di Ornella Ricchiuto
Raccontarsi, nella “modernità liquida”, significa ripensarsi costantemente in quanto i confini dell’essere, del territorio che si abita, della famiglia, dei ruoli sociali e delle professioni sono labili, fragili e in continua ridefinizione. Un approccio di antropologia visuale e autobiografico è dunque indispensabile durante l’intero arco di vita delle persone nei contesti educativi e formativi, in famiglia, nel gruppo dei pari, nelle istituzioni scolastiche ed extra-scolastiche, nei centri di ricerca culturali, nel mondo del lavoro.
Nelle culture orali sono gli anziani che raccontano e trasmettono la memoria di sé e della comunità; con l’avvento della scrittura e dei mezzi di comunicazione di massa, la narrazione diviene ancora più centrale grazie alle varie opportunità per l’individuo di in-scrivere e/o registrare se stesso sia nella macrostoria che nella microstoria.
Pensiamo ad esempio alla diffusione dei social network che rappresentano una sorta di diario democratico digitale mondiale dove ognuno è libero di raccontarsi quotidianamente, anche in modo visuale, mediante fotografie, musiche o video. Ciò che si perde nella dimensione “social” è il contatto vis-à-vis, espressione comunicativa alla base delle società orali, soppiantato dall’odierna tecnica di racconto on line, definita storytelling, che tende ad essere utilizzata soprattutto in campo pubblicitario per la vendita di un determinato prodotto. Chi usa lo storytelling non intende soltanto commercializzare un prodotto, ma conquistare il cuore del consumatore, lasciare in esso un’emozione, conscio del forte potere persuasivo della narrazione. Pertanto nella società contemporanea il narrare continua a essere praticato e a sussistere come un bisogno odierno.
Oggi sarebbe opportuno interrogarsi su come la memoria venga trasmessa in quanto assistiamo a un’approssimazione nella sua ricostruzione; per gli antropologi la ricostruzione della memoria avviene nella ricerca e restituzione delle storie di vita della gente comune. Di seguito si presenta il case study di Salvatora Marzo, originaria di Nardò (città in provincia di Lecce), conosciuta dalla comunità con il nome di Tora o anche Tora Nucera e presso gli studiosi di antropologia per essere stata l’unica componente femminile dell’orchestrina di Nardò che curava gli affetti da tarantismo, guidata dal più noto Luigi Stifani. La pubblicazione Salvatora Marzo. Biografia di una guaritrice, è da intendersi come filo conduttore delle differenti generazioni di donne e uomini intervistati. Le condizioni di vita e i meccanismi di educazione soprattutto delle donne – se pensiamo alle generazioni passate come quelle di Salvatora Marzo – sono molto legati alle storie personali e al quotidiano.
La pubblicazione è il risultato di una ricerca che ha coniugato l’approccio di antropologia visuale a quello biografico e autobiografico. La biografia viene raccolta attraverso l’impianto metodologico interdisciplinare demartiniano intrecciando diversi linguaggi visivi e riflettendo anche su come una storia di vita svolga una funzione educativa e formativa quando dal passato si tenta di capire, organizzare, progettare il presente e pianificare il futuro partendo dal “mondo della vita”. Già de Martino sottolinea come la sua pratica di ricerca si rivolge ad una migliore conoscenza del presente per trasformarlo.
Perché è così importante il raccontarsi o il raccontare una storia di vita? La pratica antropologica e autobiografica è un bisogno universale di comunicare la propria memoria, comprendere la direzione della propria avventura esistenziale e lasciare una traccia oltre il tempo vissuto.
Il lavoro di interconnessione tra la ricerca antropologica e la ricerca-formazione autobiografica nasce dall’incontro tra Ornella Ricchiuto – sociologa e ricercatrice in antropologia culturale – e Giuseppe Ricchiuto – studioso di processi educativi e formativi e ricercatore in autobiografia – che creano un nuovo modus operandi applicabile (e applicato) nel campo culturale, sociale, didattico, educativo, formativo, artistico e più in generale nel campo della vita. Questo modus operandi ha un centro nevralgico in Liquilab, una comunità di studi e ricerche per l’identificazione, la salvaguardia, la diffusione e trasmissione del patrimonio culturale immateriale del sud Salento.
