Questa è la zita! è un modo di dire assai diffuso su tutto il territorio regionale siciliano, un intercalare ancor oggi spesso articolato, soprattutto da parte di quelle generazioni per le quali l’utilizzo del dialetto rappresenta una modalità primaria di comunicazione orale. Questa è la zita! non costituisce soltanto una banale sintesi di quell’ancestrale fatalismo che spesso riassume la cifra fondante con cui si esprime l’approccio esistenziale tipico delle culture popolari del Meridione d’Italia: questa locuzione rappresenta una vera e propria “documentazione d’archivio” di una prassi culturale che per secoli ha trovato manifestazione presso tutti i ceti sociali.
Questa è la zita! è un’espressione oggi utilizzata, in tono quasi rassegnato, quando si voglia commentare ad alta voce l’esito sfortunato di una qualsivoglia vicenda e, grossomodo, può essere tradotta come “questa è la sorte che mi [o ti o ci] è toccata”. Tuttavia, essa deriva da quella che un tempo era una diffusissima pratica culturale, fortunatamente oggi estinta o forse talmente residuale nelle nostre culture da essere confinata a episodi così marginali da rimanere ai più sconosciuti. Per tale ragione, quando si afferma: Questa è la zita!, non ci si rende conto che si sta richiamando quell’usanza di combinare i matrimoni che, troppo spesso, portava a unioni infelici e forzate, costringendo tanti uomini a tale affermazione di fronte a una fidanzata non sempre gradita sotto il profilo estetico. In tutto ciò, sia inteso, la ragazza, doppiamente vittima di una società oltremodo maschilista, non poteva nemmeno esprimere la propria disapprovazione, tant’è che non risulta esistere una declinazione al maschile – Questo è lo zito! – per questa stessa perifrasi.
Questa è la zita! è soltanto una delle innumerevoli testimonianze di modalità di pensiero e di azione riassunte abilmente nelle pagine del libro Forse c’era e forse non c’era. Cinque “anti-favole” ispirate ai cunti e al folclore dell’altopiano ibleo, recentemente pubblicato per le Edizioni Le Fate di Ragusa (2020). L’autrice Doroty Armenia propone un percorso contraddistinto dalla presenza di personaggi fantastici impegnati in vicende immaginifiche. Questi personaggi e queste ‘storie’ abitano mondi altrettanto immaginari, sebbene tuttavia chiaramente legati alla realtà dei luoghi di cui la scrittrice è orgogliosamente originaria. Le sue “anti-favole”, come ella stessa le definisce, prendono fieramente forma in contesti ambientali caratterizzati dalla presenza di elementi tipici del paesaggio ibleo, area dell’entroterra siciliano al confine tra le province di Ragusa, Siracusa e Catania.
I racconti di Doroty Armenia, infatti, richiamano alla vista del lettore la presenza dei muri a secco, la cui arte è oggi riconosciuta dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità. E non di rado, gli stessi toponimi hanno una ricercata assonanza con i luoghi cari all’autrice: è il caso della vallata Stafenda, che spesso ospita i personaggi del libro e che rappresenta l’antico nome di quella contrada Strafenna, in territorio di Noto (Sr), presso cui, dopo alcuni anni trascorsi all’estero, Doroty Armenia è tornata a vivere, contribuendo alla gestione di una azienda agroittica specializzata nell’allevamento di trote macrostigma. Classicista e archeologa di formazione, dopo alcuni anni di insegnamento svolti in Italia e all’estero, oggi ha scelto di cambiare vita, dedicandosi tra le altre cose alla cura, all’interno dell’azienda presso cui lavora, di una Putìa letteraria, spazio dedicato ai libri e alla conoscenza del territorio ibleo.
Tornando agli elementi che contraddistinguono l’opera, accanto ai muri a secco caratteristici dell’areale ibleo, rinveniamo diverse altre testimonianze, riferibili al mondo dell’intangibile e specifici della narrativa orale appartenente al popolo della Sicilia sudorientale. In tal senso, scorrendo le pagine del libro ci si imbatte in racconti di truvature, quei tesori incantati per entrare in possesso dei quali occorre rompere un incantesimo, attraverso il compimento di un determinato rituale. Si incontrano anche figure di ciaràuli, persone dotate di particolari poteri e, tra le altre cose, in grado di predire il futuro; ci sono giovani nati con la coda (anatomicamente corrispondente a una concrescenza cutanea all’altezza dell’osso sacro), dunque dotati sin dalla nascita di una fortuna smisurata; ci sono figure di santi e di sante, cui appellarsi in situazioni di particolare scoramento, salvo dimenticarsi di essi non appena superata la condizione di estrema difficoltà, proprio come sovente accade nelle rappresentazioni tipiche della religiosità popolare.
