Un nuovo animismo si aggira fra gli antropologi? Sembrerebbe di sì a giudicare dai più recenti contributi degli ultimi decenni intesi a ridiscutere i princìpi del moderno razionalismo fondato sulla netta separazione fra res cogitans e res extensa. L’idea di una realtà a sé stante rispetto al pensiero umano, ha permeato com’è noto tutta la filosofia idealistica traghettando infine alle scienze umane.
Di fatto anche l’antropologia ha posto come condizione del proprio ambito disciplinare un concetto di cultura inteso come dispositivo stereotipante dell’universo, reso conoscibile solo attraverso quella mediazione simbolica che distingue l’uomo sociale da tutte le altre specie viventi. In questo senso la cultura è prerogativa squisitamente umana e funziona come e attraverso il linguaggio. Le strutture di parentela, i lignaggi, i miti e le credenze e tutte le altre espressioni della vita associata, si esprimono come forme di comunicazione, sistemi di segni arbitrari e convenzionali rispetto al referente oggettivo, ma condivisi dalla collettività. Con buona pace di Saussure e di Lèvi-Strauss.
Negli ultimi tempi, del post-strutturalismo, si assiste ad un’inversione di tendenza che ha spinto l’antropologia ad allargare il proprio sguardo verso altre forme viventi, non necessariamente umane. Come Descola, Viveiros de Castro e Latour hanno ricordato, si tratta di un cambiamento di prospettiva nel tentativo di delineare una sorta di «decolonizzazione del pensiero» (de Castro). In questo senso l’egotismo cartesiano e l’antropocentrismo che ne deriva non sono condizioni assolute, ma prodotti relativi e transitori, frutto del pensiero e della storia dell’Occidente. Si tratta ora di ripensare alla natura non come entità a parte, da cui prelevare voracemente ogni tipo di risorsa, ma come un tutto animato in cui ogni essere vivente, umano e non umano, è strettamente interrelato in forme più o meno gerarchiche e con varie modalità di espressione. Una catena semiotica presente a tutti i livelli del cosmo e che coinvolge, in un tutt’uno, la vita intera e il pensiero stesso.
A lanciare questa sfida è ora Edoardo Kohn sulla scia dei suoi predecessori, già ricordati, con un titolo tanto suggestivo quanto provocatorio: Come pensano le foreste, edito da Nottetempo (2012). L’obiettivo è quello di ipotizzare un’antropologia che possa spingersi oltre l’umano, dimostrando come ogni essere vivente pensa, conosce, rappresenta e interpreta tramite segni diversi dai simboli umani. La semiosi sarebbe dunque un processo che coinvolge tutta la foresta vivente – qui il richiamo al titolo – con morfologie e rappresentazioni che sono costitutive di tutte le specie.
Le considerazioni qui esposte dall’antropologo sono il frutto di un’esperienza di ricerca ventennale presso la foresta amazzonica che circonda Avila nell’Equador peruviano, a stretto contatto con i Runa, nativi del luogo. Un’ indagine che ricostruisce minuziosamente la vita di questi indigeni, sulla scorta di una ricca messe di dati etnografici, sogni, miti, racconti, immagini e esperienze vissute in prima persona.
Lo scenario generale è quello di una comunità ancora oggi immersa nella foresta tropicale per praticare la caccia, attività primordiale di sussistenza, ma, al tempo stesso, fortemente condizionata da una lunga stratificazione storica sotto il peso della dominazione spagnola e dei missionari cattolici. Avila, oltre ad essere uno dei principali centri sciamanici, è anche quello che ha maggiormente risentito del potere coloniale.
Non siamo dunque in presenza di una società primitiva dominata dalle credenze animistiche, secondo lo stereotipo dell’evoluzionismo come stadio primordiale dell’umanità o del pensiero pre-logico di Levi-Bruhl. Si tratta invece di una realtà sui generis, animata da molteplici forze interne proprie dell’universo silvestre, ma lacerata da fenomeni contraddittori e ambivalenti sotto la pressione ingombrante dei dominatori bianchi.
