Probabilmente Walter Benjamin era pienamente consapevole che la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, perduta l’aura, avrebbe generato la fotocrazia di oggi, la dilagante pervasività della fotografia, una pratica di massa, a portata di tutti, avendo ognuno nelle proprie tasche il magico feticcio di produzione e consumo delle immagini. Susan Sontag ha parlato, fin dalla prima pagina del suo fondamentale studio Sulla fotografia, della «insaziabilità dell’occhio fotografico» che «modifica le condizioni di prigionìa in quella grotta che è il nostro mondo». «Il fotografare – ha aggiunto – ha instaurato con il mondo un rapporto voyeuristico».
Mai come oggi nell’era dell’autocontemplazione narcisistica l’affermazione della Sontag appare inverata nella irresistibile irruzione dei selfie, la cui proliferazione virale ha trasformato cellulari e palmari nei più potenti veicoli e prolungamenti del nostro ego. La rivoluzione digitale ha indubbiamente favorito la mutazione del sobrio autoscatto nella diffusa abitudine di postare la propria immagine sui social network, fino a degenerare nel compulsivo esercizio della cosiddetta “selfite”. Ma al di là degli effetti dirompenti della fotocamera retroversa che rompe il contatto tra occhio e mirino e ci consente di essere nello stesso tempo oggetto e soggetto dentro lo stesso fotogramma, le nuove tecnologie hanno radicalmente liberalizzato l’uso del mezzo, estendendone e moltiplicandone le potenzialità democratiche ma anche i rischi connessi all’abuso, alla overdose, all’ipertrofia. Se è vero che la fotografia è in tutta evidenza immagine, è anche vero che non tutte le immagini sono fotografia.
Con l’essere diventati tutti fotografi – o come dice qualcuno “fotografanti” – la fotografia, che è un formidabile specchio delle trasformazioni non solo del mondo ma soprattutto del nostro sguardo sul mondo, conosce in tutta evidenza una metamorfosi della sua natura, del suo statuto, dell’orizzonte di senso, della sua semantica. Nel tempo della post-fotografia le immagini, del tutto smaterializzate, non sono più di carta né passano più di mano in mano, nessuna parete è più necessaria nell’età del web, nessun album familiare le raccoglie, nessuna teca o cornice le ospita esistendo e vivendo solo nello spazio virtuale della “realtà aumentata”, nelle pagine liquide ed effimere dei social. Le immagini scorrono davanti ai nostri occhi nel loro rapido e concitato susseguirsi e spesso non riusciamo a fermarne nella nostra memoria un solo fotogramma. Viviamo talmente immersi nel loro culto che finiamo col costruire tante e infinite realtà che si sovrappongono a quella esistente, al punto da sostituirla del tutto. Se il mondo si frantuma in uno straordinario ed evanescente caleidoscopio di immagini e le immagini surrogano la realtà, diventano mondo, la realtà non esiste più per se stessa, ma esiste in quanto rappresentata e riplasmata nelle diverse e innumerevoli forme della sua riproducibilità.
Già Feuerbach nel 1843 scriveva che la nostra epoca «preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essenza». Oggi, nell’ansia voyeuristica di vedere per esserci, di fotografare per postare, di produrre immagini per consumarle, la saturazione visiva produce assuefazione, banalizzazione, ottundimento. E quando la ricerca e la fruizione inciampano in istantanee di orrore o di morte l’emozione sembra soverchiata e sopraffatta dalla seduzione mediatica, dalla accelerazione del flusso, dalla moltiplicazione iperrealistica di frammenti del mondo. In questo scenario convulso e confuso 1a fotografia corre il rischio di morire soffocata dall’eccesso, dalla ripetitività, dal surplus di dati e di elementi eterogenei che si sovrappongono alla realtà esperita. E l’immagine in quanto tale si fa opaca e muta, sbiadisce e perde di vista il suo referente, annega nella virale indistinzione delle figure immesse, proiettate e imbrigliate nella rete.