Soprattutto, il lettore potrà fare incontri fantastici, ritrovandosi faccia a faccia con creature malvage o dispettose, come i filinona e i patruna ò luocu, esseri misteriosi – quasi dei fantasmi – proprietari spirituali di un immobile o di un luogo specifico; ma anche con animali fantastici in possesso di inusuali facoltà, a volte incarnazione stessa delle forze del male. Inoltre, a testimonianza della intelligente opera di ricerca dell’autrice, che dimostra una sensibilità antropologica non comune e una spiccata attitudine filologica, ritroviamo indovinelli in dialetto (le nnivinagghie o luminagghie, tipiche delle serate d’inverno trascorse insieme ai nonni, attorno al braciere), la cui risoluzione, nella struttura narrativa del testo diviene indispensabile per la comprensione dei misteri della vita. E poi ci sono altri esseri mostruosi, come draghi e orchi, fughe rocambolesche e oggetti incantati, passaggi segreti e percorsi di salvezza, immagini iperboliche di rabelaisiana memoria, con le quali si offre un’ambientazione fatta di luoghi e personaggi dalle dimensioni spropositate e in grado di compiere gesti inaspettati: come il cavolo gigante divoratore di esseri umani e animali o gli alberi di melograno in grado di spostarsi e di vigilare sulla vita (o sulla morte?) delle donne gravide.
Sin dal titolo, Forse c’era e forse non c’era configura una insanabile e forse irrisolvibile dicotomia che è tipica della cultura popolare, in particolare delle regioni del Mezzogiorno italiano. Qui, storicamente, tutte le certezze vengono meno; qui, non ci si affida a evidenze assolute; qui, non ci sono verità indiscutibili cui aggrapparsi. Tutto può essere messo in discussione, come dimostra una storia locale fatta di detronizzazioni di santi patroni e di rimedi medico-farmacologici intrisi di pratiche superstiziose e magico-religiose. Tutto galleggia in una dimensione di permanente incertezza e di precarietà esistenziale.
Nelle «Indie di quaggiù», per utilizzare una locuzione introdotta negli scorsi anni Cinquanta dall’etnologo Ernesto de Martino per definire il Sud Italia (area geografica individuata come patria elettiva delle proprie ricerche etnografiche), persino le apparenti certezze assolute, che si è abituati a conoscere e a interpretare come tali, possono improvvisamente crollare come castelli di carta. “Giù al Sud”, infatti, persino la letteratura orale è influenzata da tale condizione di irredimibile volubilità esistenziale. Ne consegue che il “C’era una volta” di apertura di tutte le più note favole della tradizione europea, con cui si affermava con assoluta e indiscutibile certezza l’esistenza, in un passato più o meno remoto, di vicende meritevoli di essere narrate, nelle culture popolari del Meridione venga traslato in un imperfetto, e sempre passibile di esser messo in discussione, “Forse c’era e forse non c’era”. Insomma, vengono addirittura meno anche i supposti “dogmi di fede”, laici o religiosi che essi siano.
I cunti di Doroty Armenia contenuti in queste pagine sono, al tempo stesso, sia fiabe che favole. Delle prime, essi possiedono il legame con l’oralità, caratteristico della cosiddetta letteratura popolare. Delle seconde, oltre al non sempre scontato intento moralistico, questi cinque racconti condividono la presenza di figure fantastiche, spesso connesse al mondo animale, così come tutta una serie di allegorie utili, se non addirittura necessarie, alla costruzione della struttura narrativa e al districamento dei nodi costruiti dall’autrice durante il dipanarsi delle pagine.
Leggendo i cinque racconti di cui libro si compone non si può non riconoscere il debito di letture fondamentali che, d’altronde, costituiscono il background di un modello culturale che la letteratura popolare europea ha alimentato negli ultimi quattro secoli. Basti pensare a Lo cunto de li cunti (noto anche come Pentamerone) di Giambattista Basile e alle sue cinquanta fiabe della tradizione dialettale napoletana, edite tra il 1634 e il 1636 (e recentemente trasposte cinematograficamente da Matteo Garrone), che già pochi anni dopo la loro stampa ispirarono Charles Perrault nella pubblicazione della raccolta Histoires ou contes du temps passé avec des Moralités (1697). Un secolo dopo Perrault, fu la volta dei celeberrimi Kinder- und Hausmärchen (1812-1822), noti in Italia come Fiabe del focolare, dei fratelli Jacob L. e Wilhelm K. Grimm.