Kohn definisce la foresta tropicale un’ecologia del sè, in quanto tutte le specie viventi al suo interno pensano, comunicano e usano i segni: questa facoltà e non la loro fisicità corporea, li accomuna agli umani, rendendoli dei sé, dotati di agentività, parte attiva dei processi di conoscenza. Per troppo tempo – sostiene l’autore – è stato identificato il linguaggio umano con l’attività semiotica in generale. In realtà i simboli della cultura in senso antropologico non sono l’unica forma di rappresentazione delle cose. Vi sono vari tipi di segni, secondo Peirce, che l’uomo condivide con altri generi viventi: le icone e gli indici. Le prime, agiscono sulla somiglianza con l’oggetto che si vuole rappresentare, mentre i secondi, gli indici, pur non mostrando alcun legame di somiglianza, mettono in correlazione due eventi: ad esempio, la palma che cade provocando rumore diviene un indizio di pericolo tale da far scappare la scimmia lanosa.
Tale vitalità semiotica, emergente a tutti i livelli della foresta, determina una certa regolarità, dando luogo ai modelli e agli abiti, ai generi e ai tipi che rendono i fenomeni prevedibili: come ad esempio i corsi d’acqua e i mulinelli che si formano nei vortici del fiume.
La caccia, come si è detto, è la dimensione vitale per eccellenza, perché dimostra sempre un legame primario con l’istinto di sopravvivenza e diviene modello di tutte le relazioni fra gli esseri viventi. Nell’attività venatoria emergono i rapporti di forza fra predatori e prede, meccanismi gerarchici fra le varie specie, che nella lotta per la vita devono riuscire a intuire i comportamenti delle potenziali vittime, interpretarne i segni e i vari presagi che si annunciano durante i sogni, in modo da poterli controllare anche nel futuro.
Vi è un aneddoto in apertura al volume che ha rappresentato un leit motiv di tutta la lettura ed è l’esempio del giaguaro. Un Runa, abitante della foresta, suggerisce al nostro antropologo, durante la sua permanenza nella foresta, la giusta posizione per fronteggiare in sicurezza il pericoloso felino: – bisogna guardarlo negli occhi per far sì che ti consideri una persona, un sé, un agente al suo pari; se invece dormi a testa in giù ti tratterà come una preda, carne morta. Questa relazione dialogica che pone sullo stesso piano l’uomo e il giaguaro, interpretando il suo punto di vista, si manifesta anche nell’uso dei pronomi personali, quando “l’io e il tu” rinviano entrambi a soggetti, parti attive, mentre l’uso della terza persona “egli” o del pronome “questo” denota una cosa, quello che in termini di caccia diverrà “carne morta”.
In realtà, come vedremo, il rapporto predatore/preda non è una condizione data ma effimera, cambia a secondo dei contesti e dei rapporti di forza fra le innumerevoli specie. Rapporti gerarchici che – ricordiamo – non sono spiegabili solo in termini di proprietà o forme costitutive della vita della foresta, ma sono condizionati dai vari intrecci col potere coloniale. Un potere che, come sostiene Butler, non ha determinato soltanto processi di subordinazione e alienazione nei nativi della foresta, ma è divenuto anche un l’elemento costitutivo del loro orizzonte esistenziale. I Runa, gli abitanti del villaggio, aspirano a diventare Runa-puma, uomini giaguaro, signori della foresta, identificati spesso con i bianchi che stanno al vertice dell’egemonia sociale.
Eloquente a questo proposito è il sogno di Oswaldo. La notte che avrebbe dovuto precedere una battuta di caccia al cinghiale (pecari), Oswaldo sogna di trovarsi in cammino verso Loreto per far visita ad un suo compadre. Improvvisamente gli appare un poliziotto bianco dall’aria minacciosa, mentre la sua camicia gli si ricopre di ciocche di capelli. Oswaldo si sveglia di soprassalto temendo un triste presagio. In realtà nel sogno si avverava ciò che sarebbe poi successo perché i capelli rappresentavano le setole dell’animale ucciso e dunque il successo della caccia.
