Nel corso della sua lunga storia, la Sicilia ha visto avvicendarsi le più diverse popolazioni del Mediterraneo. Sicilia: cultura e conquista intitolava una mostra del 2016 il British Museum. Greci, Bizantini, Normanni, Svevi, Aragonesi, Borboni si sono susseguiti nella conquista e nel dominio dell’Isola, ognuno lasciando tracce nel patrimonio artistico e culturale. Fra tutte, sembra però che una delle conquiste abbia scavato un solco più profondo nel cuore e nella fantasia dei siciliani, e in particolare dei palermitani: il breve periodo della dominazione araba. A molti piace ricordare le parole che Ibn Hamdis dedicò alla sua Sicilia: «Un paese a cui la colomba prestò il suo collare, e il pavone vestì del manto screziato delle sue penne».
Ed effettivamente, il dominio arabo di Sicilia, durato soltanto un paio di secoli, lascerà segni indelebili nell’arte architettonica e in quella culinaria, nei nomi dei luoghi e nei cognomi delle persone, nella cultura popolare e in quella accademica, percorrendo le favole popolari di Giufà e arrivando al falso storico del Consiglio d’Egitto.
D’altra parte, la realtà dei fatti è che chiunque voglia trovare in Sicilia le tracce di una cultura arabo-musulmana pura rimarrà deluso: la cultura è fluida e incline all’ibridazione. L’architettura è arabo-normanna, le chiese hanno trasformato e coperto le moschee, la cucina ha commistioni nord-europee, i nomi sono italianizzati. La Sicilia è siciliana, la sua arabicità è diluita. Ciononostante, i siciliani sono fieri, e a ragione, di essere figli (anche) della cultura araba.
Forse anche per questa fierezza, la notizia del ritrovamento fortuito in un appartamento privato di una stanza dalle pareti blu oltremare abbellite di scritte arabe, ha suscitato interesse e emozione nel cuore di tanti: l’arabicità di Palermo riemergeva a tutta forza, nel 2013, in via Porta di Castro. Una stanzetta piccola, rivestita di una tinta blu scuro, ma illuminata da linee e gruppi di iscrizioni in argento e lampade dipinte in oro. La datazione proposta, XIX secolo, ha messo tutti d’accordo. D’altra parte, era difficile datarla a un’epoca anteriore: via Porta di Castro era stata il letto di un torrente per lunghissimo tempo, l’impetuoso torrente Kemonia, interrato all’inizio del 1600. Il palazzo che ospita la stanza è datato a cavallo fra XVIII e XIX secolo.
Il pomo della discordia è stata però la funzione della stanza. C’è chi l’ha chiamata moschea privata, chi stanza turca e chi infine stanza della meditazione. I pareri discordavano non solo sulla funzione, ma anche sulle iscrizioni: siriaco, antica forma di arabo, ebraico, pseudo-arabo. Sulla stampa locale e online le interpretazioni si sono rincorse per anni, finchè la spiegazione finale è arrivata, pubblicata pochi mesi fa, nel settembre 2017, in un libro ad hoc: La Camera delle Meraviglie. Codice Palermo.
Per amor di precisione, non è la prima volta che alla Camera palermitana viene dedicato un volume. Già nel maggio 2014 era apparsa una pubblicazione, non destinata alla vendita. In quell’occasione, del capitolo dedicato all’analisi storica della camera se n’era occupato il capace professor Sherif El Sebaie, docente di Lingua Araba, Civiltà e Arti dell’Islam al Politecnico di Torino. La sua interpretazione non lasciava spazio all’immaginazione: la stanza era un cabinet of curiosities, in italiano camera delle meraviglie, pensata e prodotta per affascinare gli ospiti e fingere di essere in un Oriente confortevole e ripulito, senza dover intraprendere nessun viaggio frustrante e oneroso. El Sebaie faceva rientrare la camera in una più vasta tradizione, totalmente europea e ottocentesca, che superava la Sicilia e l’Italia. La Leighton House di Londra è certamente l’esempio più famoso di quel gusto per l’Oriente che portava ricchi viaggiatori a ritagliare delle stanze arabeggianti nelle loro abitazioni, ma anche l’Italia ha i suoi esempi. Da nord a sud, l’architettura arabeggiante ottocentesca percorre tutta la penisola: Villa Crespi sul Lago d’Orta, il Castello di Sammezzano in Toscana, Il Minareto di Fasano, Villa Sticchi a Santa Cesarea Terme e il Mausoleo Schilizzi di Posillipo.