Noi non possiamo più ascoltare direttamente la voce di Salvatora Marzo, per cui il lavoro di recupero di informazioni che la riguardano è avvenuto attraverso le testimonianze di persone che le sono state molto vicine, le quali, inevitabilmente, raccontando di lei, hanno parlato di sé, mettendo mano alle proprie vite, scavando nelle proprie esperienze e nei ricordi. La biografia di Tora si è intrecciata con le autobiografie dei testimoni e non poteva essere diversamente: ne è derivato l’affresco di una realtà sociale e culturale che con altri mezzi non avremmo potuto cogliere nella sua vivezza.
La voce di Salvatora Marzo emerge indirettamente soprattutto dalla voce della figlia Teresa Errico che non solo ricostruisce la memoria, ma cerca di entrare nei processi del presente e del futuro, identificando un legame forte tra memoria e protagonismo sociale. Ora l’autrice, in quanto donna e ricercatrice, nella presente pubblicazione persegue il filone del protagonismo femminile riflettendo sulla memoria di genere, considerando che soprattutto le donne di vecchia generazione erano spesso relegate nella sfera privata e dunque sconosciuti ne erano i loro vissuti.
Per recuperare la storia di vita di Salvatora Marzo, il lavoro di ricerca qualitativa, iniziato nel 2007 e conclusosi nel 2018, si focalizza sulle memorie della figlia Teresa Errico, fortemente legata alla madre sia come modello educativo sia come donna che ha fatto del bene alla comunità di Nardò. Oltre a Teresa, si intervista la figlia Antonietta Errico, e altri testimoni di Nardò, Gregorio Caputo, Paolo Zacchino, Renato Calignano, Biagio Giuseppe Falconieri, Anna Maria Falconieri, Addolorata Gaballo, Antonio Gaballo, Franca Gaballo, Cosima Gaballo, Rosaria Gaballo, Gino Carrino, Maria De Giorgi, Gian Paolo Falconieri.
Tutte le testimonianze permettono di tessere un patchwork dei ricordi recuperando numerosi frammenti di memoria legati a Salvatora Marzo. Il ricordare è il frutto di processi di interazione e comunicazione; infatti, nei diversi incontri in questi dieci anni di ricerca, la compresenza di più testimoni ha contribuito alla scoperta di pezzi di memoria su Salvatora Marzo e sul contesto sociale, culturale ed economico in cui lei è vissuta, la comunità di Nardò del ‘900, una cittadina della memoria fatta di «reticoli invisibili di relazioni, avvenimenti e corsi di azione che trasformano lo spazio fisico della città – i suoi edifici, le mura, le piazze, le strade – in quello sociale dei suoi ricordi, delle esperienze degli attori sociali che vi hanno abitato nel passato o che vi abitano». I ricordi fotografano una personalità forte e generosa, operante in un contesto difficile, segnato da un lungo retaggio di miseria sociale, economica e deprivazione culturale.
È la storia umana di Salvatora Marzo, nata il 17 dicembre 1901 a Nardò e figlia di fruttivendoli; il padre Salvatore Marzo muore mentre lei è ancora nel grembo della madre Antonia Polo (soprannominata mamma ‘Ntonia), che più tardi si risposerà con Giuseppe Di Gesù, (detto tata Peppu). “Zì Tora” o “Tora Nucera” è comunemente chiamata dai suoi concittadini: il primo soprannome esprime la stima, il rispetto e l’affetto nutrito nei suoi confronti, mentre il secondo si lega al cognome Nocera della nonna materna di Salvatora.
