per roberto
di Lorenzo Castellana, Nieta Gennuso, Riccardo Rizzitello [*]
1. Ho avuto la fortuna di conoscere Roberto sin dalla sua adolescenza, io qualche anno più grande di lui, e di avere seguito e condiviso diversi momenti della sua esistenza, in una relazione segnata da stima e rispetto reciproco.
Già allora, quello che colpiva di lui era l’istintivo desiderio di conoscenza e la vivacità intellettiva, che lo portavano a relazionarsi facilmente con soggetti più grandi di età, manifestando interessi e passioni non comuni e poco convenzionali. Come quando Roberto, appena adolescente, si unì alla nostra compagnia più adulta per trascorrere la nottata in una tenuta di campagna di Sclafani Bagni e seguire il passaggio delle vetture del Rally della Targa Florio. Alla decisione di alimentare il fuoco del camino con una raccolta di vecchie riviste e qualche libro appartenente agli avi del proprietario della tenuta, seguì il suo ostinato tentativo di proteggere dal rogo quella preziosa testimonianza di conoscenza. Ci provò in ogni modo, prima nascondendo i volumi, poi insistendo per poterli portare con sé. Ma nulla servì a far cambiare la decisione e quella che doveva essere una serata di baldoria ed allegria si trasformò per Roberto in una sconfinata tristezza alla vista della carta che diventava cenere. Fu allora che anche i più insensibili posero fine a quell’inutile scempio, colpiti da quella appassionata quanto per loro incomprensibile difesa.
Roberto coltivava già allora un peculiare interesse per le lingue e per le parole, specie quelle dialettali della cultura e della tradizione agricola e pastorale, per i suoni e le declinazioni nelle diverse cadenze fonetiche. Da lì a poco iniziarono le sue ricorrenti “interviste”: quelle piacevoli discussioni che intratteneva spontaneamente con tanti personaggi, soprattutto anziani, di Caltavuturo, e successivamente di tanti altri paesini madoniti. Aveva l’intuito di individuare i soggetti in grado di stimolare la propria curiosità, con cui entrava immediatamente in un rapporto spontaneo e coinvolgente di confidenza ed empatia, che gli permetteva di conquistare il suo interlocutore e di indurlo a trasmettergli testimonianze di vita e saperi prossimi alla scomparsa, come si affidano i propri beni più preziosi ai propri cari perché li custodiscano e li tramandino alle successive generazioni. Quell’enorme quantità di appunti raccolti avrebbe costituito materiale prezioso per molte delle sue future pubblicazioni, il cui valore scientifico e didattico sarà unanimemente riconosciuto ai più alti livelli accademici.
La poliedricità di Roberto e la sua straordinaria versatilità lo portarono a legare mondi diversi, accostando sempre più la ricerca linguistica e dialettale alla musica, al canto ed alla recitazione. La sua iniziale passione per la musica contemporanea, specie per il rock e le sue contaminazioni con la musica etnica e folk (i Jethro Tull erano tra i nostri preferiti) si trasformò nel tempo in un campo fertile di approfondimento e ricerca appassionata. Roberto aveva, inoltre, una voce profonda e potente dal timbro particolare e prontamente riconoscibile, ed anche a livello ritmico e strumentale se la cavava. E gli piaceva anche recitare, era portato pure per quello.
Non ci fu band musicale a Caltavuturo, o iniziativa nel campo culturale e teatrale dalla fine degli anni 80 in poi, che non vedeva coinvolto Roberto e le sue idee, le sue conoscenze e le sue performance. Ogni occasione era buona per aggiungere al divertimento e allo svago l’arricchimento culturale che promanava dalle sue intuizioni e dalle sue proposte. E quella che da ragazzo poteva apparire come forma di sano egocentrismo, ottenne nel tempo un deferente rispetto e ammirazione da parte dei suoi interlocutori più giovani, cui Roberto si rivolgeva sempre con la massima disponibilità ed umiltà, con modi accattivanti ed argomenti mai banali in grado di ipnotizzare l’interesse dell’interlocutore.
Un capitolo che cementò ancor di più la nostra amicizia, fu la comune esperienza amministrativa al Comune di Caltavuturo. Voluti entrambi nella giunta guidata dal sindaco Domenico Giannopolo nel periodo compreso tra 1993 e il 1997, con una lista civica di ispirazione democratica e progressista che aveva sovvertito ogni più rosea previsione elettorale, lui appena laureato, io appena abilitato alla professione forense, tutto potevamo immaginare fuorché di essere coinvolti in una esperienza così ricca di progettualità e risultati per la nostra comunità. Roberto non poté fare a meno di partire dal suo sconfinato amore per le tradizioni e la cultura agro-pastorale, pensata e riadattata in un contesto di modernità: nacque così l’idea del recupero dell’Area “Mannari” a ridosso di Terravecchia (antichi ovili in pietra dove ricoveravano le greggi) con fruizione divulgativa in chiave turistica dell’antica attività pastorale; le prime edizioni delle Estati caltavuturesi, i piani triennali delle iniziative culturali e artistiche segnate da una idea concreta di messa a sistema delle ricchezze culturali e paesaggistiche del suo luogo natio.
