Terrore suicida
Oggi ho sul tavolo due articoli da due riviste di libri e di cose intellettuali, uno è Fanatismo di Hanif Kureishi, apparso su “Robinson”, in Repubblica di domenica 18 dicembre, l’altro è Il loro Dio è la morte, non Allah. Terrore islamico a ritmo di rap, una recensione di Marco Ventura, al libro di Olivier Roy, Le jihad et la mort (in corso di traduzione per Feltrinelli), comparsa su La Lettura, del Corriere della sera lo stesso giorno, ma devo dire che i quotidiani tutti i giorni trattano del tema degli attentatori suicidi, della loro dimensione sociologica, della loro cultura della morte. Sempre sul tavolo, arrivato da più vicino, per mano dell’autore, ho il libro di Fabio Dei, Terrore suicida. Religioni, politica e violenza nelle culture del martirio, appena uscito dall’editore Donzelli nelle ‘Saggine’.
Ho pensato che si faceva meglio a partire da qui per affrontare il tema dell’incontro tra religioni e culture legate ai tre grandi monoteismi. Partire dallo scontro forse aiuta a vedere l’incontro in modo meno illusorio, investendo meno sulla speranza che è facile assecondare per desiderio forse più che per ragionevole riflessione. Anche se è questa ‘ultima dea’ che guida il mio orizzonte.
Kureishi, straordinario scrittore di innesto tra Pakistan paterno e Inghilterra materna vede un futuro molto difficile, drammatico, in cui estremismo islamico e razzismo occidentale si fronteggiano somigliandosi sempre di più: «Ma è il caso di osservare quanto si somigliano tra loro i due fronti. La visione contemporanea dei musulmani è l’immagine speculare dell’ideologia di estrema destra che si sta impadronendo dell’Occidente: sessista, omofobica, isolazionista, monoculturale, battagliera». Solo una nuova generazione a suo avviso può sfuggire a questo tragico destino di conflitto, una generazione basata su una nuova alleanza tra gli scontenti dell’Occidente posti ai suoi margini, e gli immigrati che vengono dai mondi della povertà e della guerra.
Ma il passo intermedio per l’essere arrivati allo stato dell’oggi, per Kureishi, è quello fatto da una seconda generazione di immigrati che poteva essere accolta, ma ha preferito ribellarsi alle umiliazioni che i loro padri subivano, ‘buttando via l’ armamentario pop, la fidanzata bianca e il neoliberismo’, per diventare estremisti devoti. Per questa generazione che sta dentro l’Occidente ma ci sta furiosamente, non c’è ritorno, essa col suo radicalismo favorisce la destra occidentale ed è avviluppata in una logica di guerra che sente come forma ribelle del suo tornare simbolico al mondo di provenienza.
Nella lettura di Marco Ventura, Olivier Roy, filosofo e politologo francese, identifica questa generazione dei ribelli diventati religiosi per una dialettica di radicale negazione dell’Occidente vissuto, in un fenomeno di radicalismo nuovo, per il quale la religione è solo una forma che si assume per essere rivoluzionari, ma a partire da una cultura laica e occidentalizzata, negata ma interiorizzata, in cui la vocazione suicida ricorda anche tutti gli estremismi e arditismi, forse dannunzianesimi, del nostro Novecento o i nichilismi dell’Ottocento .
È difficile per me non ricordare le analisi di Franz Fanon, in questa fenomenologia. La dialettica tra l’io e l’altro, dove la negritudine è però sostituita dal fanatismo religioso. E credo che non ci sia dubbio che il modo d’essere verso l’altro dell’Occidente ricco, chiuso e cinico abbia un grande peso nella estremizzazione delle nuove generazioni di musulmani tra Occidente e Asia. E abbia il peso delle terribili guerre in Afghanistan, in Irak, con la grande quantità di morti civili sempre contata come grave quando sono i nostri, e ritenuta una variabile da errore, quando sono i loro.
Ma il mondo non è più quello di Fanon e degli anni tra i Quaranta e i Sessanta del Novecento. Tutta l’Asia è cambiata, e l’Asia minore lo è particolarmente, c’è il conflitto tra i mondi diversi dell’Islam, e in specie tra sunniti e sciiti, c’è stato Al Quaeda e l’attentato alle Torri gemelle. Il ruolo dell’Islam contemporaneo è inimmaginabile con gli occhi di Fanon, né può stare sotto la ‘figura hegeliana’ delle negritudine che pure era la modalità di ritrovare un universale umano.
