di Antonietta Iolanda Lima [*]
Il perché di questa sollecitazione ce lo dice Giancarlo De Carlo. Come aveva fatto uno dei compagni della sua giovinezza scrivendo le pagine di quelle che poi saranno pubblicate con il titolo Lezioni americane, anche il suo, Tortuosità, assume il valore di un lascito testamentario al millennio che da un ventennio percorriamo. Lo consegna a “Domus” (n. 866) nel gennaio 2004, un anno prima della sua morte, e vi invita a leggere con sguardo attento quei brani non ancora o poco investiti da interventi irresponsabili e “processi omologativi”, dove permangono lacerti della loro particolare molteplicità: un esercizio che può rivelarsi benefico per una cultura architettonica che l’oggi chiede di ri-definirsi storicamente, illuminandone il futuro. Richiesta questa generata dalla attuale mancanza di autentici valori, senza i quali non può esserci responsabilità nel pensare e nell’agire. Di grande negatività l’incidenza su territori, città, paesaggi, ambiente, flora e fauna, compresi quindi gli esseri umani. In breve, il pianeta tutto, quello chiamato, Terra, profondamente rispettato un tempo. Tutti noi ne siamo responsabili e ancor più gli architetti la cui finalità dovrebbe essere “il buon costruire”. Se questo fosse stato un operare generalizzato non sarebbero nate quell’insieme di parole-etichette – architettura sostenibile, biologica, ecologica e seguenti – la cui venuta al mondo dimostra la diserzione dell’architettura dal suo autentico ‘codice’. Si sono così cancellate molti dei nessi, delle diversità, delle reti di relazioni e quindi della ricchezza spaziale e percettiva che nel lungo corso della storia l’intervento umano in sinergia con la natura dei luoghi aveva donato alle città, incidendo così sulla percezione dello spazio urbano che per essere significante deve essere necessariamente complesso.
E tuttavia permangono ancora insediamenti in cui lo spazio costruito testimonia la non divisibilità tra maggiore e minore, tra i pieni e i vuoti, quanto piuttosto il tendere alla loro identificazione nell’uso. C’è inoltre in esse, aggiunge Giancarlo De Carlo, un ulteriore principio/carattere rilevante al fine della rappresentazione e percezione complessa dello spazio, dimostrativo di come quello che si ritiene certo in termini geometrici cessa di mantenersi tale nel suo traslarsi in spazio urbano: è la tortuosità che, diversamente dal percorso rettilineo, connette arricchendo di senso l’esperienza spaziale. Dona infatti imprevedibilità, scoperta di spazi e monumenti, generandosi da tutto questo il piacere della meraviglia. Ma essendo libero, non irreggimentato, privo di sovrastrutture, rispondente ad una ragione che unisce clima, natura dei luoghi e bisogni, il loro modo di sentire e costruire lo spazio li rende inoltre, pur «colme di disfunzioni, dotate di straordinaria capacità di cambiare, di modificarsi, di adattarsi, di estendersi, di estinguersi, continuando a generare percezioni e esperienze di spazio».
Ma di quali città parla De Carlo? Sono le città mediterranee, quelle, soprattutto lungo le rive sud-orientali di questo grande mare dal quale, insieme al nome, assorbono l’umanità variegata delle sue coste e anche la straordinaria ricchezza e complessità che da esso si genera, dando luogo, nell’incontro-scambio di culture diverse, a feconde fertilizzazioni tra esseri umani e habitat. In un tempo diverso dall’oggi era considerato sacrale questo mare, perché delle genti patrimonio comune; una sacralità generata da una cultura antica, da una tradizione perpetuata nel tempo e da un’appartenenza consolidata da un uso corrispondente e necessario, perché tessuta da rispetto e consapevolezza.
Rispettoso delle sue acque-strade, donava quest’uso inedite fertilizzazioni a Paesi tra loro profondamente diversi per identità umana e culturale, e dunque per storia, sedimentazioni, memorie, costumi, tradizioni: Italia, Spagna, Grecia, particolarmente amata da De Carlo, Africa, Marocco, Tunisia, Algeria, Siria, Turchia, Egitto, Asia, Sicilia, Malta. Mediterraneo è il mare, mediterranei sono i flussi, le merci, gli scambi, le contaminazioni, le tensioni e i conflitti anche, e tragici come quelli dell’oggi.