Nel pieno solco di questa tradizione, nell’ambito della quale i racconti orali delle classi popolari furono portati alla ribalta grazie alle trascrizioni effettuate da filologi o studiosi di letteratura popolare, nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento il medico palermitano Giuseppe Pitrè, appassionato di folklore, diede alle stampe una raccolta di fiabe siciliane in quattro volumi, dal titolo Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani (1875). Un corpus vastissimo, composto da trecento fiabe trascritte in dialetto siciliano, che Pitrè riuscì a mettere insieme grazie a una fitta rete di collaboratori periferici che gli inviarono, mediante corrispondenza epistolare, le testimonianze raccolte in ogni angolo della Sicilia. Ben 40 delle fiabe di Pitrè confluirono, nel 1956, nelle Fiabe italiane pubblicate per Einaudi da Italo Calvino, che in tal modo fece propria la proposta lanciatagli pochi anni prima dall’etnologo siciliano Giuseppe Cocchiara il quale, come collaboratore della casa editrice torinese, aveva pensato a un grande progetto di raccolta di fiabe delle venti regioni italiane.
Forse c’era e forse non c’era non si colloca in modo ortodosso nel solco della maestosa tradizione appena citata. Doroty Armenia, infatti, non si limita alla restituzione fedele di alcuni racconti della tradizione orale di appartenenza ma compie un passo ulteriore, indirizzando la propria opera verso uno sforzo narrativo che prende le mosse da quanto ascoltato da bambina o letto nel corso degli anni. La complessità di tale impianto si traduce in una equilibrata composizione di “anti-favole” che condensano al proprio interno altrettante “storie” originali, visceralmente ancorate alla tradizione popolare siciliana.
Ad attraversare ogni singola pagina del testo, c’è soprattutto l’eterna e irrisolvibile contesa tra la vita e la morte, tra le forze del male cui si contrappongono quelle del bene. Per questa ragione, ciascuno dei cinque racconti è percorso trasversalmente da un denominatore comune: la presenza della morte, che assume sembianze sempre diverse e modalità comportamentali ogni volta imprevedibili. È questa la ragione per cui gli esiti delle avventure appaiono a volte truculenti, in tal senso in perfetta continuità con la summenzionata tradizione europea, che soltanto in epoche recenti ha stravolto i finali delle originarie narrazioni popolari, per edulcorarne i toni. L’esito di ogni storia ha un gusto sempre agrodolce e il lieto fine è ogni volta connesso a una rinuncia, a un grosso sacrificio, in perfetta consonanza con quell’oscillazione in labile equilibrio tra il rimanere in vita e il soccombere, che esplicita, in una sintesi perfetta, quel continuum irto di ostacoli potenzialmente letali, che è il ciclo della vita.
In un siffatto contesto, l’autrice compie anche delle scelte ben precise, finalizzate alla costruzione di un contesto scenico che, man mano che la lettura si dipana, possa risultare familiare agli occhi del lettore. Sfogliando le pagine del libro, reso ancor più gradevole dalla presenza di alcune illustrazioni dell’artista Armenia, sua omonima, l’autrice ci riporta più volte negli stessi luoghi (ad esempio, la già citata valle di Stafenda) e di fronte agli stessi personaggi (la bella Albacara), quasi a voler ricreare un’ambientazione nota.
Preziosa antologia di spunti e singolare cofanetto di letture immaginifiche, il libro contiene infine una poderosa postfazione, curata dalla stessa autrice, dove viene riconfermato lo spessore del lavoro compiuto. Un lavoro, infatti, che non si riduce a romantica esaltazione dei racconti ascoltati dai nonni, ma che piuttosto rappresenta l’esito di un lungo e meditato percorso di ricerca. Tant’è che il saggio posto in chiusura contiene l’enunciazione dei problemi linguistici con cui l’autrice ha avuto modo di confrontarsi; ma contiene anche una lucida e documentata riflessione sul “tradimento” filologico che ciascuna trasposizione scritta di narrazioni orali porta con sé, per quella necessità di formalizzare il testo e di intervenire in prima persona che, in un certo qual senso, porta a una sorta di falsificazione del contributo originale.
Da Giuseppe Pitrè a Umberto Eco, da Jacques Derrida a Walter Benjamin, passando da Italo Calvino, Aurora Milillo, Elsa Guggino e Luigi M. Lombardi Satriani, fino a giungere a Vladimir J. Propp, la lista – trasversale disciplinarmente – dei riferimenti bibliografici citati dall’autrice offre il senso della grande opera di scavo compiuta. Un’opera che, dunque, si propone come un riuscito e intrigante “mostro bicefalo”, in grande equilibrio tra narrativa popolare e ricerca storico-antropologica.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è funzionario presso il MiBACT. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha recentemente pubblicato il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015).
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