All’interno del centro storico di Nardò, “arretu lu furnu”, Salvatora Marzo, la seconda di sette figli, trascorre la sua infanzia con Pissa, Michele (figli di Salvatore Marzo), Elvira, Margherita, Antonio, Angiolina (figli di Giuseppe Di Gesù) in una tipica abitazione del Mezzogiorno composta da due stanze, in cui si dormiva, si cucinava, si accatastava la legna per il camino e si tenevano le botti per conservare il vino. Una volta giunta in fase adolescenziale, incontra Michele Pietro Errico, nato l’11 luglio 1897 a Mesagne (paese in provincia di Brindisi), con cui si sposa il 7 maggio 1922 e trascorre il resto della vita a Nardò in via Santa Lucia; «papà mio, diceva quasi, che lui dentro agli occhi non se la toglieva mia mamma, se ne andava e tornava».
Madre di otto figli (in ordine per nascita Antonietta, Iolanda, Maria Grazia, Olga Carmela, Antonio, Egidio Giuseppe, Teresa Crocefissa e Angela), lavora per un breve periodo a Tursi (provincia di Matera), e in seguito a Gavignano Sabino in provincia di Roma per la lavorazione del tabacco. E ancora fattora e fruttivendola.
Durante il racconto affiorano le tradizioni familiari (la cena della vigilia di Natale composta da ventiquattro pasti o la “palomma” di Pasqua, i sepolcri,…); i costumi del tempo (la madre di Salvatora indossava sempre gli abiti di colore nero dovuto al lutto del primo marito); il sapore del pane fatto in casa o della pignata di carne e patate; il profumo del timo utilizzato sopra alle botti di vino prodotto dalla famiglia; e poi la guerra, l’emigrazione dei figli e delle figlie di Salvatora verso la Francia.
Per circa ottant’anni Salvatora Marzo è punto di riferimento come guaritrice della popolazione neretina, una popolazione isolata e abbandonata in condizioni inumane da uno Stato distante. Nella comunità di Nardò dei primi del ‘900, dalle testimonianze ascoltate, si può dedurre che i rimedi della medicina popolare fossero ritenuti più efficaci rispetto alla medicina ufficiale; si ricorre a degli specialisti che curano attraverso «scongiuri, erbe, rimedi tratti dal corpo umano, dagli animali e altro: pozioni, unguenti, che oggi provocherebbero repulsione e disgusto».
Secondo la figlia Teresa, sua madre impara i rimedi di medicina tradizionale attraverso l’insegnamento della nonna Antonia, che si individua come caposcuola da cui prende il via una trasmissione del sapere che passa a Salvatora e successivamente a Teresa. Si tratta di una genealogia di donne, segno di una tradizione. «Le leggi di questa trasmissione sono ratificate e sancite con speciale cura, dovendo tendere a tramandare un sapere specialistico e sacrale da cui dipende la vita e la morte». Questo sapere orale che si tramanda fa parte di un sistema di discendenza matrilineare, un sapere femminile che contempla la sfera magico-sacrale e quella naturale che si incontrano e si fondono nella ritualità.
Salvatora si spinge in costanti sperimentazioni da sola e lo fa per spirito di solidarietà nei confronti dei bisognosi senza chiedere nulla in cambio. Si intuisce come Salvatora non sia solo un “dottore” dotata di tecniche e conoscenze bensì, dal punto di vista antropologico, è uno stare nel mondo, un relazionarsi al contesto umano e naturale, ponendosi spesso in una mediazione tra naturale e soprannaturale, e tra individuo e malattia. Salvatora, in quanto curatrice, è al centro di una rete di relazioni sociali instaurata dalla gente comune.
Oltre a praticare le terapie coreutico-musicali legate al tarantismo, Salvatora Marzo è una curatrice nell’ambito del parto, in un contesto dove la medicalizzazione e l’ospedalizzazione delle gravide è rara. È anche una aggiustaossa, esperta nel ridurre manualmente slogature e fratture. Inoltre, la figlia Teresa Errico fa riferimento all’utilizzo di erbe e dell’albume, quali rimedi naturali contro le infiammazioni. Così, oltre alle terapie coreutico-musicali e alle cure legate alla nascita e al corpo (levatrice e aggiustaossa), si aggiungono le terapie erboristiche che Tora sperimenta.
