Mu’ammar Gheddafi a terra, esanime, ricoperto di sangue, con una pallottola in fronte. Attorno, mani che reggono microfoni e telefoni cellulari pronti a immortalare il momento, e un ragazzo, sulla ventina, in posa con il volto sorridente. È una delle immagini diffuse poche ore dopo la morte del grande dittatore della Libia, il 20 ottobre del 2011. Una data che sancisce una duplice fine: quella, fisica, di un uomo, ma anche quella, storica, di un’era lunga ben 41 anni, inaugurata dall’ascesa del colonnello di origini beduine ai massimi poteri e terminata con la sua atroce sconfitta.
A distanza di quattro anni da quella data, lo scrittore algerino Yasmina Khadra – pseudonimo di Mohammed Moulessehoul – si cimenta in un’operazione delicatissima: ricostruire i pensieri di Mu’ammar Gheddafi nell’ultima fase della sua vita, quella, appunto, che ne precede l’uccisione. L’ultima notte del Rais, uscito per Sellerio, è il lungo monologo interiore del dittatore che, in prima persona, narra il tormento delle ore estreme della sua parabola esistenziale. Un ritratto romanzato che attinge sia a dati storici ufficiali che ad aneddoti e stravaganti leggende, mettendo in evidenza luci e ombre del controverso personaggio storico.
Il libro inizia nel proustiano tempo ritrovato dell’infanzia di Gheddafi, nella dimensione de il me souvient: il ricordo di una passeggiata nel deserto brullo e silenzioso in un tempo in cui la luna personale del futuro dittatore della Libia era ancora «mai scalfita, mai oscurata» e il silenzio del Fezzan cullava l’anima e riconciliava col mondo. Un brusco passaggio temporale catapulta il lettore nell’hic et nunc di un presente che ha perso tutti i connotati idilliaci di quello scenario infantile: siamo al buio di una stanza dalle finestre oscurate, illuminata soltanto dalla tremula luce delle candele, con le guardie che temono che la fine sia vicina e le mitraglie che scandiscono il silenzio che, se un tempo cullava l’anima, ora ha soltanto qualcosa di minacciosamente apocalittico. Un’indicazione spazio-temporale avverte: Sirte, Distretto 2, Notte tra il 19 e il 20 ottobre 2011. Sono le ultime ore di un condannato a morte.
Il luogo in cui si nasconde Gheddafi riflette il destino di fine, di distruzione, che attende il grande dittatore libico: un armadio rovesciato coi vetri in frantumi, cassetti rotti, il ritratto di un padre di famiglia crivellato di proiettili. Uno scenario presago di morte e rovina che ritrae il caos di un Paese attanagliato da mesi di guerra civile. Il carattere del dittatore della Libia è immediatamente iscritto nel segno di un narcisismo iperbolico che confina con la mitomania: «Uscirò dal caos più forte che mai, come la fenice che rinasce dalle sue ceneri. La mia voce avrà una gittata maggiore dei missili balistici; farò tacere le tempeste tamburellando col dito sul leggio del mio pulpito. Sono Muammar Gheddafi, il mito fatto uomo».
Personaggio tragico, figura universale del Dittatore, il Gheddafi di Khadra sembra macchiarsi di una delle colpe ricorrenti dei sovrani della tragedia classica: la hybris, termine che viene tradotto – pur riducendone enormemente la portata semantica – con il concetto di “tracotanza”, di insubordinazione nei confronti del limite fissato dagli dei per gli esseri umani. Come Agamennone che rapisce Crise contravvenendo al volere di Apollo, come Prometeo che ruba il fuoco agli dèi sfidando la soglia concessa all’uomo, Gheddafi è reo di una superbia che verrà punita con la morte. Violenta, brutale, efferata.
C’è in Gheddafi – elemento, questo, sicuramente storico e accertato da numerose esternazioni pubbliche del dittatore – una sorta di negazione della realtà della rivolta, a partire dall’insistenza sull’amore del popolo libico nei suoi confronti fino all’affermazione che i ribelli agissero sotto l’influenza di allucinogeni sciolti nel Nescafé. Parla sempre in prima persona singolare, e, soprattutto, reitera in maniera quasi ossessiva il pronome possessivo: «Tutta la mia gente mi ama. È dalla mia parte. Il mio popolo mi ama». E ancora: «Io ho creato la Libia e io posso distruggerla», al pari di un vero e proprio deus ex machina. Onniponente e infallibile. Il mito dell’infallibilità si scontra però con le circostanze reali: Gheddafi è sostanzialmente solo, circondato dagli ex fedelissimi che cominciano a mettere in dubbio ogni sua parola, ad allontanarlo, a meditare il tradimento o a compierlo, come nel caso del generale Yunis, il suo “fedele più fedele”. La compattezza della squadra di servitori ligi alla causa si scalfisce in modo sempre più irreversibile.