Nelle magistrali Lezioni americane Italo Calvino, già negli anni ottanta del secolo scorso, si chiedeva quale sarebbe stato il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare «la civiltà delle immagini», si domandava cioè
«se il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate». «Una volta – aggiungeva lo scrittore – la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a un ridotto repertorio di immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità di immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi di immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo».
Le intuizioni di Calvino anticipavano gli esiti di una precisa tendenza orientata a modificare in profondità la cultura visuale, il nostro modo di vedere, di percepire, di conoscere la realtà attraverso lo sguardo nello spazio mediatico della comunicazione contemporanea. A fronte di questa prospettiva la fotografia finisce col generare meta-immagini, immagini di immagini, feticci carichi di densi riverberi emotivi e intenzionali, dal momento che sfumano i confini tra sfera pubblica e privata, tra la vita online e quella offline, tra connessione e partecipazione. Se gli universi con i loro diversi codici sono abitati e vissuti simultaneamente e, a volte, interscambiati, confusamente mescolati, allora nella fotografia l’antico e contraddittorio rapporto tra realtà e rappresentazione diventa sempre più complesso, ambiguo e problematico, si fondono e si confondono verità e artificio, verosimiglianza e finzione, la cosa e l’ombra della cosa. Da qui la necessità di ripensare le categorie analitiche della fotografia, di abbandonare letture essenzialistiche ed esegesi meramente formali, di superare definitivamente il mito positivistico della fedele riproduzione del reale e del meccanico rispecchiamento del mondo, di approfondire teoria e pratica della rappresentazione fotografica a partire dagli aspetti connessi alle poetiche e alle politiche dello sguardo.
«L’occhio – ha scritto David Le Breton – non è innocente, arriva di fronte alle cose con una storia, una cultura, un inconscio (…). Vedere non è il calco di qualcosa di esterno, ma la proiezione fuori di sé di una visione del mondo (…). Ogni società traccia le frontiere del visibile e dell’invisibile, di ciò che conviene vedere e di ciò che sfugge all’occhio, e stabilisce le categorie visive che sono innanzitutto categorie mentali».
Ovvero categorie culturali. Lo sguardo è dunque il vettore connettivo tra soggettività e datità del mondo, il medium attraverso cui passa il riconoscimento della realtà, la transizione dall’esperienza alla conoscenza. Ripensare le poetiche e le politiche dello sguardo non può non implicare le questioni antropologiche che stanno alla base dei paradigmi visuali, non può non postulare una revisione dei presupposti etnografici che orientano interpretazione e comprensione dei soggetti e dei contesti della cultura osservata. Nella consapevolezza critica che «la fotografia accanto alla funzione evidenziatrice, ne possiede un’altra, quella del nascondimento dell’oggetto», Francesco Faeta a questi temi ha dedicato gran parte del suo lavoro di antropologo impegnato in una continua ricerca dei modelli di decodifica delle immagini, del loro ruolo centrale nei processi di conoscenza e di traduzione della realtà, delle loro convenzioni formali e semiotiche.
Della fotografia, che come lo sguardo nel rivelare non può fare a meno di occultare, nel segmentare lo spazio e il tempo non può fare a meno di elidere e di omettere, Faeta conosce a fondo la grammatica e le virtualità euristiche sul terreno antropologico. Ne ha individuato i tratti strutturali, non solo «l’indiscutibile potenza analogica» ma anche quella simbolica, «l’apporto determinante dell’autore, del mezzo tecnico, del campo di interazione formale offerto dalla situazione fotografica», così che «lungi dall’essere denotata, appare insieme debolmente e ridondantemente connotata». In questo orizzonte teorico-metodologico può, in definitiva, configurarsi «metafora del nostro lavoro scientifico, di un’attività di costruzione intellettuale che non può prescindere dal mondo sensibile e dalle regole di rapporto e relazione».
Tutto questo almeno fino a quando la fotografia è stata esito di procedimenti ottico-chimici. Oggi la composizione per pixel unitamente alla massiva accessibilità e visibilità del mezzo hanno modificato produzione, fruizione e consumo, quel sistema di relazioni che faceva delle immagini una forma di comunicazione diversa dalla scrittura.