Un lavoro continuo ed instancabile, che spaziava dalla progettualità intellettiva alle fatiche manuali fuori dall’ordinario, come quella che ci impegnavano ogni notte, al termine degli spettacoli in Piazza e fino alla realizzazione di lì a pochi anni del Teatro comunale all’aperto, per rimuovere e depositare le sedie messe a disposizione del pubblico per assistere più comodamente agli spettacoli.
L’impegno amministrativo, tuttavia, non lo distolse dal raggiungimento di importanti traguardi professionali. In questo mostrava – a differenza mia – tutta la propria caparbietà e positiva testardaggine. Riuscì, infatti, a vincere in quello stesso periodo un concorso che gli permise di svolgere le funzioni di vigile urbano a Pietraperzia (o Barrafranca, adesso non ricordo esattamente) e poi a Scillato, e contestualmente a coronare il suo sogno di entrare nel mondo accademico, come ricercatore all’Università di studi di Napoli “l’Orientale”, una delle più prestigiose in ambito linguistico. Tutto ciò senza tralasciare alcunché, tanto meno i piacevoli momenti di svago e rilassatezza, anche quando, per andare al cinema a Caltanissetta, doveva cambiarsi la divisa in macchina, per strada. O come quella volta che, dovendo raggiungere Napoli per un impegno in Facoltà, approfittammo per fargli compagnia e proseguire per qualche giorno di vacanza tra il Lazio e l’Umbria con le nostre future mogli e un’altra coppia di amici, partendo nella notte con un vecchio furgone prestatoci dal nostro amato parroco padre Lorenzo. Senonché a Napoli ci arrivammo a bordo di un carro-attrezzi per la rottura del cambio alle porte di Salerno e l’unico che la prese con una certa filosofia, provando a minimizzare e tenere alto il morale sconfortato della truppa, fu proprio lui.
Roberto era affabile, istrionico e divertente, sempre col sorriso sulle labbra e la battuta pronta. Aveva una particolare capacità di cogliere le peculiarità più singolari delle persone e di costruirci sopra delle storie. Indimenticabile, per noi, rimane quella sera della festa della Patrona di Caltavuturo, in cui aveva ricevuto dal Sindaco le chiavi della sua macchina per spostarla dal luogo in cui l’aveva lasciata e riconsegnarla al termine dei suoi impegni istituzionali. Saliti a bordo della vettura, con le nostre compagne, Roberto si improvvisò nelle vesti del Sindaco, a suo dire distratto e poco incline alla guida visto i tanti segni di ammaccatura delle fiancate. Cominciammo a percorrere tutti i vicoli più stretti del paese con traiettorie improbabili e, in corrispondenza delle “cantunere”, Roberto apriva lo sportello per simularne il contatto addosso ai muri agli angoli delle strade. La scena andò avanti per un bel pezzo, in un clima di irrefrenabile divertimento. Parcheggiata la vettura e incamminati per una passeggiata tra la folla festante, un vigile urbano venne verso di noi, e con fare preoccupato ci rivelò di aver visto il Sindaco comportarsi alla guida della propria auto in maniera sconsiderata e che probabilmente era “impazzito”.
La sua crescita professionale, gli impegni collegati alla didattica e alla ricerca, i riconoscimenti per le pubblicazione e la divulgazione dei propri studi e delle tante opere, non hanno cambiato nel tempo il suo animo curioso e disponibile, il suo carattere vivace ed intuitivo, il suo iperattivismo coinvolgente, l’impegno sociale e l’attaccamento al suo paese natale, in cui aveva deciso di vivere senza rinunciare a conoscere e frequentare il mondo, il trasporto e l’attaccamento ad Eugenia e Mauro, che lo completavano come marito e padre amorevole. Semmai, ne avevano smussato le irrequietezze tipicamente giovanili e lo avevano reso particolarmente equilibrato e consapevole.