È una sfida per la comprensione antropologica e la cosa più sbagliata sarebbe spiegare la natura violenta e aggressiva, crudele e vistosa di una parte importante dell’Islam radicalizzato solo alla luce della natura del potere dell’Occidente, come se esso fosse complementare a questo, e figlio per contrario, per dialettica del neoliberismo. È chiaro che il mondo della guerra santa ingombra il futuro dei miei nipoti con un sentore di sangue che chiede di svegliarci dal sonno dogmatico coltivato a lungo dalla sinistra europea, di quello che cerco di chiamare il ‘complementarismo’: loro sono così perché noi siamo così. Dove loro sono ‘causati’ dal noi, ed è il noi negativo che produce il loro negativo. Sopravvalutazione involontaria dell’Occidente. Queste sono le ragioni della ampia e coraggiosa indagine delle fonti, e delle ragioni del dibattito, che Fabio Dei ha voluto ricostruire per dare all’antropologia una possibilità di comprendere i mondi delle guerre sante, il sangue e la morte del jihad che, nato nelle guerre lunghe e terribili dell’Asia maggiore e minore, hanno contagiato l’Occidente migratorio, facendo del mondo ‘grande e terribile’ dei Quaderni di Gramsci, una sorta di anticipata Apocalissi.
Per capire, avverte Fabio Dei, mentre si appresta a sondare il lungo dibattito internazionale e pluridisciplinare su questi temi, occorre tenersi a distanza da due modelli retorici o ‘narrazioni’ senza vero possibile esito antropologico:
«Da un lato una narrazione che possiamo chiamare identitaria, centrata sull’idea di un Occidente assediato dai barbari e dall’irrazionalismo religioso e volta a invocare un qualche tipo di barricata o di “guerra al terrore” in difesa della civiltà. Dall’altro lato, una posizione di taglio – diciamo – postcoloniale, che ha attribuito ogni responsabilità della violenza alle eredità imperialiste e agli squilibri politico-economici che caratterizzano l’attuale ordine neoliberista del mondo. Cosicché il terrorismo non sarebbe che una sorta di ritorno in forme mostruose del represso – vale a dire dei crimini contro gli “altri” che l’Occidente vorrebbe dimenticare e che si ritorcono invece contro di “noi”. Ora, queste due opposte narrazioni mi sembrano ugualmente insoddisfacenti, simmetricamente ideologiche e scarsamente in grado di comprendere la complessità dei rapporti politici e culturali che i conflitti e le violenze contemporanee sottendono. Nello sforzo di capire meglio alcuni aspetti del terrorismo suicida ho cercato, nelle pagine che seguono, di mantenere un’adeguata distanza critica da queste due opposte scorciatoie» (Dei 2016: XII).
L’analisi di Fabio Dei si addensa in particolare nel passaggio che vede l’egemonia di Hamas in Palestina e il trasformarsi di una opposizione a Israele fatta di gruppi dirigenti laico-militari, in una opposizione di massa radicale e profondamente religiosa. E studia il nascere in quel contesto di un mondo religioso dai vissuti estremistici che può essere oggetto di comprensione (non di giustificazione perché sono quei comportamenti quelli più minacciosi verso le nostre libertà) solo rinunciando al laicismo occidentale, e riconoscendo che:
«Insomma, la religione costituisce un lessico morale di base, che può essere costitutivo dell’identità sociale delle persone. Questo è difficile da capire per noi, poiché ragioniamo nell’ottica di un lungo percorso storico di secolarizzazione, che ci ha abituato a disgiungere radicalmente religione e moralità (eppure quella fusione possiamo riconoscerla in un passato non troppo lontano, e in certi depositi linguistici, come l’uso del termine “cristiano” per indicare gli esseri umani in quanto distinti dai “bruti”). Abbiamo faticosamente costruito una prospettiva umanista che separa da un lato la morale, i diritti, la cittadinanza e la sfera pubblica, la concezione della persona e della sua autonomia, dall’altro il dogma religioso, l’idea di trascendenza, il principio di autorità della Chiesa. E avvertiamo giustamente questa separazione, che chiamiamo “moderna”, come irreversibile. Possiamo renderci conto, specialmente se abbiamo letto Foucault, che anche per noi “moderni” lo spazio della moralità è occupato da pratiche disciplinari e formazioni discorsive che plasmano il Sé, in modi forse anche più pervasivi e profondi di quanto non facesse l’autorità religiosa. Nondimeno, non potremmo tornare indietro. Ma nel confronto con quel “radicalmente Altro” che è il terrorista suicida ci troviamo di fronte ai limiti di questo umanesimo, alle sue aporie, all’incapacità di coinvolgere pienamente chi ne è stato finora escluso, all’impossibilità di esportarlo con la forza» (Dei 2016: 145).
