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Quando il cotone e la giummara…

castelnuovo

di  Rosario Lentini

Correva l’anno 1852, più precisamente il 12 giugno, quando il giovane Angelo Nicolosi veniva ammesso agli studi nel prestigioso Istituto Agrario Castelnuovo di Palermo. Si trattava del primo mazarese il cui nome ritroviamo nell’albo degli allievi della scuola, con accesso al Convitto come “pensionato” a carico del comune di provenienza (20 onze l’anno). Solo 8 alunni, per disposizioni testamentarie del fondatore, erano quelli “da mantenersi franchi”. Passeranno dieci anni – 7 novembre 1862 – prima che un altro mazarese, Giuseppe Gallo, venga iscritto a frequentare la scuola palermitana.

Pur se le origini dell’Istituto risalivano al testamento del 1822 di Carlo Cottone, principe di Castelnuovo (1756-1829), il Seminario scolastico e il relativo Convitto, sotto la supervisione amministrativa di Ruggiero Settimo, furono inaugurati nel 1847 e affidati alla direzione scientifica del professor Giuseppe Inzenga che, quattro anni dopo, avrebbe diretto gli «Annali di agricoltura siciliana», periodico anch’esso voluto dal fondatore, che si sarebbe imposto nel panorama siciliano delle riviste specializzate.

Nel volgere di poco tempo, l’Istituto, grazie alla cospicua dotazione finanziaria conferita dal principe e al patrimonio immobiliare e fondiario destinato allo scopo – la villa in contrada ai Colli e i terreni annessi che fungevano da campo sperimentale – diventò scuola di riferimento per la formazione di agronomi e di gestori di aziende e di fattorie agricole, in grado di accogliere a pensione fino a un massimo di 32 studenti. Il regolamento della scuola esplicitava l’obiettivo didattico principale: «formare agricoltori intelligenti e pratici, che possano o prestarsi utilmente all’ufficio di buon fattore, o ben coltivare la terra per conto proprio».

È bene ricordare che Carlo Cottone, aristocratico di formazione liberale, arrestato nel 1811 e deportato a Favignana per essere stato il principale oppositore della politica finanziaria borbonica – poi liberato grazie all’intervento del plenipotenziario britannico Lord William Cavendish Bentinck – ebbe un ruolo decisivo, insieme all’abate Paolo Balsamo, nella stesura della Costituzione siciliana del 1812. L’Istituto da lui creato testimoniava della sua visione modernizzatrice dell’agricoltura siciliana, mirante a stimolare l’impiego di maggiori capitali, a promuovere riforme e ad elevare il livello di istruzione di base e agraria dei contadini.

Nell’edificio realizzato dall’architetto Antonino Gentile, al piano superiore, oltre alle aule per la scuola, i locali vennero destinati a museo di agricoltura, sala per le osservazioni meteorologiche, gabinetto dendrologico con una ricca collezione di legni siciliani, biblioteca, erbario, semenzaio, cappella e scuola primaria gratuita, aperta anche ai ragazzi della contrada, nella quale si adottava il metodo di insegnamento Lancasteriano (gli alunni adulti più bravi insegnavano ai più giovani).

Lo studente Nicolosi, quindi, ebbe modo di ritrovarsi in una situazione ottimale per la sua formazione, iscritto direttamente alla terza delle tre classi di studio previste dal Regolamento dell’Istituto: primaria (da 8 a 10 anni), preparatoria (da 10 a 13 anni) e agricola, detta anche “di coltivazione”; a quest’ultima si accedeva all’età di 13 anni e la durata del corso era quinquennale.

Gli insegnamenti teorico-pratici, con l’assistenza di un fattore e dei contadini che operavano stabilmente nel campo sperimentale, riguardavano sia l’agricoltura che la pastorizia e per completezza e vastità erano davvero in grado di offrire un quadro completo e articolato delle diverse questioni agronomiche. Si procedeva inizialmente con lo studio dei terreni, e si proseguiva con gli “ingrassi” (uso dei letami animali, delle sostanze vegetali, delle alghe marine ecc.); gli “ammendamenti” (uso di sabbie, argille, ceneri, fanghi, ecc.); gli strumenti e le macchine agricole; il lavoro (tempi e modi in relazione ai terreni e alle colture); la coltivazione (selezione e uso delle sementi, metodi di seminagione); le piante da foraggio, i cereali, le piante industriali, le piante spontanee e quelle parassite, gli animali nocivi, l’orticoltura, l’arboricoltura (soprattutto ulivo, frassino, pistacchio, gelso e carrubbo), l’arbusticoltura (vigna, sommacco, ficodindia, avellana, ecc.), il giardinaggio e numerosi altri temi essenziali, incluse lezioni di ampelografia: “Delle diverse varietà delle viti considerate sul rapporto del prodotto nelle diverse località”.

