Storia di un insetto, del parassita fillosserico, trasmigrato in Europa dai vitigni americani, o storia degli uomini, che dalla “invasione” di quell’insetto hanno subìto le conseguenze di un immane disastro economico? Il libro di Rosario Lentini (Storia della fillossera nella Sicilia dell’800, Torri del Vento edizioni, Palermo, 2015), costruito sulle basi di una vasta documentazione archivistica e bibliografica, è in realtà un capitolo, poco conosciuto, di storia rurale e, di riflesso, storia dei ceti sociali che dalla produttività a “medio reddito” delle colture viticole traevano risorse finanziarie, incentivi per l’industria enologica, oltre che salari e guadagni. Dai braccianti ai borgesi, agli affittuari ventennalisti del marsalese. Storia rurale, quindi, e storia sociale; ma anche ecostoria, cioè studio dell’ambiente nella variabile relazione con l’uomo. Un aspetto “strutturale”, assai complesso, della vita delle campagne, che i nostri studiosi, biografando “eroi” e comprimari di controverse “degnità”, nell’alveo ideologico della storia “ineffabile” di cui diceva Sciascia, hanno ignorato, o respinto nelle secche “accademiche” delle discipline “ausiliarie”.
C’è, persino, nel libro di Lentini, un indizio stimolante del fenomeno della “globalità”, che oggi ha ben delineato i suoi referenti economici e finanziari. Nello sforzo di affrontare l’epidemia fillosserica, si riconosceva già da parte degli intellettuali europei, politici e tecnici, l’esigenza di una comunicazione scientifica internazionale, un comune interesse economico da sostenere. Un “gioco”, rovesciato, degli “scambi” di braudeliana memoria, entro spazi geo-economici diversi, per la difesa e la sicurezza dell’agricoltura e dei traffici. Il vino, del resto, rientrava nei trattati internazionali di commercio, come una merce di scambio (con l’industria, per esempio); e la “guerra delle tariffe”, da Crispi a Giolitti, costituiva il fulcro della compenetrazione tra gli interessi della politica interna e quelli della politica estera.
Peraltro, nei “ritmi della vita materiale”, Braudel individuava le discontinuità temporali tra crisi e “rinascite” proprie delle fluttuazioni del capitalismo. La vicenda, la “storia”, dell’invasione “silenziosa” della Phylloxera vastatrix, ne è un esempio, con la ricostituzione dei vigneti dopo l’innesto di viti europee su quelle americane “resistenti”, e il “rilancio” dell’economia viticola ed enologica nel Novecento. “Uno spettro si aggira per l’Europa”. Ma non era il comunismo, che annunziava Carlo Marx nel suo Manifesto. Era un àfide insidioso, piccolo e brutto, come lo aveva osservato al microscopio un agronomo di Patti:
«Un insetto lungo mezzo millimetro, di forma tra l’ovale e l’ellittica, di color giallo di cera, che varia insino al verdognolo a seconda dello stato e della stagione; ha sei zampe e sul davanti due corna, delle antenne. Il suo corpo è diviso da solchi trasversali, in segmenti, e la schiena talvolta è liscia, tal altra coperta da 72 tubercoli disposti in righe trasversali e parallele. Di sotto alla testa, la bocca che è a forma di uno stiletto chiuso come in un fodero; di tessitura complicatissima, si serve per pungere la vite e poi fissandovisi ne aspira l’umore. Degli occhi ne ha sette; quattro composti e tre semplici che si vedono appena»
Un mostro, dunque, con sei zampe e sette occhi. Una descrizione fisionomica, scientificamente perspicua, ma che sembra uscita da una pittura secentesca dell’orrido. Il manifesto che il Ministero dell’Interno aveva inviato, nel maggio 1878, alle Prefetture per informarle sui caratteri biologici della fillossera, e sulle precauzioni da adottare, allertava autorità periferiche e popolazione agricola sul “rischio emergente”, segno che si era ben compreso l’alto livello d’infestazione dell’insetto. Dopo il primo caso di Ph. scoperto in Italia, lo stesso Ministero istituiva, l’anno dopo, una Commissione consultiva per lo studio del fenomeno, e soprattutto per provvedere, con mezzi adeguati, alla difesa dei vitigni.