L’interpretazione di El Sebaie, sotto un certo punto di vista, uccide l’arabicità ritrovata di quella camera. Quella che era l’ultimo colpo di coda della cultura araba a Palermo, era diventata la stanza di uno stravagante cittadino, che voleva fab- bricare un suo Oriente privato. Tutto era diventato pseudo: pseudo-arabe le iscrizioni, pseudo-tughra il modo in cui erano arrangiate, pseudo-oriente il risultato finale. La storia è sempre molto meno romantica di come appare a prima vista.
A tre anni di distanza da quella tanto accurata, quanto poco romantica interpretazione, un nuovo libro si propone quindi di spiegare la camera, e lo fa obliterando la prima analisi. Nei tre anni che sono passati fra la prima pubblicazione e l’ultima, tante cose sono cambiate: dei ricercatori dell’università di Bonn si interessano allo studio della camera, i proprietari dell’appartamento pubblicizzano la Camera delle Meraviglie sui social media e la aprono al pubblico in più occasioni e a fronte di un piccolo contributo, per i lavori di restauro e conservazione. La Camera comincia ad apparire su Trip Advisor (n. 160 su 437 attrazioni palermitane) e sui blog che informano i turisti su “cosa vedere e fare a Palermo”.
In breve, la Camera Blu vive il suo momento di celebrità, affascinando i visitatori e avvolgendoli nel mistero delle sue decorazioni. Perchè sì, le decorazioni sono tornate ad essere misteriose: superata l’interpretazione con i piedi per terra di El Sebaie, lo studio della camera è ripartito da zero, per mano degli studiosi di Bonn, perciò non si sa ancora con certezza cosa si stia guardando mentre si visita la stanza dalle pareti blu.
Il nuovo libro, edito da Torri del Vento, e curato dai due proprietari della casa, Giuseppe Cadili e Valeria Giarrusso, si propone quindi come un’edizione rivista e corretta, che tralascia le teorie ormai superate presenti nel primo libro. La nuova interpretazione formulata da Sebastian Heine e Sarjoun Karam, entrambi della Università di Bonn, rigetta prepotentemente le tesi avanzate e pubblicate dal loro predecessore: la camera non è una moschea, certamente, ma non è neanche la stanza turca raccontata da Sherif El Sebaie. Quest’ultima interpretazione, secondo i due ricercatori di Bonn, sarebbe stata avanzata «perchè non erano riusciti a decifrare nè le due scritte più grandi, nè le lettere della frase che è ripetuta più volte». Il loro non si riferisce soltanto a El Sebaie, ma anche al gruppetto di ricercatori internazionali che ha visitato la stanza nel novembre 2013. Gli studiosi che non sarebbero stati in grado di decifrare le scritte comprendevano, fra gli altri, Sheila Blair, una dei maggiori esponenti al mondo nello studio delle iscrizioni monumentali arabe, e Robert Hillenbrand, autore di alcuni dei testi più importanti sull’arte e l’architettura islamica.
Ma se Heine e Karam si propongono di dare al lettore l’interpretazione definitiva e risolutiva sulla camera, quello che emerge dal libro è un insieme di nozioni sconnesse, vaghezze e approfondimenti non pertinenti all’analisi stessa. In più di un’occasione si ha la sensazione che gli autori vogliano gettare fumo negli occhi del lettore come ad esempio quando espongono il contesto storico in cui la camera è stata prodotta. In realtà, l’analisi storica viene confinata al periodo medievale e non si spinge oltre a Federico II (1194-1250), quindi a circa sei secoli prima della datazione della Camera. Di sicuro ne emerge una Sicilia profondamente legata al mondo arabo-musulmano, ma rimane una descrizione anacronistica se confrontata al periodo ottocentesco e risorgimentale, periodo in cui la stanza è stata prodotta.
Altro fumo è gettato poco dopo, quando gli autori parlano della proprietà della casa. Dopo aver accennato, en passant, che l’appartamento «intorno alla metà dell’Ottocento era di proprietà di Sammartino, una delle famiglie nobili più importanti della città», l’analisi della proprietà fa un balzo cronologico immotivato al 2003, quando la coppia Cadili-Giarrusso compra l’appartamento. A questo punto, l’analisi prende una piega ancora più incredibile, quando gli autori sottolineano le origini arabe dei cognomi dei proprietari attuali: «Cadili deriva dall’arabo “qadi”, che significa: giudice; Giarrusso invece deriva da [...] “dscharas” [sic], cioè campana». Il lettore si trova davanti a un’informazione, per quanto interessante e curiosa a livello folkloristico, per nulla rilevante ai fini dell’analisi della camera, ma che contribuisce nondimeno a creare un’aurea di arabicità.