«In un futuro prossimo – scriveva Faeta nel 1993 – pur nella loro peculiarità si assimileranno ad essa, divenendo un particolare tipo di scrittura, una sorta di pittogrammi, di cui occorrerà comprendere a fondo i criteri di funzionalità all’interno del discorso antropologico». «D’ora in poi – aggiungeva – l’immagine tenderà a divenire totale, assoluta, entropica, a sovrapporsi alla realtà e a scacciarla, (…) a essere modello di un mondo virtuale, non di un mondo esperito».
Se Francesco Faeta ha con lungimiranza ragionato sul dialogo tra fotografia e scrittura nei processi in divenire delle culture digitali, Rosario Perricone ha appena pubblicato su Sellerio Oralità dell’immagine. Etnografia visiva nelle comunità rurali siciliane, un volume che ripropone le questioni antropologiche intorno alle interazioni sempre più complesse e tecnologicamente scaltrite tra oralità, iconicità e scrittura. Muove l’autore dalla decostruzione critica della convenzionale opposizione teorica che resiste in larga parte della tradizione degli studi antropologici tra le diverse forme di comunicazione. Riprende e sviluppa «le ragioni dello sguardo» fondanti della ricerca etnografica e, nel passare in rassegna un’ampia letteratura di riferimento, mette al centro del suo lavoro gli snodi e gli intrecci semantici che legano in un costrutto densamente simbolico le parole e le immagini, gli accenti e le figure, le voci, i segni e le visioni. Attraversando percorsi diversi, dalla filosofia alle neuroscienze, dalla fenomenologia alla semiotica, Perricone offre una feconda riflessione sulla permeabilità e artificiosità dei confini tra la cultura scritta, quella orale e quella visuale. Culture che l’antropologia deve imparare a riconnettere e a rileggere nel quadro unitario dell’azione umana, nel continuum dei processi conoscitivi e dei linguaggi empirici e scientifici.
Intorno alle tradizionali antinomie: realtà/rappresentazione, mente/ mondo, mythos/logos, l’autore è impegnato a disarticolare le cesure categoriali e gli schemi concettuali, a coniugare dialetticamente quanto vecchie ideologie e pigrizie intellettuali tendono a separare e ad opporre. Così le immagini non sono soltanto immagini ma come le parole – dette o scritte – posseggono proprietà agentive, performative, interattive. Così «l’espressione orale non è mai solo verbale, ma è uno stile di vita “verbomotorio”, che coinvolge il corpo intero dell’individuo in ogni attività», se è vero, come sostiene Merleau-Ponty, che il punto di partenza del nostro essere nel mondo è la percezione e questa è per sua natura sinestetica, associando all’interno di un’unica esperienza sfere sensoriali diverse. Così il mito è un «mostrare per immagini»., non una forma secondaria o minore di accesso alla conoscenza ma essenziale e complementare nella prassi linguistica e nell’interazione mente-mondo.
Tutto sembra confluire e spiegarsi nelle dinamiche naturali e culturali della comunicazione perché, come ha scritto Antonino Buttitta, «tutto ciò che l’uomo produce esiste nella comunicazione e nella organizzazione mentale dei dati sensoriali che la promuovono e la attuano, è nella mente che ne vanno ricercate le regole». Ed elemento costitutivo e peculiare della specie è la sua vocazione narrativa, quel paradigma della narratività che sta a fondamento filogenetico degli universali delle culture umane. In questo senso le fotografie sono racconti per indizi, ponendosi al punto di incrocio e di coagulo di oralità e scrittura, sono “opere aperte”, intrinsecamente incomplete, dal momento che postulano un dialogo, una dialettica tra la realtà, la sua rappresentazione e la lettura del fruitore. Nessuna fotografia esiste davvero se lo sguardo fissato tra l’occhio che guarda e la mano che preme non incontra altri sguardi che la interrogano, altre voci che la spiegano, altre storie che la plasmano.