Ed è questo universo culturale religioso e ‘guerriero’ nello stesso tempo, che non è affatto primordiale, ma semmai globalizzato e legato a un modo di interpretare la modernità e il futuro, che costituisce l’acqua nella quale nuotano i pesci del fondamentalismo. Una idea di futuro in cui l’Islam radicale si presenta come principale alternativa globale all’Occidente.
«Certo, le proteste e le rivolte popolari sono state istigate e guidate dai fondamentalisti: ma sono state possibili solo a partire da contesti nei quali la religione è il lessico nel quale si esprimono valori come la sacralità dei rapporti familiari, la solidarietà comunitaria, la morale pubblica – il senso dell’essere umani, in definitiva. Estromettere tutto questo dall’ambito della comune umanità, considerandolo barbaro e incivile, è esattamente la risposta che il fondamentalismo si attende, e che serve a nutrire l’idea di un grande scontro di civiltà. Un’idea, come ha osservato tra gli altri Tzetan Todorov, “accolta da tutti quelli che hanno interesse a tradurre la complessità del mondo in termini di scontro tra entità semplici e omogenee: Occidente e Oriente, «mondo libero» e islam” (Todorov, La paura dei barbari, Milano Garzanti, 2008: 128). È proprio questo il terreno di coltura in cui il terrorismo suicida – il martirio distruttore e vendicatore – acquista il suo significato» (Dei 2016: 146).
È questo scenario che rende complessa una riflessione sui possibili incontri delle grandi religioni. Esse sono sulla scena anche nelle forme della politica, del nazionalismo, dell’egemonia. Lo è anche la Chiesa ortodossa almeno in parte legata alle politiche della Russia. Per il protestantesimo è difficile accettare il forte peso dell’esteriorità ritualistica del cattolicesimo e del mondo ortodosso. Il fronte cristiano stesso si presenta a disagio in una scena in cui già una chiesa e un tempio si presentano con modalità teologiche di presenza di Dio così radicalmente differenti e oggetto di lunghe guerre senza esclusione di colpi in cui politica e teologia si sono fortemente intrecciate plasmando il pensiero occidentale.
Cosa credere per i nostri nipoti? Certo possiamo ripassare i nostri modi di essere stati, avere visto i Feddayn come dei guerriglieri rivoluzionari, come se fossero castristi, o ‘garibaldini’, avere creduto che Komeini fosse un rivoluzionario, è nella nostra storia del Novecento la difficoltà a capire i mondi religiosi. La tendenza a leggerne le dinamiche in chiave laica. Per me che sono un laico non credente ma figlio del cattolicesimo c’è il forte rischio di vedere il passato anche nelle forme religiose contemporanee, figli tutti di Hegel, ancora una volta. Ma ciò che il mondo oggi ci prospetta è decisamente oltre ogni possibile idea del progresso dello Spirito.
Questa difficoltà in termini di incontro dei riti, delle diverse religioni, in spazi continui che rispettino il sacro altrui (idea bella, illuminata, forse coltivata da Ernesto Balducci, ma anche praticata in un orizzonte di conciliazione dagli ultimi Pontefici romani, con richieste anche di scuse) viene segnalata da Vincenzo Meale nel numero precedente di Dialoghi [1] in cui dice con nettezza che questo tipo di incontri per avere senso ovunque dovrebbe misurarsi con un luogo simbolo come Gerusalemme. Faccio fatica a fare mie le sue argomentazioni [2] ma è stata la cronaca internazionale dell’ultimo mese a rendere evidente il nodo di tragica impossibilità che Gerusalemme pone a ogni prospettiva universalista. E che, crediamo, verrà aggravandosi con la nuova amministrazione americana.