I rimedi tradizionali sono piuttosto semplici e di facile esecuzione; per le ferite esterne, le tipologie di preparazione più impiegate sono gli alimenti (per esempio limone e zucchero), le parti vegetali, soprattutto foglie fresche. Rispetto alle piante, Teresa fa riferimento alle “sanapiaghe”, in italiano l’achillea millefoglie, che possiede diverse proprietà curative, tra cui quella di cicatrizzare rapidamente le ferite e le piaghe. E ancora Teresa racconta l’unguento di sua madre contro le infiammazioni e i linfonodi ascellari ingrossati, che si compone di sapone nero, lampascione, pomodoro e olio.
Nell’ambito della medicina popolare, ritroviamo nella storia di vita di Salvatora Marzo dei “relitti” di bassa magia cerimoniale comprensibili solo se contestualizzati «in quella civiltà, in quell’epoca e in quell’ambiente storico, dove la comunità condivide quella mitologia o quella religione, perché è nella condivisione comunitaria di un certo ordine metastorico che la pratica magica, che ad esso fa riferimento, diventa leggibile ed efficace». Nella civiltà contadina della prima metà del ‘900 vige un sistema di medicina e magia popolare in quanto l’esistenza stessa si basa sull’esperienza diretta. «Questa era il possesso da parte di un uomo di un sapere riguardante il significato delle ‘cose della vita’, e il ‘significato’ che essa comprendeva era garantito dalla tradizione stessa della comunità».
L’esperienza qui è da intendersi come un saper fare pratico che si fonda sull’abitudine e quindi su attività ripetute. Attività che hanno dei ritmi antichi e che si trasmettono da una generazione all’altra. Tant’è vero che dalla testimonianza di Teresa Errico, si riscontra come la maggior parte del sapere di Salvatora, ricevuto dalla mamma Antonia, si riversa poi nella figlia. Dalle parole di Teresa sembrerebbe che le credenze popolari siano legate a un “prima”, un passato identificabile nella civiltà contadina fondata sull’irrazionale, ma in realtà ci sono stralci di interviste che ne testimoniano la presenza nella società contemporanea, caratterizzata da processi di razionalizzazione della scienza e della ragione. Si configura l’immagine di uno “schizoidismo culturale” che vede la coesistenza di una mentalità di matrice empirica e scientifica e di una mentalità magica. Tale coesistenza si spiega antropologicamente come sistema di meccanismi di difesa e rassicurazione messo in atto dalle comunità per giustificare i fallimenti e le incertezze della vita quotidiana.
Oggi Salvatora Marzo rimane una figura amata soprattutto dalla figlia Teresa e indissolubilmente legata alla cultura popolare del Salento. Lei ci lascia una preziosa eredità: la solidarietà. Una donna che antepose l’amore per la famiglia e per la gente bisognosa di Nardò all’amor proprio.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Ornella Ricchiuto, Salvatora Marzo. Biografia di una guaritrice, Liquilab, Tricase, 2019.
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Ornella Ricchiuto, sociologa e ricercatrice in Antropologia Culturale. Si occupa di ricerca antropologica finalizzata all’identificazione, salvaguardia e diffusione del patrimonio culturale immateriale nel sud Salento. Collabora con la Cattedra di Antropologia Culturale dell’Università del Salento. È presidente e fondatrice di Liquilab. Tra i suoi lavori: “Oltre il tabacco. Storie di donne a Tricase. Una ricerca antropologica, Liquilab Editore, 2015; CantiCunti. Una ricerca antropologica a Tiggiano nel Salento, Liquilab Editore, 2017; La comunità del Mito. Prime annotazioni per la ricerca, in Palaver, vol. 7, Università del Salento, 2018; Beni intangibili. Ricerche etnografiche nel sud Salento Liquilab Editore, 2018; Salvatora Marzo. Biografia di una guaritrice, Liquilab Editore, 2019.
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