Da qui, inizia la cronistoria della “invasione silenziosa”, che Lentini ricostruisce nelle sue alterne fasi, dal Nord al Sud d’Italia e alla Sicilia, e in Sicilia, da Riesi al Trapanese, che è l’ultima zona, ad alta concentrazione viticola, – nel quinquennio 1891-94, una estensione di 62.373 ettari, pari al 23,28% della superficie agraria e forestale della Sicilia – ad essere infestata.
La folta rassegna delle opinioni espresse sulle “strategie di contrasto” alla Ph. da tecnici e botanici siciliani, più o meno avveduti e preparati, non è solo una galleria di ritratti, e un rapporto “cumulativo” delle esperienze compiute, ma un vero e proprio spaccato della società d’intellettuali, che per la prima volta si confrontavano su un problema concreto, e drammatico, della realtà dell’Isola. Non va trascurato, per questo, il fatto che l’impatto, pur difficile e controverso, con l’Italia unita aveva creato nella cultura siciliana un nuovo fronte d’interessi pratici, attraverso una fitta rete di istituzioni economiche e solidaristiche. La “Sicilia sequestrata” di gentiliana memoria cercava, ora, la propria saldatura politica ed economica con una realtà finalmente scevra da utopie sicilianiste e accademiche perorazioni.
Il Congresso antifillosserico, convocato a Palermo nel maggio 1888, apriva la via più percorribile per la ricostituzione dei vigneti, quella del reimpianto su ceppo americano, abbandonando così «l’inutile sistema della distruzione», e gl’impervi tentativi di usare «moderni ritrovati della chimica». Soluzioni di tipo agronomico che, pur incontrando ancora per qualche anno resistenze e opposizioni, riuscirono vincenti per il sostegno di un Consorzio antifillosserico, cui fu affidato il compito di coordinare e gestire l’azione intrapresa dai viticultori siciliani per la ricostituzione dei vigneti.
Fin qui la “storia” della Fillossera, e dei suoi connotati biologici, insieme col dibattito tecnico e scientifico che segnò, per un ventennio, nel merito specifico dell’agronomia, il livello raggiunto dalla ricerca scientifica. Gli effetti disastrosi della diffusione fillosserica, rivelatisi subito in termini di “globalità”, non potevano che estendersi ai settori dell’industria enologica e del commercio; mentre il lavoro nel vigneto, che si reggeva sul variegato sistema dei contratti “a miglioría”, ne uscì sconvolto. Le spinte migratorie di quegli anni contavano, nei loro indici di mobilità, soprattutto quei ceti rurali, piccoli e medi, che avevano sperato di raggiungere un grado di benessere meno aleatorio di quello consentito al semplice bracciante. Dalla Sicilia, i flussi di emigrazione, segnalati dall’Annuario Statistico, seppure ancora lontani dal grande esodo del Novecento prebellico, erano già in crescita dagli anni ’90; né poi il successivo reimpianto dei vigneti potrà fermare l’emigrazione siciliana, poiché alla crisi agraria si sommeranno gli effetti della coeva crisi zolfifera e di quella dell’industria, che sui settori dell’enologia, del tessile e dello zolfo aveva saldato la propria imprenditoria. Pur colpendo più tardi che in altre parti d’Italia, la fillossera aveva distrutto, nel ’95, in Sicilia 96.240 ettari di vigneto, con una perdita di tre/quarti delle giornate di lavoro. Nel 1904, risulteranno ancora distrutti 230 mila ettari di vigneto, con la riconversione di gran parte di essi alle colture granifere.