Gerusalemme
Il 20 ottobre 2016
«La risoluzione – presentata dai Palestinesi insieme ad Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan – è stata approvata da 24 Paesi, respinta da sei (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda). In 26 si sono astenuti (Italia compresa), mentre i rappresentanti di due nazioni non erano presenti al momento del voto. Nel provvedimento – che condanna Israele su vari temi riguardo Gerusalemme e i suoi luoghi santi – si sostiene, come hanno riferito alla unanimità i media israeliani, che la Città è sacra alle tre religioni monoteiste (Ebraismo, Islam e Cristianesimo) ma che il Monte del Tempio lo è solo per i musulmani senza menzionare che è santo anche per gli ebrei. Per indicare il luogo non usa né il termine ebraico (Har HaBayit) né quello inglese equivalente (Temple Mount). Ad essere adoperate sono invece le definizioni musulmane di Moschea di Al-Aqsa e di Haram al-Sharif …» (Il Fatto Quotidiano).
La crisi totale cui l’Unesco è stata vicina, che ha richiesto distinguo, precisazioni, dichiarazioni in una scena internazionale incendiata da questa votazione, ha mostrato che i fatti culturali, quelli religiosi, e il patrimonio non sono luoghi separati dalla vita dei popoli, dai conflitti, e come sono tavoli trasversali di confronto tra punti di vista diversi e culture diverse. La Palestina, entrata già nell’Unesco contro la volontà di molti Paesi, guidata da alleanze di Paesi arabi e Paesi antiamericani, con la presenza di Paesi che – come l’Italia – cercano di favorire dialoghi, ha utilizzato la maggioranza possibile dentro il Consiglio generale dell’Unesco per una mossa politica, ma basata su una sorta di delegittimazione religiosa di Israele. L’esatto opposto di un dialogo interreligioso. Un caso in cui è facile leggere che Israele ha una legittimità religiosa che non viene riconosciuta a causa della sua politica, dei muri, delle guerre, con le quali i suoi dirigenti hanno pensato di costruire il destino delle generazioni future.
Parlando di generazioni future non posso nascondere a me stesso – proprio perché ho vissuto la stagione della liberazione dei popoli dall’imperialismo, ho fatto il tifo per tante ribellioni che si sono rivelate sbagliate, ho confuso fondamentalismi con laicità etc…– che in nome di queste generazioni non c’è violenza dell’Occidente verso i popoli del mondo che mi possa portare a giustificare e riconoscere il fondamentalismo religioso musulmano e la guerra santa, che posso capire da antropologo, ma che detesto almeno quanto ho detestato quello cattolico; a giustificare e riconoscere il nichilismo estremo di chi si suicida per uccidere civili innocenti (il fatto che si suicidino – dal punto di vista dei morti – è solo una differenza tecnica rispetto ai nazisti che sterminavano civili senza suicidarsi); ad affermare un ruolo delle donne sottomesso a quello dei maschi, e una mancanza di libertà individuale rispetto a Dio.
Riconosco le forme religiose anche fondamentaliste come ‘forme di vita’, come dotate di moralità propria, di senso di orizzonti generazionali comuni, di potenzialità anche emancipative sul piano territoriale in situazione di subalternità, ma nessuna di queste modalità mi sembra né giustificabile a partire da errori occidentali né condivisibile sul piano dei valori. Esse fanno parte del mondo che analizzo, e che cerco di rispettare intellettualmente e anche moralmente, ma che contrasto quando devo pensare al futuro degli esseri umani e immaginare una utopia che lo renda vivibile da tutti , ma anche quando devo trasmettere dei valori ai miei nipoti. E che non posso che esecrare quando producono morti ‘nostri’ ma anche morti ‘loro’ nelle molteplici frastagliate, poco riconoscibili per me frontiere del mondo contemporaneo in cui i fondamentalismi si riaccendono anche dentro l’induismo e in altri mondi religiosi meno in vista. Difficile posizione, il mio pianto non vorrà mai essere lo stesso di Trump e di Al Baghdadi, né quello di Netanyahu, o di un leader religioso di Hamas. Ma le frontiere si restringono. Lo spazio perché le differenze si vedano si ridurrà. Può darsi che capiti di essere di fronte di nuovo al nodo ‘non aderire né sabotare’ , e credo che la storiografia abbia mostrato che quella formula non fu particolarmente feconda.