Ogni incontro diventava piacevole e costruttivo, con lui era impossibile annoiarsi, ed era anche l’occasione per programmare qualcosa di nuovo, magari un viaggio per staccarsi dalla quotidianità e dedicarsi interamente ai propri cari e lasciarsi andare a momenti di fanciullesca vivacità. Come in occasione di quell’ultimo capodanno trascorso ad Atene, e di quella cena improvvisata sotto un tendone che ci riparava dalla pioggia in una tradizionale “taverna” del centro, durante la quale riuscimmo a trascinare dapprima una algida e numerosa famiglia scandinava che cenava al tavolo di fronte, e poi progressivamente, gli altri avventori e i proprietari della locanda, in un crescendo di canti e divertenti battute in un clima di spassosa e coinvolgente leggerezza, che sarebbe proseguita per tutta la notte tra le piazze ed altri locali della capitale, dove brindammo all’anno nuovo due volte in conseguenza del fuso orario.
Roberto è andato via troppo presto, “a timpulata”, in una surreale mattina di agosto, lasciandoci sbigottiti e increduli, con un enorme vuoto dentro. Era nel pieno delle sue attività, aveva una montagna di cose da dire e da fare. Personalmente mi mancheranno di lui il sorriso e la curiosità, l’imprevedibilità e l’estro, la capacità critica e la profondità di analisi alternati allo spirito ‘fanciullino’, la voglia di donarci sempre qualcosa di più; ma Roberto ci ha soltanto lasciati un po’ più soli, non è morto, perché come dice Foscolo, tale è colui che non ha nessuno che lo ricordi. E Roberto, invece, ha tante, tantissime persone che ne raccontano quotidianamente quella parte di lui che hanno avuto la fortuna di conoscere ed apprezzare.
2. Chi era Roberto? Sono sicura che in pochi darebbero risposte nette, precise e uguali l’una all’altra, perché infinite sono le persone che conosceva e il motivo che li legava.
Io non saprei delineare oggettivamente la sua figura, ma posso dire come lo vedevo. Per usare una similitudine, potrei dire che la cura che metteva nello studio linguistico era la stessa che metteva nei rapporti umani: attento, preciso, mai scontato né banale, non aveva preferenza per le parole, auliche o volgari che fossero, avevano pari dignità. Colloquiare con lui era un piacevole e continuo arricchimento umano e culturale.
Con Roberto ci conoscevamo da tempo e l’ho sempre guardato e ammirato per la sua autorevolezza e sapienza di professore universitario, all’apparenza inaccessibile, ma persona umile, di cuore e sincera che non le mandava a dire. La sua personalità eclettica si estrinsecava anche nell’abilità di esporre in modo appropriato e adeguato i suoi pensieri, magari risultando eccessivo per chi non lo conosceva, in realtà era solo autentico e spontaneo. E se si trattava di una cosa seria, il suo volto cambiava espressione e dopo aver parlato e gesticolato, ti guardava con gli occhi fuori dalle lenti, apriva la mano con le dita distanziate e diceva: “Capito quello che ti voglio dire?”.
Da qualche mese il nostro rapporto aveva preso la forma di un’amicizia diversa, destinata a durare a lungo, con prospettive a breve e a lungo termine, se non se ne fosse uscito con questo colpo di scena.
In compenso, ho scoperto altre sfaccettature del suo carattere grazie ai racconti di Mauro ed Eugenia, alle parole di parenti, colleghi, amici e studenti che ho incontrato grazie a lui e che, come me, hanno vissuto questa inattesa privazione.
Arrivava all’improvviso, sempre con il sorriso sulle labbra, si sedeva al tavolo per un momento di condivisione e da una battuta all’altra si faceva notte, senza mai un attimo di silenzio. Le serate con lui erano imprevedibili sia dal punto di vista della leggerezza che della discussione seria e riflessiva. Ti metteva al centro della discussione e ti offriva quello che possedeva in maniera spassionata.
In un sabato pomeriggio di luglio, ci comunicò la fitta agenda di eventi del mese di agosto sulla presentazione del libro SUCA. Storia e usi di una parola e ci invitava a partecipare alla presentazione dell’1 agosto al Màrcato Cangelosi. Allora risposi che, avrei partecipato con piacere e aggiunsi come battuta: «Dopo aver assistito a tutte le presentazioni del libro, posso pure presentartelo io!». Non mi lasciò neanche fare un passo indietro e aggiungere: «Guarda che stavo scherzando…» che disse: «Benissimo! Me lo presenti tu!». Quella risposta mi aveva spiazzata e, forse, leggendolo sul mio viso lui replicò: «A neca ti n’ha pèntiri! (Non pentirtene!).