In altri casi, invece, gli autori smarriscono il lettore ponendolo davanti a riferimenti nebulosi, come quando si parla delle influenze arabe nelle iscrizioni gotiche di alcuni monumenti francesi e inglesi: la cattedrale di Alboy, le tombe di Fishilik e Yorkshire e la chiesa di South Yker. In tutti questi casi, non è chiaro a cosa gli autori si stiano riferendo: letteralmente, è pressocchè impossibile trovare questi monumenti.
Oltre ai tanti casi in cui il lettore si trova smarrito fra informazioni irrilevanti e di difficile interpretazione, la portata dell’analisi e i risultati finali sono poco comprensibili. Leggendo con attenzione, le ipotesi avanzate sulla committenza sono problematiche e per niente convincenti.
La camera potrebbe essere stata ideata e promossa da Michele Amari, il grande orientalista siciliano, perchè
«le scritte e i simboli della stanza [...] sono talmente elevati, profondi, che chi ha realizzato questo ambiente doveva essere una persona speciale, [...] che conosceva molto bene la cultura e la religione islamica e certamente a metà dell’Ottocento a Palermo non potevano essere tante le persone che potevano avere questa formazione culturale».
L’ ipotesi pare essere formulata a priori, partendo da supposizioni e non da dati di fatto. Nella spiegazione delle scritte e della decorazione della stanza, le interpretazioni si confondono ancora di più. Una serie di versi coranici vengono presentati, così come un paio di probabili interpretazioni, ma nessuna sembra essere la definitiva. Il che lascia con molti dubbi. L’inizio del capitolo muoveva dall’affermazione che i ricercatori di Bonn fossero riusciti a decifrare le scritte, ed eppure gli autori non includono una spiegazione su come le scritte vadano effettivamente lette. Non ci sono trascrizioni, solo traduzioni già pronte. Non c’è analisi stilistica delle scritte, solo la convinzione che si possano leggere.
Le conclusioni finali sono ugualmente vaneggianti e prive di significati chiari: «la Camera è la realizzazione sia della comprensione occidentale-orientalistica della cultura islamica che della Misericordia e della nobile Creazione». Il tutto condito da vaghi riferimenti alla massoneria, all’esoterismo e alle pratiche spirituali. Sembra di essere tornati alla fine del Settecento, con l’Abate Vella che fabbrica fantasiosamente il manoscritto del Consiglio d’Egitto per i palermitani.
L’interpretazione claudicante dei due autori di Bonn ha un fine chiaro: dichiarare la stanza il prodotto di una cultura arabo-musulmana che non ha mai smesso di pulsare nel cuore di Palermo. Gli studiosi cercano di dimostrare come possono che la camera è autenticamente islamica, che le scritte sulle pareti sono autenticamente arabe, e che il proprietario di tale casa fosse autenticamente qualcuno che ne sapeva tanto, di arabo, Islam, e massoneria. In breve, vogliono rendere arabo ciò che arabo non è. Oggi come ai tempi di Vella, una fabbricazione accademica giustifica una suggestione esotica, che non ha basi reali.
La conseguenza di questa storpiatura è una spiegazione che confonde, che solleva dubbi invece di scioglierli. Eppure, questa è l’interpretazione finale della Camera, che viene pubblicata in un libro pensato per essere venduto e distribuito. E questa è anche l’interpretazione che viene presentata a coloro che visitano la Camera delle Meraviglie.
Ma se c’è un elemento interessante in tutta questa analisi proposta da Sebastian Heine e da Sarjoun Karam, è quel riferimento en passant allo storico proprietario della casa: la famiglia Sammartino. Per quanto manchi ogni riferimento a fonti archivistiche e non si abbiano ancora precisazioni sull’effettivo inquilino dell’appartamento, questo è certamente il giusto punto di partenza per portare avanti l’analisi.