Tuttavia, il dilemma interpretativo del sognatore dimostra la carica di ambivalenza nel rapporto predatore-preda nelle condizioni dei cacciatori: essi in quanto Runa-puma sono padroni della foresta e valenti predatori e in quanto tali aspirano ad essere anche bianchi proprio come il poliziotto minaccioso, ma al tempo stesso temono di divenire prede indifese. Oswaldo si chiede se il poliziotto del sogno fosse lui stesso o al contrario avrebbe dovuto identificarsi con la preda indifesa.
Questa condizione esistenziale che permea tutta la vita dei Runa – cacciare o venire cacciati – è strettamente legata al tema della sopravvivenza e della morte. La necessità di sconfiggere la morte e continuare la vita nell’aldilà, fa sì che i Runa-puma si configurino anche come signori della foresta o spiriti dei defunti che garantiscono la continuità dell’esistenza.
Ecco perché i Runa-puma sono costantemente scissi da una condizione ambivalente fra essere e divenire: da un lato uomini della foresta e dunque potenziali prede, dall’altro puma, uomini-giaguaro in un livello di maturità del sé che può condurli nel regno dei morti, garantendo alla comunità un futuro possibile. I defunti, i lignaggi degli antenati rappresentano nella vita silvestre, quello che Peirce definisce il futuro vivente.
Se è vero, come avverte più volte l’autore, che tali fenomeni sono il risultato di una lunga sedimentazione storica che ha visto l’arcaico sostrato pre-ispanico confrontarsi e sottomettersi alla cultura dominante dei colonizzatori, tuttavia nella percezione dell’uomo-giaguaro non vi è alcuna consapevolezza di tale percorso evolutivo: i Runa si definiscono dei “sempre già”, la cui civilizzazione è un aspetto primordiale della loro umanità. E i loro miti lo confermano.
Un curioso murales sulle pareti di una sala del quartiere della Foin, la federazione che rappresenta la comunità Runa, descrive l’evoluzione di questi popoli dallo stato primitivo della selvatichezza a quello progredito della civilizzazione europea. Dall’uomo nudo a quello vestito con abiti occidentali. Per i missionari il murales dimostra invece l’opera di addomesticamento che hanno condotto sul brutale strato amazzonico, in nome del “progresso”.
In definitiva, rinviando alla lettura del testo per tanti aspetti che in questa sede non possono esaurirsi, diremo che l’opera di Kohn, insieme agli altri autori della stessa corrente, segna una svolta decisiva allo stato attuale del pensiero antropologico. Al di là della costante oscillazione fra il resoconto etnografico e la necessità di applicazione di modelli teorici generali, si fa strada un nuovo approccio etico e politico. Col desiderio di porre fine alla bulimia irrefrenabile dell’uomo occidentale di ricavare dalla natura tutte le risorse possibili per garantire una risposta ai propri bisogni materiali.
Già per quanto riguarda l’Equador il riconoscimento costituzionale dei Diritti della Natura, ha rappresentato un tentativo di bloccare l’ondata sfrenata di estrattivismo minerario e i progetti petroliferi in corso. In un’epoca di vaste alterazioni ecologiche, l’Amazzonia e la sua dimensione silvestre può ancora lanciare un appello per fermare il disastro ambientale cui si assiste con inerzia. Una maggiore sensibilità e una nuova attenzione verso una più profonda spiritualità è la lezione che si ricava dalla lettura di questo volume, come utile e opportuno suggerimento a costruire un modello di vita alternativo a quello dominante della società occidentale. Laddove queste nostre imprese fin “troppo umane”, stanno provocando una catastrofe senza precedenti, su cui fra poco non vi potrà essere rimedio.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Riferimenti bibliografici
Descola, Philippe, 2014, Oltre natura e cultura, trad. it. E. Bruni, SEID, Firenze
Latour, Bruno, 2000, Politiche della natura: per una democrazia delle scienze, trad. it. Di M. Gregorio, Raffaello Cortina, Torino
Viveiros de Castro, Eduardo, 2017, Metafisiche cannibali: elementi di antropologia post-strutturale, trad. it di M. Galzigna e L. Liberale, ombre corte, Verona
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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