De Martino, in un dibattito sul tempo e la storia che aveva molto a che fare con il ruolo della religione, diceva, citando Karl Kereny (Introduzione alla essenza della mitologia) che, «Prima di agire l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale» [3]; gli antichi questo passo lo facevano immergendosi nella memoria del mondo degli antenati e nulla di nuovo era loro possibile senza essere passati per il passato. De Martino esaltava il coraggio della storia, lo sguardo innovatore verso il progresso e il futuro, ma io credo che il passo indietro del torero sia sempre alla base del nostro agire (in un certo senso è quel che ci vien detto anche dai neuroscienziati quando si parla di comportamenti di improvvisazione che non si aprono mai sul vuoto ma si basano sempre sul repertorio del già noto). In questa difficile circostanza di pensiero vorrei fare il passo indietro del torero, ma intanto senza nessuna intenzione di colpire il toro, e in secondo luogo col desiderio di fare un passo indietro così lungo che magari finirà per somigliare a quella ‘strada più lunga per tornare a casa’ che sarebbe il viaggio antropologico nella diversità culturale.
Alberto Mario Cirese diceva a lezione che levarsi le scarpe per entrare nella moschea, e togliersi il cappello per entrare in chiesa sono gesti diversi, ma nella loro funzione, equivalenti. Ogni religione stipula un suo modo di cambiare la propria corporeità per segnare il passaggio dal mondo sacro al mondo profano, che considera valido; messi al confronto questi modi si somigliano nella loro diversità, rinviano a un valore comune. Le donne invece il fazzoletto o il cappello lo devono mettere e nel mondo musulmano devono essere interamente coperte, ma anche qui c’è una connessione intuitiva tra i due comportamenti, che riguarda il rapporto tra mondi religiosi e femminilità. Questi piccoli segnali però mostrano che le differenze sono più riducibili nella pratiche religiose che non nei pensieri religiosi. Nelle teologie.
Anche se penso che i tempi sono davvero cupi, o forse per questo, mi sono commosso per l’iniziativa degli imam di recarsi a pregare nelle chiese cattoliche per manifestare un incontro tra le religioni contro la guerra e la violenza, e per condannare l’uccisione – in nome di un Allah feroce – di un sacerdote cristiano. Non so se in questa circostanza hanno tolto le scarpe nell’entrare. Anche la preghiera è un punto di connessione tra le grandi religioni monoteiste ma anche un nesso con tutte le altre religioni, comprese quelle politeiste che non vorrei fossero dimenticate. Essendo una tecnica del corpo e della parola, la preghiera occupa uno spazio che possiamo considerare separabile dalle teologie di riferimento. Mi colpì il tentativo di Peter Winch di ‘tradurre ermeneuticamente’ la divinazione Azande, parlando di somiglianza con ciò che per noi è la ‘preghiera di supplica’ [4]. La preghiera apre a una dimensione molto più larga del sacro, in cui forse trovano posto, o almeno comprensione anche gli agnostici.
Ci inoltriamo in un mondo difficile con questi termini. In un saggio introduttivo a un volume dell’Unesco che lavorava sui temi interculturali di ‘cultura e tempo’ [5] a partire dalle grandi civiltà e dalle grandi religioni, Paul Ricoeur [6], invitava a pensare che le culture religiose e la loro temporalità non sono descrivibili nei termini di altre culture religiose, tanto meno sono riconducibili al pensiero occidentale. Come suggeriva P. Winch, ci si può avvicinare per immaginazioni, per incontro o intersezione di rappresentazioni, ma non c’è un pensiero universalista che dia conto delle religioni dall’alto di una qualche ragione, o dall’alto di una singola religione. Le culture religiose racchiudono esperienze del mondo e del tempo diverse, irriducibili. Si intravedono percorsi storici, gruppi o nodi di forme concettuali e religiose che si accostano, addirittura derivano. Ma il senso del tempo e della vita è segnato in modi diversi nell’Ebraismo, nel Cattolicesimo, nell’Islam. Ed è con questa consapevolezza relativistica che occorre guardare con speranza e insieme con prudenza alle possibilità di incontro delle grandi religioni, di per sé, e contro la violenza, contro la lunga esperienza storica delle religioni che si fanno guerre.