Invece di tracciare collegamenti improbabili (seppur non impossibili) fra Amari e la Camera delle Meraviglie, perchè non si è partiti da questo piccolo dato di fatto? Chi era il signor Sammartino? Era un arabista? O era un commerciante, un viaggiatore? Che legami aveva con il Medio Oriente? Perchè non si è partiti dalla tesi inziale, quella della camera turca, per impostare l’analisi? D’altra parte, la tesi di El Sebaie non viene confutata in nessun punto: non si argomenta mai perchè la Camera delle Meraviglie non possa essere effettivamente una camera delle meraviglie. Quell’interpretazione viene solo messa da parte, e ignorata.
Ma quell’analisi è ad oggi l’unica fondata su solide basi storiche, artistiche e culturali. Non c’è bisogno di rendere arabo ciò che arabo non è per accorgersi di avere davanti uno spazio culturalmente e artisticamente rilevante.
La storia potrebbe essere verosimilmente quella di un signorotto palermitano che a metà dell’Ottocento, come tanti suoi colleghi europei, cade vittima di quel gusto dell’esotico che lo spinge a ricreare, nel suo appartamento di via Porta di Castro, l’Oriente. Forse era andato in viaggio a Costantinopoli e aveva comprato degli oggetti in un bazar, oppure aveva semplicemente comprato una copia de Le Mille e una Notte e aveva chiesto a dei decoratori di ispirarsi ad un Oriente più o meno immaginario per costruire il suo spazio di evasione. E non c’è stanza orientale che non sia decorata da iscrizioni: perciò i decoratori improvvisano dei caratteri arabi, un modulo base ripetuto su tutte le pareti, e delle tughra, quelle forme sinuose utilizzate dagli Ottomani per firmare i documenti. Ma gli artigiani non conoscono l’arabo, quindi copiano approssivamente la forma dei caratteri, che hanno visto nei libri, sugli oggetti importati dall’Oriente, e magari in giro per Palermo. E poi inseriscono le lampade, fatte come quella di Aladino, quella da cui usciva il genio. Il colore è blu, perchè blu è il colore dell’Oriente, scelto da Ingres per dipingere La Grande Odalisque, e scelto da Leighton per il suo Oriente londinese. E così prende forma una camera eccentrica e meravigliosa, in cui disporre i souvenir dei viaggi in Oriente, o semplicemente in cui intrattenere gli amici. Così prende forma un cabinet of curiosities unico, specialmente a Palermo, una città che ha sempre guardato con fierezza al suo passato arabo.
Capire le origini della camera, chi l’ha costruita e progettata, in che contesto, aggiungerebbe un tassello alla nostra conoscenza di quel fenomeno che si chiama orientalismo siciliano, e che ha come suo esponente principale il citatissimo Michele Amari. E pur non essendo una storia mistica e misteriosa, rimarrebbe una storia affascinante e romantica, nel vero senso della parola.
D’altra parte la domanda sorge spontanea: i proprietari della casa, quale interpretazione preferiscono? Quella mistica, che vede la stanza come un prodotto autenticamente arabo-musulmano, o quella meno evocativa se vogliamo, che vuole la stanza una camera delle meraviglie? Probabilmente la prima, anche se ingiustamente.
Tuttavia, ironicamente, la camera continua ad essere chiamata Camera delle Meraviglie e la sua funzione rimane quella di meravigliare il pubblico, così come quando era stata progettata in origine. L’unica differenza è ciò che viene raccontato ai visitatori: mentre due secoli fa si era consapevoli della finzione, oggi si è intrappolati in interpretazioni deboli dal punto di vista storico e scientifico e ipotesi ancor più sconclusionate.
Rimane quindi una sola, vera domanda davanti alla Camera delle Meraviglie: quanto è importante cercare la verità storica in quello che si sta visitando, e quanto è importante invece lasciarsi emozionare da una suggestione?
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Riferimenti bibliografici
Giuseppe Cadili (a cura di), La Camera delle Meraviglie, Banca Nuova, Palermo 2014 (pubblicazione fuori commercio)
Giuseppe Cadili e Valeria Giarrusso (a cura di), La Camera delle Meraviglie. Codice Palermo, Torri Del Vento Edizioni, Palermo 2017.
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Giulia Gallini, laureata all’Università Ca’ Foscari in Arabo e Archeologia islamica, con una tesi sull’uso del Corano nelle iscrizioni monumentali, ha orientato i suoi interessi di ricerca sull’uso e l’interpretazione delle iscrizioni coraniche e sulle rappresentazioni dell’arte islamica in Occidente, dal Medioevo all’epoca dei social network. È co-fondatrice e direttrice editoriale della rivista indipendente IWA Islamic World of Art. Ha attivo e gestisce un suo blog: squarekufic.com.
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