Nicolosi ebbe due compagni di corso molto speciali: il siracusano Ferdinando Alfonso, futuro docente di agraria, nonché direttore dell’Istituto Castelnuovo dopo Giuseppe Inzenga e l’alcamese Girolamo Caruso che dal 1871 al 1917 avrebbe insegnato agronomia, agricoltura ed economia rurale all’Università di Pisa.

Nel 1858, quindi, completato con successo il percorso di studi teorico-pratici, fece rientro a “Mazzara”, trovando immediatamente lavoro come “fattore” presso l’azienda agraria di Vito Favara Verderame (per la prima volta sindaco della città in quello stesso anno) e cominciando a svolgere, contemporaneamente, un’apprezzabile attività di studio e di redazione di articoli e saggi brevi su temi di agricoltura, come corrispondente mazarese degli «Annali». Con comprensibile soddisfazione, lo stesso Giuseppe Inzenga segnalava, nel 1863, le pubblicazioni scientifiche dei suoi ex allievi ed, in particolare, riguardo al Nicolosi, richiamava la Coltura del cotone in Mazzara, scritto per un periodico torinese e Notizie sul cotone e suo tornaconto in Mazzara, pubblicato nel citato periodico dell’Istituto.

Il tema della coltivazione del cotone era tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni, per effetto dell’innalzamento dei prezzi di quello americano – largamente importato in Italia – a causa della guerra civile tra secessionisti e unionisti d’oltreoceano (1861-1865). Le poche filande attive in Sicilia – tra le quali quella di Vincenzo Florio, impiantata a Marsala, all’interno della sua fattoria enologica – potevano trovare vantaggioso approvvigionarsi del prodotto indigeno, pur se meno pregiato di quello della Virginia. Gli articoli di Nicolosi sull’argomento erano frutto di esperienza diretta, come da lui stesso precisato: «[…] fatti raccolti da una costante osservazione di più anni, e da esperimenti su larga scala praticati: e già posso mostrare a chiunque, in prova del mio asserto, un campo suburbano, proprio di questo benemerito Favara Verderame, coltivato a cotone con un metodo razionale da me adottato, e che s’informa ai principii esposti in questo lavoro, carico a strabocco di capsule in via di maturazione, in contrapposto di altri cotonieri adiacenti ancora appena in sull’allegare».