A tutti è chiaro che non c’è alcuna grande religione che non conosca il fanatismo e la guerra di religione. Le stesse religioni cristiane sono nate dalla differenza con lacrime e sangue. Le antiche e gloriose guerre tra cristiani e mori erano senza esclusione di colpi. Ed è anche vero che nei racconti, ormai sfuocati, delle persecuzioni religiose, i valdesi del Piemonte che non gridassero ‘Viva la Madonna’ ai soldati cattolici di Pinerolo, venivano passati per le armi. Non troppo tempo fa. Alcune grandi religioni sono imbricate con mondi nazionali e statali che le hanno trasformate e allontanate dalle loro ragioni universaliste (penso all’Arabia saudita e all’Iran ma anche al Regno Unito e ai Paesi slavi).
Per le grandi religioni del libro è difficile storicizzare il proprio senso. Qualcosa dirà il fatto che siano nate in una area comune e circoscritta che coincide anche col mondo più guerreggiato della storia. Dove oggi la guerra davvero infuria e donde infine vengono anche le nuove guerre sante, il jihad, i combattenti suicidi che hanno sostituito i ‘feddayn’ del nostro immaginario laico e rivoluzionario degli anni ‘60 e ‘70, così pieno di inconsapevolezza.
Storie bambine
Ecco il passo indietro del torero più lungo: fra due anni saranno sessanta a separarmi da una svolta della vita che ebbi da ragazzo a 16 anni, quella di non credere più in Dio. Era maturata prima, quasi una storia bambina. Ricordo un libro con i disegni delle fiamme dell’inferno, e un sacerdote che diceva: si può credere in Dio per amore per lui o per paura delle fiamme dell’inferno. Fui sincero con me stesso, e mi resi conto che credevo per la seconda ragione. Un modo di credere che non può durare a lungo. Eppure avevo vinto il concorso Veritas e incontrato per premio Papa Pio XII a Castelgandolfo, in seconda media. In prima liceo diventai un po’ teista studiando la filosofia greca e in terza l’idea di una religione naturale illuminista non mi dispiacque, ma poi non ebbi più bisogno di credere. Non credere fu congeniale alla mia storia di lotte con padri e madri, con baroni accademici (non immaginavo allora di entrare in quel mondo anche se almeno un po’ cambiato) , e democristiani politici, bonzi sindacali e comunisti riformisti. Erano gli anni ’60 e a mio modo inventavo di nuovo il mondo. Venivo da un cattolicesimo popolare materno assai forte, con medagliette e reliquie, la Madonna di Pompei e San Ciro, l’angelo custode personalizzato. E credo di avere avuto un certo coraggio a lasciare quel mondo di segni, colori, immagini.
Una volta, entrando in una chiesa in cui venivano suonate delle opere di Bach all’organo, pensai che mi sarei riconvertito volentieri tanta era la ricchezza simbolica del mondo che avevo lasciato. Anche dell’Angelo custode ho qualche nostalgia. L’appartenenza religiosa della mia vita familiare mi è servita a capire meglio la cultura protestante valdese che ho incontrato e in parte studiato in Piemonte, una religiosità più interiorizzata, sempre un po’ in allerta sulle forme religiose cristiane che ‘sanno di pagano’, sanno di ‘papismo’. Roba come i Carnevali dopo i quali ci sono Quaresime, e i peccati dopo i quali ci sono le confessioni. Ho capito il peso per loro di un Papa come Giovanni Paolo II, così cattolico nell’essenza ritualista e in una teologia morale minuziosa ed esteriorizzata. Ma le figure dei papi sono state sempre più forti nel secondo dopoguerra, quasi a sostituire dei vuoti culturali. La sinistra criticava Woytyla per il suo moralismo e il ritorno alle battaglie contro l’aborto, il matrimonio non ‘naturale’ etc… ma faceva il tifo per la sua politica internazionale. Francesco invece fa morire di rabbia solo i cattolici conservatori e tutti gli altri lo considerano una grande risorsa almeno retorica e morale.
In questo quadro è proprio fuori del coro il libro di Marc Augè [7], un racconto paradossale in cui il papa dichiara che Dio non esiste. Non sempre essere fuori dal coro significa essere dentro il tempo, anche se il racconto è ironico, quello dell’annientamento della religione era un tema novecentesco, legato all’eclissi del sacro, un sogno di noi agnostici. Dopo la rinascita del sacro abbiamo bisogno di riconoscere lo spazio pieno di mondi religiosi ed esercitare su di esso la nostra comprensione, senza snobbarlo, col rispetto massimo che si deve ai grandi fenomeni della vita collettiva e individuale. Mi colpisce che diversi dei casi che sono citati da Daniel Fabre nella sfera delle emozioni patrimoniali, abbiano a che fare col rapporto della gente con lo spazio religioso [8]. È forse la mia storia giovanile di lotta contro le religioni viste come forme di conservazione di potere, che ora mi chiede di investire sulla pratica di comprensione che è propria dell’antropologia per capire la scena del mondo. Anche perché il ribellismo generazionale e la grande confusione creativa degli anni ’60 e ’70 hanno prodotto non poche illusioni, e forme di incomprensione che oggi occorre rivedere fortemente per capire il presente.