«Connettendo il rappresentato al vissuto, il soggetto fotografato al contesto sociale, la biografia dei testimoni (ovvero i possessori delle fotografie) alle modalità di committenza e fruizione, si riesce a precisare – scrive Perricone – la densità delle relazioni a cui queste immagini rinviano. L’analisi di un corpus fotografico non può infatti essere condotta solo sulla base della enunciazione visiva delle immagini, ma deve ricercare connessioni tra le diverse vicende che l’immagine ha attraversato (produzione, trasmissione, fruizione). È nella sua “storia di vita”, nel suo passare da una generazione all’altra, da un certo tipo di rappresentazione di relazioni a un altro, che queste fotografie rivelano in pieno il loro essere un particolare tipo di “oggetto biografico”, capace di sollecitare narrazioni attraverso il ricordo dei suoi possessori».
Prolungamento dell’occhio umano e organo di ampliamento delle facoltà di percezione del comune osservatore, potente dispositivo di presentificazione di ciò che è assente o lontano nello spazio e nel tempo, il mezzo fotografico per sua natura si colloca sul doppio versante della ricognizione più o meno minuziosa del reale e della sua puntuale e contestuale trasposizione simbolica. Il passaggio da oggetto a concetto è simultaneo.
«Superando la prospettiva riduttiva che vorrebbe ricondurre la riflessione sulla fotografia alla sola verifica della funzione di certificazione dei fatti, si può dire – precisa Perricone – che la fotografia non già nei fatti ma nella rappresentazione dei fatti ha il suo vero punto di riferimento e che pertanto l’analisi delle forme della rappresentazione e dei suoi contenuti è il modo di riflettere sulla fotografia».
È la referenza a notificare lo specifico del dispositivo ottico, ma è il discretum di quel continuum spaziotemporale catturato dall’obiettivo a dirci il senso di quell’immagine, che è costitutivamente specchio non della vita ma della memoria della vita. Su questa ambiguità strutturale della fotografia valgono per sempre le osservazioni di Barthes, il quale proustianamente ci ricorda che non si può possedere il presente ma solo il passato e che «ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. Essa è il particolare assoluto, la contingenza suprema».
Al di là della mistica dell’attimo irripetibile, il fotogramma rende oggettivamente conto di un evento realmente vissuto e irrimediabilmente passato, riattualizzandolo in una dimensione metaforica e atemporale. Quell’attimo che fa della fotografia un frammento materiale della memoria, un veicolo privilegiato della funzione rammemorativa, lo ha perfettamente descritto Gesualdo Bufalino:
«Perché la riproduzione fotomeccanica, ancorché serbi un che di demoniaco e vizioso, nel suo irrigidire il flusso eracliteo delle cose, violando una legge che sentiamo sacra – l’irrevocabilità del tempo – possiede sempre, a dispetto di ciò, un di più di vita rispetto alle altre forme d’arte che mimano manualmente, fosse pure con minuzia fiamminga, il reale. Possiede cioè un drammatico, ineguagliabile valore aggiunto: il sentimento che quell’attimo è stato; e che è stato proprio così».
Come accade per ogni immagine riflessa, sulla mutevole superficie dell’acqua o su quella luccicante e ingannevole dello specchio, la fotografia che restituisce il sentimento del tempo consumato è oggetto fortemente ritualizzato, carico di inquietanti valenze magiche e simboliche. Così, la straordinaria rassomiglianza della rappresentazione con il soggetto rappresentato attiva quelle logiche e pratiche identificatorie fondate sulla nota formula demartiniana del «come se». Ciò che stato fotografato appare cosa non diversa dal suo concreto referente. A livello delle strutture profonde, espressione e contenuto, significante e significato, visibile e invisibile s’identificano, si sovrappongono, si confondono. L’immagine fotografica, come quella dei santi dipinti nelle icone o incisi sulle stampe devote, vale per se stessa, in quanto segno di se stessa. E come quella è codificata nella stereotipìa dei modelli di rappresentazione, investita della medesima aura di sospensione e di sacralità.
