Sulla formazione dei giovani i Licei incidono molto di più delle Università. Per molte ragioni. Chi frequenta la scuola media superiore ha un’età in cui il carattere si sta per plasmare, all’Università l’impronta è già in buona parte fissata. L’offerta formativa dei Licei è generalista, quella degli Atenei è specialistica, la prima si estende su un orizzonte di saperi e di comportamenti vasto e variegato, la seconda si circoscrive in un ambito settoriale. Il modello didattico dei Licei, in cui le classi in genere non superano le 25 unità, consente un contatto continuo e diretto tra docenti e discenti, quello delle Università, soprattutto se di massa, esclude di norma un rapporto autenticamente coinvolgente.
Detto questo, non si può che dare ragione al compianto Beniamino Placido, uno dei nostri intellettuali più lucidi e profondi pur nella sua estrosa ‘leggerezza’, quando lodava i bistrattati professori dei Licei e la loro capacità di orientare, talvolta in modo determinante, la crescita dei ragazzi a fronte dello scarso influsso dei professoroni universitari.
Chi ha avuto come docente Rosario Di Bella, recentemente scomparso all’età di 92 anni, è consapevole di quanto veritiero sia questo assunto. Rosario Di Bella ha insegnato Italiano e Latino per venticinque anni al Liceo Classico “Giovanni Pantaleo” di Castelvetrano, dagli albori degli anni ’50 al tramonto degli anni ’70. Io mi vanto di averlo avuto come docente. Di Bella si distingueva tra i docenti per diversi profili: l’erudizione enciclopedica, la cultura vasta e profonda, lo spiccato senso civico, l’autorevolezza, l’eleganza, l’eloquio ricco e forbito, la meticolosità, il metodo. Nel ricordarlo mi soffermerò su ciascuno di questi profili.
Di Bella era un’enciclopedia ambulante. Aveva una memoria di ferro. Nella sua mente erano scolpite indelebili l’intera Divina Commedia (il giovedì, giorno destinato allo studio del capolavoro di Dante, seguiva i brani rifiutandosi di tenere il Sapegno nella cattedra e puntualmente correggeva gli errori, anche di tono, di chi li leggeva), buona parte delle principali opere della letteratura italiana e latina, le pagine critiche più significative.
Dedicava una delle sue prime lezioni alla distinzione tra erudizione e cultura: la prima, ci spiegò, è l’accumulo di saperi, la seconda l’assimilazione del sapere, il sapere che diventa patrimonio personale e orienta il nostro pensiero e il nostro comportamento. Per fare comprendere meglio il significato della parola ‘cultura’ era solito citare la definizione che ne dava il noto pedagogista Luigi Volpicelli: ‹‹Cultura è quello che ci rimane dopo che abbiamo dimenticato tutto ciò che abbiamo studiato››. Di Bella possedeva un bagaglio di conoscenze che spaziavano in vari campi, non solo in quelli umanistici, e riusciva a renderci partecipi dei punti di contatto e dei collegamenti tra i diversi saperi. Quando parlava di letteratura le incursioni nella storia, nella filosofia, nella psicologia, nella pedagogia, nella sociologia, e talvolta persino nella fisica, erano frequenti. La profondità della sua cultura spingeva a diffidare dai facili schematismi.
Uno dei limiti macroscopici della scuola italiana è sempre stato, e continua ad essere, la modestissima attenzione all’educazione civica. Di Bella era un insegnante di educazione civica, sebbene questa non fosse materia di studio a lui assegnata. Lo era per la sua fede nella democrazia e nei valori di libertà, che in lui si coniugavano con le istanze sociali verso le quali era molto sensibile, e perché il suo alto senso del dovere costituiva per tutti un esempio. Non ricordo si sia mai assentato negli anni in cui fu mio docente. Ci inculcò il valore del pluralismo dell’informazione sperimentando la lettura in classe di testate di diverso orientamento.
Durante la sua ora, che sempre si prolungava oltre il suono della ‘campanella’, nessuno osava disturbare sebbene non alzasse mai la voce. Raramente rimproverava, e se capitava lo faceva con estremo garbo, piuttosto forniva consigli su come studiare cercando di stimolare l’interesse anche nei più svogliati. L’eleganza era un tratto distintivo della sua personalità, con qualche concessione alla civetteria. Vestiva in modo assai curato, estraeva le sue sigarette (era un fumatore incallito) da una custodia d’argento, era sempre profumato (qualcuno diceva che cambiasse fragranza ogni giorno). Ma l’eleganza non era in Di Bella un mero connotato esteriore, ma un indice della sua raffinatezza. Incantava per la padronanza della lingua e per l’eloquio fluido privo di intercalazioni. Misurava ogni parola e mai un aggettivo o un avverbio risultavano fuori luogo. Il suo vocabolario ricchissimo ripudiava i modi di dire dettati dalla moda: espressioni, allora molto in voga, quali ‘nella misura in cui’, ‘al limite’, ‘piattaforma programmatica’ gli erano del tutto estranei. Da profondo conoscitore dell’italiano e del latino censurava locuzioni, pur presenti in tanti testi, come ad esempio ‘giudizio critico’, una tautologia in quanto le due parole erano accomunate dalla stessa radice semantica (più corretto dire: ‘giudizio estetico’). Di Bella, tuttavia, da buon comunicatore evitava le parole astrattamente difficili e quando era costretto ad usarle ne spiegava il significato risalendo alle loro origini.
