deve certamente molto per l’inclusione; ma non dimentichiamo che il lavoro degli insegnanti, degli educatori, degli operatori sociali è una professione in cui le competenze sono il frutto di formazione continua e dedizione sul campo.
Last but not least, il campo del lavoro: abbiamo affrontato l’aspetto dell’accesso degli individui con disabilità al mondo del lavoro e guardato con occhio grandangolare per meglio comprendere come il contesto che circonda le singole attività sia parte di una conoscenza generale dell’intera società come organismo complesso in cui le difficoltà per i disabili aumentano e l’inserimento risulta difficile quando deve scontrarsi con le pastoie delle ragioni aziendali, destinate a segregare ruoli e a polverizzare le attività produttive: se un tempo quelli che Marx definì “rapporti di produzione” avevano un senso perché facenti parte di una struttura sociale più elementare rispetto a quella odierna e davano la possibilità ai singoli lavoratori di sentirsi davvero investiti di un ruolo, oggi la frammentazione delle attività produttive e le dinamiche del panorama globale hanno determinato una spersonalizzazione del lavoro ed eretto una ulteriore barriera alla disabilità, escludendola da attività che risultano esse stesse ai minimi termini già per la maggior parte dei lavoratori (pensiamo ai camminatori dei magazzini delle grandi aziende di commercio online).
Distante da quanto oggi purtroppo si prospetta, è invece il progetto di vita declinato nei suoi aspetti formativi: la libertà e la formazione continua che si alternano rispetto a piccoli impieghi e a fasi di apprendistato, attribuiscono alla dimensione lavorativa una caratteristica che potremmo assimilare certamente al concetto di serenità. Scrive Canevaro:
«Il più delle volte, il mondo della formazione e quello della produzione sono considerati come distinti. L’auspicio è che dialoghino. Per questo si vorrebbe un maggiore coordinamento della formazione e del sistema produttivo. La formazione è considerata una variabile opzionale, un segmento in cui il soggetto forse ha l’opportunità di muoversi verso il mondo del lavoro. Perché questo avvenga in modo soddisfacente, sarebbe bene conoscere i profili professionali. E, se possibile, tanto i profili di chi rimane nel mondo produttivo, quanto quelli di chi ne esce perdendo il lavoro. E questo per adeguare, se possibile, la formazione, studiandone i punti di fragilità. Come si capisce bene, questa logica vede due mondi distinti, e uno in qualche modo subordinato all’altro. E seguendo e sviluppando questa stessa logica, arriviamo alla richiesta di far incontrare l’eccellenza della formazione con le esigenze del mondo produttivo e imprenditoriale. In questo modo, verrebbe premiata la qualità del ‘capitale umano’ che la formazione produce e potrebbe così offrire al mondo della produzione. Sempre in questa prospettiva, l’auspicio è che vi sia modo di conoscere e incrociare le esigenze delle imprese e quelle del mondo della formazione, per migliorare le attitudini di chi si forma per renderlo adatto al mondo» [19].
Se il mondo del lavoro e della formazione vengono ripensati a partire dalla progettazione del futuro per i soggetti con disabilità, si apre davanti a noi la possibilità che il contributo al benessere sociale parta da questo stesso, importantissimo, aspetto: e se il modello di formazione e inserimento nel lavoro contribuisse a un ripensamento della intera sfera lavorativa per tutta la società? Se le modalità con cui diventiamo adulti facessero riferimento al modo in cui si problematizza la crescita dell’autonomia, molti degli aspetti che si danno per scontati vacillerebbero e la società tutta potrebbe trovare beneficio dalla messa in discussione di molti assunti, di molte suddivisioni dei ruoli, della vita lavorativa in generale con i suoi orari e le sue regole, portando a riconfigurare le modalità con cui la produttività è intesa e fornendo una nuova etica dello stare al proprio posto nella società. Se così avvenisse, la risposta agli interrogativi sulle opportunità che il sostegno alla disabilità può fornire, sarebbe ancora una volta positiva.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] Cfr. A. Canevaro, M. Gianni, L. Callegari, R. Zoffoli, L’accompagnamento nel progetto inclusivo, Erickson, Trento 2021: 20.
[2] Ivi: 21.
[3] Ivi: 25.
[4] Ivi: 31.
[5] Ivi: 36.
[6] Cfr. J. Diamond, Crisi. Come rinascono le nazioni, Einaudi, Torino 2019.
[7] A. Canevaro et al., L’accompagnamento nel progetto inclusivo, cit.: 42.
[8] Ivi: 71-72.
[9] Cfr. C. M. Marchisio, Percorsi di vita e disabilità. Strumenti di coprogettazione, Carocci, Roma 20213: 9.
[10] Cfr. A. Canevaro et al., L’accompagnamento nel progetto inclusivo, cit.: 75.
[11] Ivi: 86.
[12] C. M. Marchisio, Percorsi di vita e disabilità. Strumenti di coprogettazione, cit.: 22.
[13] Ivi: 32.
[14] Ivi: 37.
[15] Ivi: 147.
[16] Cfr. L. Terzi, L’approccio della capacità (capability approach) applicato alla disabilità e ai Bisogni Educativi Speciali, in D. Ianes, A. Canevaro (a cura di), Orizzonte inclusione. Idee e temi da vent’anni di scuola inclusiva, Erickson, Trento 2016: 246.
[17] A. Canevaro et al., L’accompagnamento nel progetto inclusivo, cit.: 95.
[18] Ivi: 106 [quest’ultimo brano è a firma di Leonardo Callegari].
[19] Cfr. A. Canevaro, La lunga strada dell’integrazione nella società per una vita autonoma e indipendente, in «L’integrazione scolastica e sociale», n. 8/5, novembre 2009: 431.
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Vincenzo Maria Corseri, dottore di ricerca in Filosofia, ha svolto attività seminariali presso la cattedra di Storia della filosofia medievale dell’Università degli Studi di Palermo. Ha successivamente conseguito la specializzazione per le attività di sostegno didattico e attualmente insegna nei licei statali a Milano. È stato collaboratore della Facoltà Teologica di Sicilia per la redazione del Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e Teologi di Sicilia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni. Nel 2010 ha collaborato con Luca Parisoli nella cura del volume miscellaneo Il soggetto e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Officina di Studi Medievali, Palermo; nel 2018 ha curato, con G.L. Bonanno, il volume Cultura storica e tradizioni religiose tra Selinunte e Castelvetrano, una raccolta di studi sulla storia religiosa e culturale del territorio selinuntino pubblicata dall’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo. Di recente ha curato il volume Amalia Del Ponte. Antologia critica dal 1962 al 2021, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2021.
Valentina Richichi, laureata in Beni demoetnoantropologici presso l’Università di Palermo e specializzata in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, si interessa di educazione nelle classi multietniche e di processi migratori. Ha svolto ricerca nel contesto dell’accoglienza ai migranti minori non accompagnati. Ha operato nell’ambito dell’editoria e degli studi sull’emigrazione storica siciliana ed è membro del comitato scientifico del Museo delle Spartenze di Villafrati (Palermo). Attualmente vive e lavora a Milano. Tra le sue pubblicazioni recenti, si segnala: Il rito delle variceddi a Palermo fra attualità e memoria, in Sieglinde Borvitz (cur.), Metabolismo e spazio simbolico: paradigmi mediali della Sicilia contemporanea, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2018.
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