Inventare una immagine del futuro in cui il Papa dichiara che Dio non esiste è molto più semplice per la nostra storia, piena anche di Massoneria, che non immaginare una idea di futuro nuova e capace di ammettere pluralità polifoniche tra le religioni nella scena del mondo, l’ombra di Khomeini che danza con quella di Papa Ratzinger, e del rabbino Toaff. Ma è già difficile per le religioni del libro e del monoteismo ammettere la propria esistenza come forma di vita e sentimento, come stile culturale, come vita comunitaria, il peso delle loro teologie le allontana e le pone in competizione, la forza del credere in cose che paiono all’una e all’altra impossibili e blasfeme, le rende ostili, la memoria del passato rende i confini minacciosi [9]. Il mondo islamico è plurale e consente investimenti religiosi molteplici, un imam non rappresenta l’intera chiesa di un luogo, come un vescovo, è solo una guida spirituale, così come nel protestantesimo si incontrano fenomeni federativi, assenze di rappresentanze verticali. Il mondo religioso ebraico viene fortemente compresso alla visibilità delle sue forme molteplici dal peso dello Stato di Israele. Quello ortodosso dalla coincidenza con il peso di quello delle potenze dei Paesi slavi.
Il mondo in guerra rende difficile, quasi paralizza il pensiero antropologico, in questo quadro riconosco il coraggio di una nuova generazione nei lavori di Fabio Dei e di altri antropologi italiani, più giovani di me, sulla violenza e sul terrorismo. Io appartengo a una generazione postbellica, uscita dalla guerra e impegnata contro le guerre, animata da una speranza di progresso e di pace, per la quale ci siamo anche organizzati ed abbiamo lottato, in una direzione universalista e laica, che si è trovata dagli anni ’90 catapultata in un mondo imprevedibile, che ricordava le guerre balcaniche e l’Ottocento. In cui l’universalismo è diventato non più una grande utopia ma un debole sogno. L’orizzonte del mondo globale, la difficoltà di immaginare il futuro, la violenza delle guerre locali e la minaccia di nuove guerre internazionali su fronti e frontiere inedite produce in me un grande disorientamento. Lo affronto da anni anche con grandi saggi di grandi antropologi, ma non mi lascia alcuna speranza in idee diritte di futuro dove sorga un qualche sole dell’avvenire. Direbbe Pasolini che forse la nostra vita è stata sacrificata troppo al futuro, a quel futuro la cui luce non cessa un solo istante di ferirci. Ma il mio senso di appaesamento nel nuovo millennio è precario, come sono migrante digitale, così sono migrante ‘globale’, nel senso metaforico del non avere una patria stabile del pensiero del mondo. E quanto più sono radicato nel luogo e generazionalmente privilegiato come pensionato, proprietario di casa, dotato di piccole patrie culturali, tanto meno sono a mio agio nel mondo, che mi produce con la sua mobilità effetti di vertigine. A Clifford Geertz e ad Ariun Appadurai, ma soprattutto al primo, debbo dei significativi punti di ancoraggio nel nuovo tempo. Il mio mondo intellettuale e politico è preso da pulsioni molteplici, vorrei affrontare la guerra di oggi nei modi in cui affrontavo con una intera generazione quella di ieri (il Vietnam guerra paradigmatica, la Baia dei Porci!!, il Cile…), ma quel mondo è del tutto tramontato, insieme a quel mondo emozionale e a quelle scene statuali e alle forme di protesta. Ne restano tracce forti, che aiutano poco a capire. Così quando leggo su un quotidiano on line:
«L’Islam varca la soglia delle chiese italiane. Un gesto potentissimo, che giunge nell’ultima domenica di un luglio di sangue e dopo l’attentato in una chiesa di Rouen. Da Milano a Roma, Firenze, Napoli, Torino, Palermo, Catania, Bari, imam e credenti musulmani – 23mila secondp Foad Aodi, presidente delle Comunità del Mondo Arabo in Italia (Comai) – pregano a messa insieme ai cristiani di fede cattolica e non mancano messaggi di pace, abbracci e momenti di grande commozione»,
vengo preso da una commozione universalista, come quella che è stata propria del mio tempo. Ma questo in un mondo dove nemmeno l’idea di Europa sta in piedi e quella di mondo è veramente impossibile. Così come in questo scritto, percorro strade sghembe. È al dibattito e al tentativo di comprensione lucida e non opportunistica del nuovo Islam guerriero che cerco di fare attenzione, come ho scritto nel primo paragrafo, e questo mi porta a vedere una fase difficile e drammatica delle relazioni internazionali e anche della sfera dei rapporti di civiltà interculturale. Il caso Gerusalemme e Unesco ne è un forte indizio. Ma, come ho scritto nei capitoli successivi, il mio mondo emotivo formato negli anni ’60 e ’70 mi spinge ad apprezzare ogni gesto conciliativo, ogni incontro in cui appaia una intercomprensione dei diversi. Germaine Tillon [10] diceva:
«Si l’ethnologie, qui est affaire de patience, d’écoute, de courtoisie et de temps, peut ancore servir à quelque chose, c’est à appredre à vivre ensemble».