Quella domenica 1 agosto il tempo si è fermato, eravamo in un posto isolato nel Parco delle Madonie, i telefoni non avevano campo e dopo un’iniziale fase di ricerca delle Case Canna, in cui Roberto saliva sui massi di pietra e gridava con la sua voce squillante: “Costitueeente!”, siamo arrivati a destinazione. Una giornata molto calda, circa 45°, smorzata da un lieve e piacevole venticello. Eravamo un gruppetto di amici e lui, contento e fiero della nostra presenza, ci presentava ai padroni di casa come se fossimo dei gioielli da mostrare. Era felice! Abbiamo mangiato, discusso, cantato, riso e presentato il libro, il regalo più bello che avesse potuto farmi. Al ritorno, con un’andatura lenta, ci siamo goduti il viaggio verso Caltavuturo.
La Sicilia ha perso un figlio che ha marcato bene la sua impronta, che ha dato tanto e che, instancabile com’era, avrebbe dato ancora. La Sicilia ha perso un figlio che con rumore faceva sentire la sua presenza e di cui oggi è forte e assordante l’assenza. Noi tutti siamo stati privati della presenza fisica e della possibilità di continuare a conoscere un uomo immenso, con un grande patrimonio umano e intellettuale, che dispensava a piccole dosi, disponibile all’ascolto e al dialogo, un personal trainer dell’anima che motivava a perseguire uno scopo e a guardarne la prospettiva da un’angolazione diversa, quella che immediatamente non scorgevi.
Non dimenticherò le parole pronunciate dal prete durante la funzione religiosa con cui lo abbiamo salutato: «Se il padrone di casa sapesse a che ora venisse il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa». La sensazione è proprio questa: essere stati derubati inaspettatamente, senza la possibilità di potersi appellare al tribunale della vita per essere risarciti. Chi è questo ladro che ce lo ha rubato? O, forse, questa è stata la sua ultima magistrale lezione che non si può imparare dai libri? Apprezzare e vivere ogni momento della vita perché «di doman non c’è certezza!».
3. Avrei molti aneddoti e ricordi legati al mio caro prof ma ho preferito raccontare questo che segue perché lo considero l’inizio del suo essere mio grande amico, mio consigliere, mio mentore.
Agosto 2012. L’estate della maturità, l’estate della transizione, l’estate della spensieratezza, l’estate più bella. Il tempo passava in fretta e insieme al gruppo in cui suonavo ci preparavamo al nostro esordio che sarebbe avvenuto a fine mese. L’indecisione era tanta come lo erano i dubbi. Così mi rivolsi a Roberto Sottile che militava negli Hemera (di cui era il cantante) per avere qualche dritta e, nel caso avesse accettato, duettare con il brano “Gioconda” dei Litfiba. Accettò di buon grado e tra una prova e l’altra mi chiese: “Ma tu chi facoltà scigghisti?” e io risposi “Mediazione linguistica” – “Amunì, passa i test che ci rivedremo a lezione!” Passai i test e ci ritrovammo all’Università di Palermo. Era una situazione surreale: poco più di un mese prima eravamo insieme su un palco a cantare “Non te lo do l’anello, no! No! Scordatelo!” di Piero Pelù e adesso uno di fronte all’altro, lui con la giusta autorevolezza di un docente universitario e io, giovane matricola, seduto su una delle sedie di un’aula dell’edificio 19 che ascolto la sua lezione di linguistica italiana. Lezione dopo lezione rimasi affascinato dalla materia e dal modo in cui lui riusciva a trascinarci. E fu per questo che decisi di scrivere la tesi in linguistica italiana, seguito, ovviamente, dal professore Sottile (non fui l’unico, molti miei colleghi lo scelsero come relatore).
Il lavoro di ricerca consisteva nello spoglio di un’opera a forte componente plurilingue, ricercarne tutte le parole dialettali (o per dirla con il professore «ogni parola che propriamente italiana non è») e creare un indice. Il risultato finale sarebbe stato un insieme di voci dialettali come quelle di un dizionario, etimologicamente e geolinguisticamente commentate. Finito lo spoglio mandai tutte le parole che trovai nel romanzo di Andrea Camilleri Il birraio di Preston ma dovevamo ancora concordare quali parole dialettali avrebbero dovuto comporre l’indice.