Ma l’universo sotteso dalle città mediterranee è anche quello rurale, che inurbandosi viene chiamato popolare e il cui mantenimento avrà resistenze diverse in relazione anche alla localizzazione geografica e dimensionale degli insediamenti, mantenendosi infatti più a lungo in quelli medi-piccoli e anche nelle localizzazioni montane. Ed è in essi che è ancora leggibile l’unità organica e complessa del mondo contadino. Come palesa la penisola italiana, da quelli alpini e appenninici a quelli della Sicilia, una organicità, la loro, libera da dogmi, duttile, necessaria perché corrispondente alla natura dei luoghi e a quella dei suoi abitanti, creata da un mirabile sincretismo fatto dalla specificità del suo spazio fisico che sposa frugalità, e condivisione, dimostrando la comunanza e la forza di una cultura nutrita da un passato storico comune – la natura rurale che nelle città soprattutto del sud si intreccia con le migrazioni. E quando inurbandosi, nell’attraversare i diversi tempi storici degli insediamenti e le loro trasformazioni di costume e di costruito, dovrà subire la perentoria arroganza del potere di turno – feudatari, nobili, clero –, cercherà di contrastarla coartando quanto la traduce nel corpo fisico della città: la retta. Si generano le spezzate, i tanti brevi diramati e inclinati tratti rettilinei che spesso cambiando repentinamente direzione mutano formalmente trasformandosi in curve e anche in serpentine avvolgenti.
E testimoniando la forza di una energia che gli viene dalla comprensione e dal rispetto della natura e della terra, avrà vita lunga questa cultura, permanendo in non pochi casi sino ad oggi nella complessa struttura planimetrica e tridimensionale degli isolati.
Ma perché solitamente l’intreccio tra culture-architetture rurali arabe medievali resiste alla perentorietà della retta? In un mio libro ne anticipavo la questione del “controllo” e quindi del suo perché e delle conseguenze che determina. Dicevo dunque nel marzo del 1994 (Quaderni del Dipartimento di Storia e Progetto, Facoltà di Architettura di Palermo, nel 1996 e in Alle soglie del terzo Millennio sull’architettura): la sua matrice per così dire assolutistica appartiene al Cinquecento, secolo di guerra, per il quale diventa l’unico segno che traduce il massimo della difesa e del controllo; così la cosiddetta strada alla moderna rifonda struttura e immagine delle città incidendo nella libera espressività dell’umano e della stessa immaginazione creativa completando definitivamente la distruzione non soltanto della magnifica organicità di tanti tessuti ancora permeati dalla forte impronta medievale ma anche la ghettizzazione, soprattutto in insediamenti mal governate, di quanto è alle loro spalle, cioè la parte consistente della città che viene dimenticata. E questo è quanto accade a Palermo, dove chi abita dietro le sue assiali quinte barocche e del potere vivrà il nuovo come esclusione; chi abita le quinte nega il vecchio, la sua storia. Una lacerazione profonda che investe l’anima della città.
E oggi, nel 2020, Palermo? Quale il suo attuale scenario, o meglio quale cultura emana la sua realtà comunitaria e sociale? Fondata da decenni sullo studio, sull’osservazione attenta e continua e sull’ascolto partecipe della città e dei suoi abitanti, radicale la mia risposta: tranne una minoranza fatta di “veri” intellettuali che investono con passione e continuità le proprie energie per incidere positivamente sull’ambiente nella sua interezza, ciò che vedo lo ritengo più prossimo all’incultura per quel che attiene la cosiddetta massa. Per questo penso che, richiesta dalla grande complessità del mondo attuale, l’azione degli intellettuali dovrebbe essere militante e propulsiva, pari a quella che, colma di tensione visionaria, caratterizzò la prima stagione del dopoguerra; un’azione ininterrotta fondata su un programma profondamente meditato, fecondato dall’incrocio e dallo scambio propositivo di tutte le competenze in gioco.
Guardando alle stelle e non ai propri piedi – come ha sollecitato un gigante del pensiero come Stephen Hawking – le due città metropolitane della Sicilia dovrebbero anch’esse ripensare i loro habitat mediterranei, quelli che ancora conservano grandi potenzialità. Mi riferisco qui agli insediamenti medi e soprattutto piccoli: i borghi. Tessitura e struttura connettiva della Sicilia tutta sul piano territoriale e paesaggistico, incantano i turisti, viaggiatori dell’oggi. Il perché è nel saper vedere appunto la loro ricchezza spaziale fatta di inclinazioni, spezzate, avvolgimenti, scarti di visione continui, tortuosità dei percorsi in unicum con le loro “concrezioni” tridimensionali asimmetriche e dissonanti, costituite da un intreccio di archi, sottopassaggi, anditi ombrosi e improvvisi passaggi di luce e con essi la meraviglia della scoperta.