Rosario Perricone si concentra nella parte più interessante del suo volume sugli usi e sui significati che la fotografia assume nella cultura popolare e nell’antropologia visuale. Indaga sugli archivi e sulle collezioni private, sugli album familiari, sulle foto ricordo e sui ritratti, sui riti di passaggio del ciclo della vita tradizionale celebrati attraverso le immagini. Più che sulla documentazione raccolta dagli etnografi, l’autore dedica la sua attenzione alla produzione realizzata da dilettanti e professionisti, titolari di studi stabili o semplici ambulanti, assai diffusi in Sicilia già alla fine dell’Ottocento. Della realtà contadina meridionale questi fotografi ci hanno consegnato un quadro complessivo dai tratti iconografici abbastanza uniformi. L’universo di uomini, donne e bambini fissati per sempre sulle loro lastre al bromuro rinvia a un rigido e ripetitivo sistema di rappresentazione, a un diligente repertorio di convenzioni formali che sovrintende ai loro modi di apparire e di atteggiarsi davanti alla magica palpebra di vetro.
È noto che nel mondo popolare la fotografia è intesa come mezzo d’incantamento in grado di sequestrare nella camera scura la parte più intima della vita dell’individuo, rappresentando una vera e propria minaccia per la stessa identità individuale. Pertanto essa è temuta e rispettata, necessita di essere controllata e occultata, governata e protetta. Da qui il bisogno di codificarne l’impiego, di organizzarlo secondo regole coerenti, attraverso moduli sperimentati, in corrispondenza a determinate empiriche funzioni. Sulla diffusa convinzione che «farsi fotografare significa perdere la propria anima», Giuseppe Cocchiara annotava nelle pagine de Il linguaggio del gesto del 1932 la reazione di un vecchio siciliano che ha ceduto la sua immagine solo dopo aver neutralizzato con un prescritto gesto apotropaico «qualsiasi male che gli si volesse arrecare». Anche Sciascia ha scritto della «popolare superstitio nei riguardi del ritratto fotografico: come un consegnarsi a mano d’altri: al destino, alla morte, a Dio. E all’ignoto se stesso». Per certi aspetti a connotare l’uso della fotografia nella società contadina valgono le stesse norme che orientano la fruizione delle forme tradizionali d’arte popolare. Ogni immagine, volta a rappresentare uno stato, a ribadire un ruolo, a notificare un potere, a testimoniare un evento, sembra infatti passare al vaglio della “censura preventiva collettiva” prima di essere accolta e riconosciuta dalla comunità.
Proprio per quel che di reticente è fatalmente contenuto in ogni posa, l’immagine di questa umanità che guarda con gravità dalle piccole e sobrie finestre di carta aperte sul nostro passato ci illumina sui modelli culturali di riferimento, ci ragguaglia sui complessi processi di percezione visiva e di pubblica attestazione dell’identità individuale. Quanto più il ritratto è studiato, pensato, “posato”, tanto più diventa significativo il “figurare” del soggetto, tanto più si dilata lo spessore antropologico della fotografia. Quando nulla è lasciato al caso e ogni segno viene disposto secondo un preciso ordine intenzionale, l’immagine si offre come un palinsesto, una straordinaria mappa di simboli e metafore, la cui lettura attenta e puntuale può riservare feconde epifanie. Come nei ritratti dei pittori, anche nei dagherrotipi di fine secolo i tempi di posa sono lunghi e accurati, e come per quelli il rituale elaborato mette in gioco le ragioni dell’identità personale nel sistema delle relazioni sociali. Ma se nelle rappresentazioni dell’arte pittorica è possibile cogliere la celebrazione dei soggetti raffigurati, la sanzione compiacente del loro potere, nei ritratti fotografici dei contadini e dei gruppi parentali si avverte una totale assenza di enfasi e di sussiego, un linguaggio asciutto e sommesso, una statica dignità.