In un recente studio dal titolo Narcissism and Politics: Dreams of Glory, Jerrold M. Post sostiene che «il narcisismo sia un elemento particolarmente valido per comprendere la figura dei moderni dittatori. Per esempio, in superficie hanno un concetto di sé realmente esaltato, e sono estremamente sensibili alla minima affermazione del contrario, per cui possono davvero inferocirsi se qualcuno li mette in dubbio. In secondo luogo, quando qualcosa manda in frantumi quell’immagine, può aversi quello che si definisce un raptus di rabbia narcisista». È quello che accade in alcuni passaggi del romanzo, quando ad esempio Mansour Dhao, braccio destro di Gheddafi, “osa” controbattere il Rais, mettendolo di fronte alla realtà della rivolta: «I massacri e il vandalismo lì fuori non sono frutto di stregonerie, ma dei nostri errori». Il termine errore è un termine intollerabile per il dittatore, poiché viene a intaccare il mito dell’infallibilità che si è costruito nel corso degli anni: «È come se di colpo non riconoscessi più il luogo in cui mi trovo – commenta – né quello da cui vengo. Sono fuori di me, fuori campo, offeso, profanato, crocifisso su una pira ardente. Senza accorgermene, mi drizzo davanti al comandante della mia Guardia, sfoderando gli artigli, pronto a ridurlo in pezzi. Uno spaventoso furore mi toglie il respiro: soffoco».
Yasmina Khadra descrive la mitomania da cui è affetto il grande dittatore nei termini di una vera e propria psicopatologia. Di un disturbo psichico che affonda le sue radici nell’infanzia tormentata di Gheddafi. Quando, tacciato per pazzo («tu sei posseduto da Shaytan», gli ripeteva singhiozzando la madre), costretto a vivere in ristrettezze economiche e a fare i conti con la propria condizione di “bastardo”, nato da padre ignoto [1], coltiva un senso del riscatto che lo porterà prima all’apice del successo, al pari di una divinità, poi a toccare il fondo buio della rovina. L’infanzia torna prepotentemente in una serie di flash back che scandiscono il flusso mentale del Rais nelle ultime ore prima della morte: il ricordo della miseria, di un tempo in cui era stato un «bambino vestito di stracci», del Fezzan (regione della Libia nel cuore del deserto del Sahara dove abitava il clan di beduini di cui era originario), squallido e respingente come «un modello in scala ridotta dell’inferno». È interessante notare come, storicamente, la figura del dittatore non nasca mai da una famiglia di “alti natali”. Solitamente, la sua, è una famiglia di umili condizioni, se non al limite di una vera e propria indigenza: Mussolini nasce da un fabbro, Hitler da un modesto impiegato delle dogane, Stalin da un contadino.
Il senso del riscatto sociale caratterizza la smania di onnipotenza di Mu’ammar Gheddafi fin dalle prime pagine del libro, ed è una smania che ha spesso anche risvolti vendicativi. Episodio emblematico è il racconto del suo primo amore: chiesta la mano dell’amata al padre di lei, gli viene rifiutata proprio perché di classe sociale inferiore. Una volta salito al potere, l’epilogo non può che coincidere con la più atroce delle vendette: «Nel 1972, tre anni dopo essermi insediato alla testa del paese, ho cercato Faten (ndr: la donna di cui aveva chiesto la mano anni prima). Si era sposata con un uomo d’affari ed era madre di due figli. Le mie guardie me la portarono una mattina. In lacrime. La tenni sequestrata per tre settimane, abusando di lei a mio piacimento. Il marito fu arrestato per un presunto traffico illecito di capitali. Quanto al padre, una sera uscì per fare una passeggiata e non tornò mai più a casa».