Forse è per questo che nessun politico ci affida compiti di comprensione delle diversità, che sono parte dello statuto e della missione dei nostri studi, hanno già deciso che ‘vivere insieme’ è una posta della politica, in cui la conoscenza non è chiamata a fare luce, la difficile strada del vivere insieme è gestita con la retorica dei voti e dei rapporti di forza, o con il vuoto del politicamente corretto. Mai come oggi ci sarebbe bisogno di così tanta conoscenza antropologica ‘at home’.
Una scrittrice anglo-giamaicana Zadie Smith, benché abbia più di trenta anni meno di me, nel suo discorso per un premio letterario europeo, ha definito bene la sindrome che io sento anche propria della mia generazione; vedendo la scena del mondo occupata da figure come quella di Trump, dai populismi antimigranti, dalla Brexit, ha proposto di fare il punto sul fatto che per molti anni esperienze di multiculturalismo, di dialogo tra le culture, hanno avuto vita difficile ma positiva, aprendo a nuovi mondi del vivere comune, a nuovi tipi di letteratura e di musica, a immagini del mondo globale come polifonia delle diversità. Oggi queste immagini sbiadiscono velocemente. Lo dico con le mie parole, prese dal senso delle sue. Non dobbiamo smettere di crederci né buttarle via, ma pensarle e tenerle come una riserva della storia, per restituirle come esperienze possibili, come utopie ancora desiderabili a generazioni ulteriori, bussole ancora non del tutto arrugginite, o mongolfiere per cieli ancora da venire [11].
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
[1] Nel destino di Gerusalemme il dialogo possibile tra le religioni in “Dialoghi Mediterranei”, n. 22. 2016
[2] Anche su questo è prezioso il libro di Fabio Dei, perché ricostruisce in modo non semplicemente anti-israeliano, le storie passate tra diplomazie e scelte delle élites locali, anche Fabio Dei in effetti pone la questione palestinese come luogo cruciale della comprensione del fondamentalismo Jihadista
[3] E. De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in Id., Furore, simbolo, valore, Milano, Feltrinelli, 1962
[4] In P. Winch, Comprendere una società primitiva, in F. Dei, A. Simonicca, a cura di, Ragione e forme di vita, Milano, Angeli, 1990: 152
[5] Unesco, Les culture set le temps, Paris, Payot, 1975
[6] P. Ricoeur, Introduction, in Les culture set le temps, cit.
[7] M. Augé, Le tre parole che cambiarono il mondo, Milano, Cortina, 2016
[8] D. Fabre, a cura di, Emotions patrimoniales, Paris, Editions Maison de sciences de l’homme
[9] Il dibattito francese sul rapporto con il mondo arabo è assai interessante, un libro di riferimento è quello in cui Christian Bromberger e Tzvetan Todorov commentano in modo diverso il pensiero etnologico di Germaine Tillon, Germaine Tillon. Une ethnologue dans le siécle, Arles, Actes du Sud, 2002
[10] Ibidem, vedi nota 10 : 41
[11] Z. Smith, Pensare un mondo migliore, in “Robinson”, Repubblica, 11 dicembre 2016
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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