Di Bella era meticoloso sino al paradosso. Su certe pagine fondamentali della letteratura si soffermava in più giornate leggendoci, e tante volte ripetendoci a memoria, le osservazioni di critici di diverso orientamento (ci fece conoscere le varie scuole di critica letteraria: quella di De Sanctis, di Croce, marxista, strutturalista, ecc). Ciò comportava però che non riusciva a chiudere il programma. In particolare non vi era tempo per trattare la letteratura contemporanea. Rimediava tuttavia, nell’ultimo anno del Liceo in vista degli esami, con delle lezioni pomeridiane che si protraevano sino a sera. Per quelle occasioni il Liceo veniva aperto solo per lui e in quei lunghi pomeriggi tutti eravamo autorizzati a fumare.
L’eccessiva meticolosità lo distolse nei suoi ultimi anni di insegnamento (quelli a cui io ebbi la fortuna di assistere) dal consegnare con regolarità i compiti in classe corretti. Non si limitava infatti ad apportare agli elaborati di italiano e alle traduzioni dal latino delle brevi annotazioni o dei segni in rosso e in blu. Aggiungeva ai compiti chiose dettagliate che costituivano consigli utilissimi per la scrittura e per le versioni in italiano del latino. A un Maradona della cattedra venivano concesse da presidi avveduti simili licenze, come pure quella di non tenere in perfetto ordine i registri.
A parte il resto di cui ho detto sopra, ciò che più risaltava in Di Bella e lo rendeva un docente di straordinaria modernità era il metodo. Chi non ha conosciuto il suo modo di insegnare difficilmente può immaginare la singolarità del suo stare in classe. Quasi sempre, infatti, nell’insegnamento si distinguono la fase in cui il docente spiega la lezione e quella dell’interrogazione. Nella comune opinione la separazione di tali fasi risulta fisiologica all’insegnamento. Nel metodo di Di Bella le due fasi non erano disgiunte. Le ‘lezioni’ di Di Bella consistevano in lunghe conversazioni con gli studenti. Si restava seduti ad ascoltarlo in attesa che arrivasse lo spunto per intervenire o che ci stimolasse con qualche domanda. Si ingaggiava tra di noi, e non solo tra quelli più inclini allo studio delle lettere, un’autentica competizione: studiavamo quasi tutti su più testi sia perché ci aveva appassionato al gusto della ricerca, sia per l’orgoglio di mettere in mostra conoscenze che sfuggivano ai compagni oppure per stupire con osservazioni che avevamo appreso dai manuali o dalle monografie consultati. Di Bella puntualmente commentava le nostre osservazioni citandone l’autore. Se durante l’ora di ‘lezione’ non eravamo stati chiamati a rispondere a un suo quesito o non si era riusciti a intervenire si rimaneva delusi. Quando ci interpellava si restava sempre seduti nel nostro banco con i libri aperti: a parte il clima di lealtà che si instaurava in classe, la risposta alle sue domande non si trovava in passi dei testi ma nell’elaborazione delle conoscenze acquisite.
Di Bella non annotava nel registro il voto alle nostre risposte: così facendo avrebbe rubato tempo alle conversazioni e comunque a fine quadrimestre avrebbe acquisito ugualmente un sicuro giudizio sul nostro valore. Il professore ‘intellettuale’ ci sorreggeva anche nelle attività extracurricolari, come ad esempio nella redazione del giornale d’istituto, oppure si fermava a discutere di cinema o di musica.
Lo studio del latino andava aldilà del mero nozionismo. Di Bella ci fece capire che l’italiano e il latino erano due lingue strutturate in modo diverso e che sarebbe stato inutile e controproducente tradurre il latino alla lettera. Pur rimanendo fedeli al testo latino occorreva costruire la frase tradotta seguendo la sintassi della lingua italiana. Ancor oggi in quasi tutti i Licei si traduce dal latino alla lettera in tal modo diseducando all’uso dell’italiano. Ci insegnò inoltre che nella traduzione letteraria la fedeltà è una cattiva compagna: il testo poetico in particolare ha una metrica diversa nella lingua latina e in quella italiana e ciò autorizza libertà di espressione seppure nel rispetto del significato del passo tradotto. Lui stesso si cimentava spesso in traduzioni letterarie, che ci leggeva o dettava inducendoci a tentare di imitarlo.
Pochissimi in quella classe di Liceo seguirono all’Università studi letterari. E in tali scelte forse un po’ di colpa va ascritta paradossalmente proprio a Di Bella: ci consigliò giurisprudenza o medicina, che allora garantivano prospettive occupazionali più solide e meno precarie, ma soprattutto il suo livello di preparazione irraggiungibile ci poneva di fronte un confronto al quale ci si è voluto sottrarre.
Dialoghi Mediterranei, n. 10, novembre 2014
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, ha pubblicato, per le edizioni della Regione, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (Palermo, 2007) e Mobbing: saperne di più per contrastarlo (Palermo, 2007), con Antonio La Spina Comunicazione pubblica e burocrazia (Angeli, 2009), I soliloqui del passista (Zona, 2009), Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013), Il bacio delle formiche (Lietocolle, 2014). Collabora con i quotidiani La Sicilia e saltuariamente con La Repubblica, edizione di Palermo.
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splendida testimonianza, ricca dei particolari che distinguevano la persona del professore, erudito e appassionato cultore della LETTERATURA italiana, dei maggiori autori e della Divina commedia in particolare. Grazie, dott. Cangemi del suo ricordo e delle considerazioni che ci comunica.