Quello di Khadra è il ritratto di un uomo con forti turbe psichiche, di un individuo borderline, come già era stato tratteggiato da Jerrold M. Post in un saggio pubblicato sulla rivista “Foreign Policy”[2]. D’altro canto, c’è un altro tratto della personalità del Rais assimilabile alle figure dei dittatori della contemporaneità. Colui che, a differenza del sovrano, non può vantare alcuna legittimità del proprio potere, la cerca pervicacemente costruendo l’idea dell’indispensabilità della propria figura per il paese di cui è a capo. Il “Grande Individuo”– secondo la definizione di Neumann – è colui che utilizza l’insicurezza identitaria, individuale e collettiva, per autolegittimarsi. Gheddafi non fa altro che ripetere di essere indispensabile alla Libia: «Senza di me, la Libia si ridurrebbe a uno sfacelo senza nome e senza futuro. Questa santa terra sarebbe votata alla disgrazia e alla vergogna, i cimiteri riverserebbero i loro fantasmi sui nostri giorni e sulle nostre notti, i superstiti si trasformerebbero in zombie e le steli in patiboli!». Parole che risultano ai nostri occhi, agli occhi di chi assiste al tragico scenario della Libia post Gheddafi, senza dubbio profetiche.
Eppure, il mito dell’indispensabilità ha la stessa precaria consistenza di quello dell’infallibilità: basta poco a scalfirlo. Nei brevi momenti di lucidità, che si alternano all’esaltazione mitomane, Gheddafi viene assalito dallo sconforto, dal dubbio («Che ne sarà di me?»; «Il mondo ricorderà il mio nome?») e, soprattutto, riconosce il vero volto del potere, un volto contraddittorio, ambiguo, che espone costantemente al rischio chi lo detiene: «È il tributo che si paga alla sovranità assoluta, soprattutto quella usurpata nel sangue (…). Non esiste stress peggiore di quello che patisce un sovrano – uno stress esacerbato, ossessivo, permanente, molto simile a quello di certi animali assetati che davanti a una distesa d’acqua non possono fare a meno di guardarsi intorno dieci volte, con l’orecchio teso, annusando l’aria alla ricerca di un eventuale gas mortale».
«Il potere logora chi non ce l’ha» – diceva Giulio Andreotti. Ma è vero anche il contrario: «Il potere logora chi ce l’ha». Le ultime immagini del dittatore lo ritraggono già cadavere, deturpato dal sangue e dalle ferite di arma da fuoco, con un foro di pallottola in fronte, circondato dai suoi connazionali che esultano alla sua morte. Probabilmente – nonostante le versioni riportate siano discordanti – le ultime parole del combattente e indomito Rais sono state le più scontate, le più umane: «Non sparate».
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Note
[1] Nonostante questo episodio attinga da un elemento leggendario della vita di Gheddafi, mai confermato da fonti storiche accertate: https://www.bakchich.info/société/2008/09/22/chut-des-journalistes-osent-enqueter-en-corse-53686http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=37281&sez=HOME&npl=N&desc_sez :
«Le storie sulla vita del colonnello iniziano addirittura prima della sua nascita. La prima, riciclata in questi giorni, vorrebbe che il futuro raìs sia figlio di un eroe di guerra francese, il colonnello corso Albert Preziosi. Preziosi, aviatore della France Libre, fu abbattuto in Libia nel 1941. Salvatosi con il paracadute in pieno deserto, sarebbe certamente morto se non fosse stato salvato da una tribù beduina appartenente ai Senussi, la confraternita religiosa da cui uscirà il primo e unico re di Libia, Idris. Mentre veniva curato in una tenda sarebbe scoccata una travolgente passione con una giovane e ovviamente bellissima beduina, da cui, nel 1942 (anno di nascita di Gheddafi) sarebbe nato un figlio, appunto Muammar. Preziosi, tornato in Inghilterra, sarebbe poi morto nel 1943 durante una missione di appoggio ai sovietici. A conferma della tesi è una indubbia somiglianza tra il pilota francese e il giovane Gheddafi. A smentirla bastano poche note: primo, Gheddafi non è nato nella tribù dei Senussi, ma nella Qaddhafa, non nel deserto ma a Sirte. Difficilmente poi una beduina avrebbe potuto amoreggiare con un uomo non della sua tribù, per di più infedele. E se lo avesse fatto sarebbe stata messa al bando e mai si sarebbe potuta sposare con un altro».
[2] http://foreignpolicy.com/2011/03/15/qaddafi-under-siege-2/
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Marta Gentilucci, giovane laureata in Italianistica presso l’Università degli Studi di Bologna, ha collaborato con la Cineteca di Bologna e si occupa di giornalismo ed editoria. Tra i suoi interessi di ricerca, lo studio della letteratura delle migrazioni. Ha insegnato nel laboratorio di video-giornalismo presso il Liceo classico F. Scaduto di Bagheria. Ha partecipato a stage e seminari su identità di genere, letteratura post-coloniale e scritture migranti. Ha recentemente coordinato la segreteria organizzativa del Festival delle letterature migranti, tenutosi a Palermo dal 7 all’11 ottobre 2015.
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