Il processo di reimpianto sarebbe stato, perciò, assai lungo e costoso. E i ritardi della “politica” in agricoltura, congiunti alle scelte derivanti dall’accentuato divario Nord/Sud, aggraveranno le condizioni di vita dei ceti rurali. E, tuttavia, la politica governativa non fu seriamente contrastata, per questo aspetto, da una estrema Sinistra ferma alle sue devozioni risorgimentali, ispirate al concetto dello Stato laico e alla promozione delle riforme civili. Mentre il Partito Socialista considerava con diffidenza la proprietà rurale, anche piccola e media, prevedendone addirittura la fine nell’auspicata collettivizzazione delle campagne, come fu deliberato nel Congresso di Bologna del ’97. Per i socialisti, il problema agrario era solo quello del “latifondo”, e dei suoi grandi proprietari, come elemento organico del “blocco agrario”.
Del resto, lo stesso atteggiamento di Turati e del Partito Socialista di fronte ai Fasci Siciliani del ’93-’94, al di là della scontata “solidarietà di classe”, e della opposizione ai decreti repressivi di Crispi, mostrò l’inadeguatezza (o l’assenza) di una strategia di lotte e di riforme a sostegno dei ceti medi delle campagne e delle città, che furono i veri protagonisti del movimento di massa di quegli anni. Politica doganale e protezionismo del grano non agevoleranno certo il rilancio di una economia “a medio reddito”, come quella del vigneto, che affidava ai piccoli proprietari e ai coloni miglioratari le concrete possibilità del rilancio produttivo del settore.
Scrivendo di “un’altra storia”, delle vicende successive al reimpianto dei vigneti, Lentini accenna al programma del Consorzio agrario siciliano, costituito nel 1899 da Ignazio Florio. Programma di rinnovamento agricolo-industriale che includeva la ricostituzione dei vigneti filosserati. Ma, scrive Lentini, le sorti dell’economia vitivinicola erano legate a vari fattori, commerciali e congiunturali, «alla mutevolezza della politica fiscale dei governi nazionali e alla frequenza e intensità delle malattie che colpivano stagionalmente la vite». La rinascita del settore, oltre all’azione del variegato mondo rurale, si poté realizzare, comunque, con la costituzione dei Consorzi antifillosserici, e quindi al rinnovato impegno tecnico-agronomico, a sostegno dei coltivatori, di una cultura pragmatica che si era confrontata, ancora una volta, con la Sicilia reale dei campi e dei contadini.
La “storia” della fillossera ricostruita da Lentini, insieme al dibattito che accompagnò in sede politica e scientifica i vari tentativi per bloccare la diffusione dell’insetto, risulta, dunque, per il lettore più attento, una stimolante occasione per rimeditare problematiche che, per il circuito degli interessi fondanti della “questione” siciliana e meridionale, hanno ancora bisogno di una rimeditazione in termini non ideologici, ma strutturali. Senza dire, poi, che lavori come questo di Rosario Lentini hanno il doppio pregio, di ricostruire con estrema e probante precisione un aspetto pressoché ignorato della storia rurale dell’Isola, ma anche di inserire, seppure di scorcio, elementi utili al dibattito, finora assai marginale, sul ruolo dei ceti medi, urbani e rurali, nella storia contemporanea della Sicilia.
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
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Salvatore Costanza, già docente di storia e di ecostoria negli istituti superiori e universitari, ha svolto attività di ricerca presso l’Istituto G.G. Feltrinelli di Milano, collaborando con la rivista “Movimento Operaio”. Ha dedicato alla Sicilia moderna e contemporanea il suo maggiore impegno di studioso con i libri sulla marginalità sociale (La Patria armata, 1989), sul Risorgimento (La libertà e la roba, 1998), sui Fasci siciliani e il movimento contadino (L’utopia militante, 1996). Ha ricostruito la storia urbanistica, sociale e culturale di Trapani in Tra Sicilia e Africa. Storia di una città mediterranea (2005). Nel 2000 ha ricevuto il Premio per la Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Di recente ha pubblicato un profilo attento e inedito di Giovanni Gentile negli anni giovanili.
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