Nato e diffuso in ambito borghese, il ritratto fotografico è in tutta evidenza la forma più compiuta di costruzione e autoaffermazione del sé, la ratifica iconica della condizione sociale, il medium della modernità che comunica prestigio, dignità, riconoscibilità. In ambito popolare, la struttura della posa, mentre obbedisce al bisogno di superare il disagio di chi è consapevole di esporsi ai rischi dello sguardo altrui, vale a rassicurare e sostenere, veicola valori e messaggi, dà ordine e significato al rapido fluire degli eventi. Così, per fare un esempio, la fotografia di un soldato in alta uniforme sottolinea e ritualizza il passaggio a un nuovo status, e la fierezza che a volte traspare dal linguaggio del corpo atteggiato ha forse lo scopo di occultare, assieme ai pericoli connessi all’esperienza della guerra, ogni traccia della subalternità della classe sociale di appartenenza. Il monile esibito, la sigaretta tra le dita, i guanti stretti nel pugno, la catena dell’orologio da taschino in bella evidenza sono questi alcuni dei segni ricorrenti finalizzati ad attestare o a simulare uno stato di agiatezza, di benessere, di sicurezza economica.
Nelle foto dei gruppi familiari estesi, la disposizione dei componenti rispecchia, col rigore di un sociogramma e l’efficacia della prossemica, gerarchie e genealogie stabilite all’interno del nucleo. Che il capofamiglia si erga al centro e attorno a lui si stringano tutti gli altri membri parentali, è rappresentazione paradigmatica volta a ribadire l’ordine e la geografia interna alla struttura tradizionale della famiglia patriarcale. La sedia vuota, posta talvolta in primo piano, segnala vistosamente l’assenza, è metafora esemplare della fedeltà e della devozione coniugale che tenacemente resiste nonostante i lutti, le perdite, le distanze, le vicissitudini della vita. La mano poggiata con ostentazione formale sulle spalle della persona vicina denuncia alla comunità il vincolo istituito, esplicita il legame di affetto, di possesso o di protezione dal lampo inquietante del flash, ne rafforza cerimonialmente il valore, lo suggella per sempre.
Il corpus fotografico analizzato da Rosario Perricone offre un’ampia documentazione della rilevanza antropologica delle immagini raccolte nelle collezioni private, in quel prezioso e ancora largamente inesplorato fondo costituito dagli album familiari, umili teche delle reliquie autobiografiche ma anche veri e propri archivi della memoria collettiva. Ordinatamente incollate sulle pagine o sparse dentro scatole di cartone o di latta, le fotografie sono imago mundi, frammenti riepilogativi della brulicante trama della vita nelle sue scansioni quotidiane e rituali. Nei ritratti, anche in quelli più raggelati e stereotipati, per quel che di pubblico si conserva in ogni immagine privata, scorre silenziosa e involontaria, come in un fiume carsico, la storia degli uomini, dei loro gusti, dei loro costumi, dei loro gesti, del loro immaginario.
Degli album fotografici, di questi particolari “oggetti di affezione” che narrano storie di vita e restituiscono i volti, le voci e le presenze familiari e domestiche forse non si può dire meglio di quanto ha scritto Gunter Grass ne Il tamburo di latta:
«Custodisco un tesoro. In tutti questi anni grigi fatti soltanto del susseguirsi dei giorni del calendario, l’ho custodito, tenuto nascosto e ogni tanto tirato fuori per guardarlo, durante il viaggio nel vagone merci me lo stringevo gelosamente sul petto, e quando dormivo Oskar dormiva sul suo tesoro, l’album di fotografie. Cosa farei senza questa tomba di famiglia, che tutto spiega, e che è lì aperta in piena luce? Sono centoventi pagine. Su ogni pagina sono incollate quattro o sei, qualche volta soltanto due fotografie, una accanto e sotto all’altra, ad angolo retto, accuratamente distribuite, ora osservando e contestando la simmetria. È rilegato in cuoio e quanto più invecchia, tanto più sa di cuoio. Ci furono periodi in cui l’album fu esposto all’insidia delle intemperie. Le fotografie si staccavano, mi inducevano a cercar quiete e occasioni per incollare di nuovo al giusto posto le immagini che minacciavano di andare smarrite. Che cos’altro al mondo, quale romanzo avrebbe mai l’epico respiro di un album di fotografie? Voglia il buon Dio, il quale da assiduo fotografo dilettante ogni domenica ci ritrae con luce più o meno buona dall’alto, facendo così di noi immagini terribilmente scorciate che incolla poi nel suo album, voglia il buon Dio, (…) offrirmi una guida sicura attraverso il mio album».