Ricchi di storia e di potenzialità ignorate, molti in fase crescente di spopolamento e persino di abbandono, essi vanno studiati a fondo, attivando al massimo la sapienza di cui si è ancora, benché raramente, capaci, permeata dall’ascolto e dal saper vedere. Se ne scopriranno la genesi e le dinamiche entro il lungo percorso della storia sino alla loro attuale realtà, dando luce non solo ad un visibile ormai reso inerte ma ancora rivitalizzabile, ma anche ad un invisibile carico di feconde possibilità.
In un’Italia che mi appare oggi nave senza nocchiere in gran tempesta (Dante, “Purgatorio”), si darà così luogo a un’azione progettuale collettiva ricca di senso, condivisa, responsabile perché finalizzata a promuovere la trasformazione di tali insediamenti in micro-poli pulsanti, ecologici e creativi, connessi vitalmente all’ampio sistema territoriale di cui fanno parte. Attuandosi, sulla base di un programma creato dall’apporto competente e dialogante di plurimi esperti, profondamente meditato nelle scelte soprattutto iniziali, nella articolazione delle varie fasi e quindi nei tempi di realizzazione e nei costi, espungendo irresponsabilità e fenomeni di sprechi e corruzione, ritengo che questi piccoli insediamenti, restituirebbero il vero senso del valore culturale di una terra di grande bellezza artistica e paesaggistica che dimostriamo di non meritare. Beni culturali di cui dovremmo andare fieri e la cui rigenerazione, congiuntamente alla risoluzione del gravissimo inquinamento che distrugge la vita, dovrebbe diventare centrale nell’agire. Una scommessa per il presente e anche per il futuro, avendo ben presente che la rigenerazione urbana territoriale, e paesaggistica richiede ancor prima quella umana. Non solo parole, che peraltro non ritengo di avere mai sentito, ma fatti.
E tornando al titolo, rovesciando quindi il cannocchiale con il quale sino ad oggi si è guardato, potrebbe essere questo un incipit fecondo per dare avvio alla feconda esplorazione delle città mediterranee. Ma ampliando lo sguardo al come va l’ordine del mondo oggi, caratterizzato da una disconnessione profonda con l’equilibrio ambientale, essendo continuo il saccheggio delle risorse naturali, la progressiva alterazione del clima e quella altrettanto progressiva dell’inquinamento, una domanda mi nasce infine, la stessa che si coglie in un recente e importante libro di Parag Khanna (Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi editore, 2016). Sarà possibile annullare questo iato? In fondo è questo il tema che l’Antropocene ci pone, scrive Parag Khanna, e aggiunge passando al ‘come’: «dovremmo promuovere una nuova modernità capace di piegare la tecnologia ad una politica che metta al centro sia la questione sociale della disuguaglianza e dell’accoglienza, sia la questione ambientale».
Ecco perché l’imparare da quanto costituiva il DNA delle città Mediterranee, può essere utile. Dotate di una vita complessa, in esse la forma dello spazio costruito e tutti i fatti e i fenomeni connessi al vivere sono legati da uno stretto rapporto di correlazione (dai suk di Tunisi al mercato palermitano di Ballarò). E ancora negli anni Settanta del Novecento, soprattutto in quelle di media o piccola dimensione, non erano i confini amministrativi e naturali a prevalere, ma connessioni e filiere, legati ad un vivere permeato da una miscela fatta dalle feste, dalle processioni, dalle fiere. Si creavano in tal modo i nodi del paesaggio. Una ritualità necessaria che creava nodi coerenti con la peculiarità dell’ambiente naturale, fisico, storico, nel quale sorgevano e si svolgevano. Un processo questo i cui ‘autori’ erano attenti a leggere il territorio in cui si insediavano con l’insieme delle sue componenti fisiche ed antropiche, e lo trasformavano in luogo, vivendolo e pertanto usandolo e cambiandolo in base alle loro esigenze, con un mestiere virtuoso che andava man mano maturando con la verifica e il superamento dell’errore, e contemporaneamente creava vincoli, legami, relazioni. Gli conferivano quella organicità che è coerenza con i ritmi della natura, subordinando il fine allo scopo supremo costituito dal cosiddetto “bene comune”. Era il loro codice etico pregno di sapere ecologico. Un agire profondamente diverso dalla attuale tecnologia che non mira a conoscere le “leggi immutabili della natura”, ma, al contrario, a manipolare la sua mutevolezza.