Negli anni successivi inviò altre brevi corrispondenze alla redazione palermitana degli «Annali»: su un aratro costruito dal fabbro mazarese Michele Lo Presti, identico ad un modello scozzese; sulla coltura delle cucurbitacee a secco e sull’impiego delle vacche nei lavori ordinari di campagna. Ma è soprattutto nel saggio sulla Chamaerops humilis, meglio nota come Palma nana (dial. Giummara), che Nicolosi forniva una rappresentazione fedele delle attività collegate alla lavorazione delle foglie di questa pianta mediterranea: «Essa copre immense lande della nostra zona marittima, e talvolta associata all’Arundo ampelodesmos Cyr o ddisa, veste le aride pianure dell’isola per tratti vastissimi. Le sue foglie, sempre verdi e d’un color cupo, fanno un bel contrasto nella calda stagione, coprendo il suolo d’una folta verdura, con la generale aridità dei terreni argillosi, che restano nudi e secchi dopo il taglio delle piante cereali». A prima vista – osservava Nicolosi – sembrerebbe una pianta tanto spontanea quanto inutile e persino di ostacolo ad altre colture, ma nei terreni aridissimi «è una fortuna il possederla, sia come argine al tracimare dei torrenti, […] sia come combustibile per le fornaci di calce e le stufe inservienti alla industria ceramica, come altresì per pascolo del bestiame bovino, il quale non disdegna di nutrirsene nei mesi estivi». Durante l’estate i contadini staccavano con le mani le foglie giovani dal centro del fusto della palma, mentre con una apposita ronchetta tagliavano le foglie esterne più verdi e più vecchie; tutte venivano stese al sole e girate e rigirate ogni due tre giorni per farle seccare; «Bene asciutte, le legano in fascetti di 100 per uno assortite, e queste in più grossi mazzi da 1000; in tal modo si trasportano nei magazzini al coperto». Le lacinie delle foglie si attorcigliavano in corde di varia grossezza e lunghezza e se ne faceva molteplice uso sia domestico che agrario; si utilizzavano, per esempio, per legare le canne nei tetti delle abitazioni, come pure i vitigni e i pergolati ai tutori; con le corde più grosse si legavano i buoi, i muli e gli aratri; sostituivano in tutto e per tutto le funi di canapa. Con le foglie più resistenti si fabbricavano le scope (granate); «In Mazzara principalmente, ove l’industria in parola dà lavoro e pane a migliaia di individui, si fa esteso commercio sì delle granate che di talune corbe di varia dimensione, preferibili alle ceste di vimini, o di schegge di legno, per tante ragioni. Le corbe e gli altri oggetti di costruzione identica si fanno con la treccia intessuta con le lacinie delle foglie, o zinnitte. Questo lavoro viene eseguito dalle donne, che si mostrano veramente sollecite in simile arte e sanno ricavarne molti lucri». Nicolosi ci ricorda anche altri manufatti dalla lavorazione di questa fibra vegetale: le grandi ceste denominate zimmili, da porre sugli animali da soma, utilizzate per caricarvi paglia, fimo, cereali e mercanzie di ogni genere; i cappelli fatti con la treccia più tenera e bianca «buonissimi per la gente di campagna, la quale usandone in està si difende dagli ardenti raggi solari».

Ma d’estate si svolgeva anche una seconda importante operazione, specialmente nei terreni destinati alla cerealicoltura, cioè la debbiatura, previo incenerimento dell’intera palma nana che a colpi di zappa veniva sradicata e tagliata; poi, insieme ad altre piante spontanee e selvatiche, tutto il fogliame, i fusti e le frasche venivano ammonticchiati, ricoperti di terra e bruciati a lentissima combustione, fino al completo incenerimento. «Quando si vedrà essere terminato l’abbruciamento dei cumuli, si lasciano senza ulteriore lavoro fino all’epoca della seminagione; allora con le corbe e con le zappe si spande ugualmente su tutta la superficie del terreno la cenere e la terra carbonizzata, arando e riarando per la successiva semina del grano, il quale nei terreni così addebbiati viene sempre d’una bontà meravigliosa. Questo è ciò che chiamano i nostri pratici fare il terreno a munziddati».

La coltivazione e lavorazione del cotone, del lino, della canapa, della palma nana, nonché l’orticoltura, erano tasselli importanti del mosaico agricolo mazarese che si affiancavano alla cerealicoltura, alla viticoltura e all’olivicoltura, con significativi risultati reddituali.

Rileggendo gli articoli di Angelo Nicolosi, si accede immediatamente alla realtà economica del mondo contadino mazarese, che fino alla prima guerra mondiale si mantenne vitale e produttivo, non ancora surclassato dal settore della marineria. Le tracce bibliografiche di Nicolosi si perdono dagli anni ’70 dell’800, ma, come spesso accade, ulteriori ricerche (anche anagrafiche) potrebbero riservare altre sorprese sulle sue ulteriori attività.

Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013
Riferimenti bibliografici

G. INZENGA, Descrizione dello Istituto agrario Castelnuovo, Tip. Della Forbice, Palermo 1863.

A. NICOLOSI, Alcune osservazioni sulla cultura del cotone in quel di Mazzara, «Annali di agricoltura siciliana», anno XI-1865, pp. 195-217.

IDEM, Sull’utilità della Chamerops humilis L. in Sicilia, «Atti della Società di acclimazione e di agricoltura in Sicilia», tomo VIII-1868, pp. 370-376.

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