Nello spoglio delle immagini Rosario Perricone ha annotato che la maggior parte sono scattate a futura memoria, documenti di esperienze migratorie o belliche, di lontananze sofferte e di dolorosi distacchi. Rispondono al bisogno di annullare le distanze fisiche, di vivificare il tempo dell’attesa, di surrogare il vuoto insopportabile dell’assenza. Comunicano la propria esistenza ai parenti lontani, facendo a volte ricorso al fotomontaggio nel tentativo di ricongiungere ciò che le necessità della vita tengono separato. Sono le cosiddette “metafotografie”, che possono anche presentare una foto nella foto, come figura vicaria dell’assente. In questo caso il ritratto del soggetto lontano all’interno di un altro ritratto diventa un formidabile ponte che accende un raffinato gioco di rimandi e accentua il valore simbolico dei rapporti familiari.
«Queste immagini – scrive Perricone – hanno una funzione mediatrice tra la momentanea lontananza e la definitiva scomparsa. Certificando la presenza del definitivamente assente, che diventa perennemente presente, attraverso la ricomposizione simbolica della famiglia. Non a caso le foto delle persone lontane sono spesso mescolate con quelle dei defunti, a significare che la morte nell’immaginario popolare è vissuta come un evento “culturalmente plasmabile” e non irreversibile, quasi un allontanarsi momentaneo».
Che la fotografia sia incaricata di sfidare e oltrepassare non solo lo spazio ma anche il tempo, che abbia cioè a che fare con la morte, allo scopo di far “durare” i defunti nel regno dei vivi, le loro anime all’interno delle abitazioni, è dato culturale che rinvia al sostrato arcaico dell’ideologia popolare della morte, a pratiche antiche che «mischiano “divinità” e “antenati” entro un unico paradigma rituale». Funzioni devozionali e istanze commemorative si rendono indistinguibili, segni sacri e profani si sovrappongono, effigi di santi e di persone care convivono in piccoli altari innalzati sui canterani o sospesi alle pareti, nella camera da letto, laddove si concepisce la nuova vita e si origina la famiglia. E sul corpo delle donne, appeso al collo come un talismano, è costume portare un medaglione con il ritratto del caro defunto, unitamente ad una immaginetta sacra: un modo di incarnare, incorporare e “indossare” la religione della memoria.
Non c’è forse nulla più della fotografia che valga a interpretare e materializzare il senso ultimo della memoria. «Nulla è più vicino all’abolizione del tempo, tra le rappresentazioni che l’uomo sa dare della propria vita, della fotografia; ma al tempo stesso, nulla ne è più lontano. È come la palla di gomma, che tocca il muro ma ne rimbalza lontano, magari a sperdersi (…). Per abolirlo o per fermarlo, per abolirlo fermandolo, la fotografia si può dunque dirla una guerra contro il tempo». Così Leonardo Sciascia ha acutamente definito il valore testimoniale della fotografia che nell’attestare l’inesorabile azione dissolvente del tempo ne consente tuttavia l’oltrepassamento nella conversione simbolica operata dalla memoria figurale. Gli uomini, le donne e i bambini che ci guardano con la gravità delle loro posture e la severità dei loro volti ritornano a vivere ogni volta che i nostri occhi incontrano i loro, ogni volta che il nostro orecchio si china ad ascoltare le loro voci, ogni volta che le nostre labbra sillabando i loro nomi rievocano le storie rapprese e custodite nelle loro immagini. Nella cosmogonia di una cultura al tramonto queste fotografie, affidate non alla fugacità di un effimero consumo ma alla persistenza di un vero e proprio corpo di memorie, sono ancora cariche di nobiltà, sono eminentemente umane, sono – direbbe Antonino Buttitta – «figure di uomini e non hommes par la figure».
Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
______________________________________________________________
Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. La sua ultima pubblicazione è la cura di un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (2015).
_________________________________________________________