Occorre per questo il vedere autentico che esige uno scavo faticoso, lento, capace di girare e rovesciare il “cannocchiale” dentro i meandri millenari degli organismi urbani e territoriali. Lo aveva messo in atto Giuseppe Pagano nel 1934, quando allestisce alla Triennale di Milano la mostra Architettura rurale del Mediterraneo dalla quale emerge un grande patrimonio spiegato attraverso il perché e il come della sua logica costruttiva mai inerte, e pronta a cambiare evolvendosi sia pure lentamente, essendo fondata sul legame profondo con gli elementi della natura e le risorse della terra, entrambi mutevoli. Ritrovandovi ciò che al contrario manca in una architettura interessata solo alla forma, si tradurrà in Giancarlo in una lunga ‘metabolizzazione’, che trova un suo primo momento di esplicitazione nel 1951 con la sua Architettura spontanea, mostra anch’essa alla Triennale, seguita tre anni dopo da quella sull’urbanistica, insieme a Carlo Doglio e Ludovico Quaroni, tese entrambe ad evidenziare l’incapacità e l’arroganza anche degli urbanisti la cui azione come quella degli architetti, non coglie – afferma – gli effetti negativi sulla vita umana determinati da un pensiero ancora non svincolato dall’«existenz minimum e dallo zoning».
Si dirà: un passato e tempi storici lontani. E tuttavia, seppur diversi dall’attuale, si caratterizzavano come oggi da scenari di grande difficoltà: la tragedia dell’attuarsi dello scellerato patto tra Mussolini e Hitler, il 1935; la frugalità e un mondo nuovo da ricostruire richiesti dal dopoguerra, così diverso dall’attuale consumismo e liberal-capitalismo che ha ridotto gli esseri umani in merce coatta dominata dalla finanza e dal mercato, il 1951. Emergerà dalle attente esplorazioni di questi due architetti, pregni di valori e di visione – Pagano e De Carlo –, un grande patrimonio spiegato attraverso il perché e il come della sua logica costruttiva mai inerte e pronta a cambiare evolvendosi sia pure lentamente, essendo fondata sul legame profondo con gli elementi della natura e le risorse della terra, entrambi mutevoli.
Ma ripensare e quindi studiare con una rinnovata consapevolezza le città mediterranee non con uno sguardo nostalgico o mitizzatore, entrambi negativi, richiede umiltà e cura profonda dei luoghi con i quali ci si confronta nel loro presente e nella loro storia che va compresa, rispettata e attualizzata senza mai perdere di vista che l’architettura essendo strumento finalizzato a migliorare le condizioni umane deve ‘voltare le spalle’ a autonomia, specializzazione, dogma, gerarchia, rapporti astratti, stili e forme preconcette, a favore di una logica razionale profondamente umana e radicata nelle specificità dei luoghi, per continuare a interpretare la società che, come avvertiva De Carlo nel 2004, «diventerà una civiltà multietnica, multi-colore; quella occidentale farà fatica ad arrivare a questo stadio, sarà doloroso e non semplice, ma ci arriverà. Sostituita da fenomeni di movimento interno molto complessi e probabilmente turbolenti, la società tenderà a non avere struttura. Le persone che sbarcano ad Otranto diventeranno italiani, porteranno un’altra cultura che si integrerà con le altre; del resto ad Otranto erano già sbarcati tanti secoli fa altre persone e hanno fatto poi la Cattedrale del mondo che è uno dei grandi capolavori del mondo».
Nel concludere infine questa mia riflessione, generata dall’impegnativo tema posto da Giancarlo De Carlo, ritorno a quanto è nell’oggi, grave a tal punto da spingere studiosi e scienziati riconosciuti nel mondo per la loro autorevolezza culturale ad affermare la prossimità di un collasso del pianeta-terra segnato da una desolazione ambientale, urbana, sociale, che trae parte prevalente, se non tutta, dallo iato con le dimensioni etica ed ecologica, ambedue cardini della vita umana. Sufficiente accennare al terribile inquinamento in cui tutti viviamo, la cui responsabilità per l’attuale tragica pandemia generata dal coronavirus sembrerebbe da non escludere.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
[*] Questo testo ripropone il senso della mia riflessione sullo scritto che Giancarlo de Carlo consegna a Domus dal titolo Tortuosità in Giancarlo De Carlo. Il progetto come eredità, a cura di Monica Mazzolani e Antonio Troisi, Euromilano, Milano 2020.
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Antonietta Iolanda Lima, architetto e professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo, ha insegnato conoscenza e rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nei decenni 60-70 anche l’elaborazione progettuale, poi lasciata, seppur con dolore, dando priorità alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura, promotrice di numerose mostre ed eventi, autrice di saggi, volumi e curatele, tra i quali meritano di essere ricordati: L’Orto Botanico di Palermo: intreccio tra mondo vegetale e mondo architettonico, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio,1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. contemporanea Monacelli Press, New York, – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002 (anno mondiale di Gaudì); Soleri. La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (ital./inglese); Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.
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