Poco prima delle vacanze di Natale del 2015 tenne la presentazione di una sua pubblicazione (Parole migranti – Tra Oriente e Occidente) presso palazzo Bonomo a Caltavuturo; volle me e la mia collega Valentina per coadiuvarlo nella descrizione di una parola a scelta (io scelsi cubbàita) descritta nell’opuscolo. Conclusa la presentazione restammo un altro po’ a commentare l’evento e quando finimmo chiesi se mi poteva aiutare a scegliere le parole da inserire nell’elaborato di laurea. “Minchia! Ancora nenti ha fattu?” esclamò con la sua calda voce. “Giusto, professò! Ha detto bene! Minchia: la farò sulle parolacce siciliane!”. Mi guardò per tre secondi e mi disse: “Mi piace! Quali paroli pigghiamu? Mìnchia, cabbasìsa, timpulata?” Era felicissimo di ciò che gli proposi che sembrava come se avesse voluto scrivere lui quella tesi, soprattutto quando gli dissi il titolo: “I Vigatèsi non vogliono scassata la minchia”. Rise e approvò con tutto sé stesso.
Quindi nei mesi successivi, scelte le parolacce da analizzare, cominciai a ricercarne l’etimologia nel Vàrvaro, il Vocabolario Storico-Etimologico del Siciliano e a comporre l’elaborato finale. Completato il lavoro, giunse il momento di caricarlo nel sito dell’università in cui si doveva indicare il titolo e il relatore. Aspettavo conferma dal professore che però mi dissuase dall’usare quel titolo scrivendomi questa mail: «Ho riflettuto sul titolo, per me non c’è nessun problema, ma penso alla povera prof.ssa Cancelliere che, nella sua possibile qualità di Presidente di Commissione, dovrà leggere ad alta voce il titolo della tesi durante l’esame di laurea. Suggerisco, quindi, di cambiare in “I Vigatesi non vogliono scassati i cabbasisi”. Il senso è lo stesso e il titolo, alla fine, è anche più intrigante». Come potevo dirgli di no? Così caricai il file e aspettai con ansia la data della discussione. 20 luglio 2016, giorno della discussione di laurea: dopo una snervante attesa giunse il mio turno, mi alzai, mi guardò e fece un sorriso. La Presidente di commissione stava prendendo la parola ma lui, a scanso di equivoci, la interruppe e prese la parola presentandomi. Quindi cominciai a introdurre il mio lavoro ma più andavo avanti più mi pentivo della piega che stava prendendo la situazione: avevo gli occhi di tutti (commissione, famiglia, amici e i cari degli altri candidati) puntati addosso che aspettavano dicessi quella parola che ha fatto del siciliano e della sicilianità un emblema. «Quale siciliano non esprime sorpresa, disappunto, sgomento, gioia o dolore senza utilizzare la parola (parolaccia?)…» Qui mi fermai e presi un sospiro, guardai il professore che ricambiò lo sguardo con il sorriso sotto i baffi come a dire “Hai voluto la bicicletta? Ora pedala!” Ho alzato le spalle e ho continuato «…mìnchia”, in una vasta gamma di inflessioni?». Sentivo le persone dietro di me bisbigliare, ridere, la presidente restò attonita, il resto della commissione proruppe in una risata corale e lui, il professore, si girò dall’altro lato ridendo. Finita la discussione andai fuori a scrollarmi di dosso l’ansia e la preoccupazione che, nonostante l’aria fosse tutt’altro che tesa, aveva preso il sopravvento. Aspettavo solamente l’esito che mi fu riferito dal professore stesso che mi abbracciò e mi disse: “Minchia! Fusti bravu! Ti dettimu u massimu ca ti putivàmu dari!”. Lo ringraziai e gli dissi che ci saremmo risentiti alla fine di quella estate.
Continuai a collaborare con il professore anche dopo la laurea per alcuni suoi progetti volti a studiare la lingua siciliana e lui lo scorso anno partecipò, duettando con me, nella cover di “Cantu e cuntu” di Rosa Balistreri con il gruppo in cui canto, gruppo che continua a esistere forse anche grazie a lui che ci ha dato la spinta giusta. Ho sempre fatto tesoro di quello che mi ha detto, consigliato, suggerito e non riesco ad accettare ancora la sua dipartita, piango ogni volta che lo penso, piango adesso mentre scrivo questo bel ricordo che custodirò per sempre nel mio cuore.
Spesso ascolto su YouTube una canzone che lui cantò live con gli Hemera (il gruppo di cui era cantante) dal titolo Indemin nesc? che significa “Come stai?” in amarico; il video comincia con la spiegazione del titolo e del testo (scritto da lui). Lo guardo più e più volte a occhi chiusi immaginando di essere a una sua lezione, lui con la giusta autorevolezza di un docente universitario e io, giovane matricola, seduto su una delle sedie di un’aula dell’edificio 19 dell’università di Palermo. Rispondo alla sua canzone dicendo che non va bene, non va per niente bene.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
[*] Il primo testo è di Lorenzo Castellana, il secondo di Nieta Gennuso, il terzo di Riccardo Rizzitello.