Come sempre è avvenuto nella storia, l’umanità si sposta, cammina creando nuove realtà sociali, nuove appartenenze, e al tempo stesso producendo i paradossi dell’esclusione e del riconoscimento forzato in categorie inesistenti e deformate dalla costrizione delle definizioni sommarie. L’umana necessità di definire e definirsi entro schemi sempre più particellari è un modo per conoscere, ma è anche un modo per escludere, limitando la mutevolezza entro concetti riduttivi e rigidi che non seguono la variegata natura del genere umano, che non può essere inchiodato su una definizione statica, unico in ogni suo componente ma non disgiunto dagli altri.
Giunti inizialmente nel VII secolo nella striscia acquosa e salmastra del Rakhine, sulla costa della Birmania, e nuovamente sulla spinta del colonialismo britannico che nel XVII secolo ha comportato una seconda grande ondata migratoria, i Rohingya, musulmani provenienti dal Bangladesh, sono rimasti ai margini di una società che non ha permesso la sana mescolanza, e che chiusa nel baluardo di un arrogato diritto di prelazione, ha imposto una condizione di inferiorità segnata con odierna evidenza dalla pratica del diritto di voto, negato a coloro che rappresentavano, prima del deflagrare delle violenze, circa il 25% della popolazione locale, ma ritenuti dalle molte altre realtà etnicamente definite, pur dopo secoli di condivisione degli stessi luoghi, cittadini del Bangladesh, la terra lasciata 14 secoli prima, che a sua volta non li riconosce più come propri abitanti.
Nel 1948 con la dichiarazione di indipendenza della Birmania dall’impero coloniale britannico, il popolo Rohingya rimase escluso dai riconosciuti gruppi nazionali e nel 1982 venne loro ufficialmente negata la cittadinanza. Si è giunti a delineare un popolo che c’è ma non esiste, un’umanità negata dalle formalità giuridiche e burocratiche di un’esclusione tanto opportunista quanto miope.
Fra i troppi diritti negati a questo popolo vi sono quello di associarsi, di possedere delle proprietà terriere, e quello di spostarsi, quello di avere un’identità riconosciuta da un documento; a loro è vietato l’accesso alle cure mediche e all’istruzione. I Rohingya sono ostaggi immobili di una vessazione secolare e una simile condizione non può che provocare il malessere e il malumore generale è destinato a sfociare in esasperate manifestazioni di rivalsa, facili da strumentalizzare.
Il precario equilibrio tra i reietti originari del confinante Bangladesh e il resto delle popolazioni del Myanmar, assuefatte da secoli di politica dell’esclusione a considerarli come indebiti occupati, si è mantenuto in un crescendo di rancori, macerati in una poltiglia che mescolava il diritto alla terra e la religione, il grado di istruzione e le abitudini alimentari, la lingua e il quotidiano vivere.
È nel 2012, se si vuole identificare il punto formale di deflagrazione, che quei rapporti tacitamente ostili si sono aperti al dilagare violento dell’avversità. A seguito di sporadici episodi di criminalità e scontri avvenuti durante alcune manifestazioni volte all’estensione del riconoscimento dei diritti dei popoli birmani anche ai Rohingya, questi ultimi sono stati indicati dalle autorità locali come responsabili dei disordini e di rappresentative aggressioni: si è acceso così un movimento di oppressione efferato, attuato anche dalle compresenti comunità buddiste, comunità legate, nell’immaginario comune, ai princìpi di non violenza, di sano equilibrio, di silenzioso raccoglimento, derivate invece in assalti brutali dell’esercito e manifestazioni di odio promosse e capitanate da Ashin Wirathu [1], monaco buddista a capo di un movimento contrario alla presenza di musulmani in Myanmar, apertamente ostile ai Rohingya i quali, essendo estromessi dall’istruzione nazionale, ricevono esclusivamente, nei propri villaggi, un’istruzione religiosa, che porta in sé il rischio delle derive di una cultura isolata e cristallizzata da secoli, foraggiata dalla paura e dalla vessazione dell’esclusione, ma che qui non è mai sfociata, ad oggi, nell’odio cieco perpetrato invece da coloro che possono ripararsi dietro l’egida di una stereotipata immagine di pace e benevolenza.
La violenza fomentata, che ribolliva da secoli, si è esplicata attraverso le varie forme dell’annullamento del presunto nemico, che sia un adulto, un anziano o un bambino, nessuno è stato risparmiato dalla sequela di efferatezze: dalla messa a fuoco di interi villaggi, alle uccisioni sbrigative, dalle torture a seguito di arresti sommari alla sparizione dei prigionieri, dagli stupri di massa alla spinta verso un esodo forzato che troppe volte si è risolto nell’eccidio di un naufragio.
Nei ultimi cinque anni le notizie sulla questione Rohigya, numeri e dati certi non sono stati disponibili a causa del diniego dato dalle autorità locali all’intervento e alla presenza in loco di organizzazioni umanitarie e delegazioni internazionali: estromessi dalla scena operatori, osservatori e giornalisti, tutto ciò che è avvenuto in quel territorio è desumibile dai suoi effetti e dalle testimonianze raccolte tra gli esuli sopravvissuti.
Il governo birmano, e il ministro degli esteri Aung San SuuKyi [2], insignita nel 1991 del Nobel per la pace, hanno respinto ogni accusa e sospetto di violazione dei diritti umani, riferendo alla platea internazionale che la realtà locale è solo quella della repressione controllata e mirata di episodi insurrezionalisti, che non è in atto alcun genocidio dal momento che, stando a esclusive dichiarazioni interne, alcuni Rohingya sono ancora presenti sul territorio birmano del Rakhine, né vi è alcuna violazione della libertà di credo essendo ancora presenti i luoghi di culto islamico, professato da questa popolazione. Spiegazione, questa, che non può essere creduta a fronte di un’estromissione drastica di ogni osservatore esterno e a fronte altresì dei dati ricavabili dagli arrivi nei campi profughi [3] sorti in Bangladesh, lungo il confine con il Myanmar,dalle imbarcazioni straripanti di esuli Rohingya, che solcano la conca del golfo del Bengala, tra naufragi e sfinimento, e dai respingimenti messi in atto da Malesia, Thailandia e Indonesia, che, nella disumana attuazione di tale pratica, manifestano la portata del fenomeno e dunque dell’emergenza interna allo stato blindato del Myanmar.
Di fronte a uno scenario che, sia pur oscurato, lascia ben poco spazio all’immaginazione di una quotidianità sana e sicura, le istituzioni internazionali preposte alla vigilanza dei diritti umani, come spesso tristemente avviene e è avvenuto nella storia, lasciano passare mesi, anni, nell’attesa di una definizione meramente linguistica che legittimi un intervento attivo e denunci l’esistenza di un’emergenza umanitaria di enorme portata e dagli effetti estesi ben oltre quelli che sarebbe più comodo valutare come antipodi del proprio mondo.
Nel mese di gennaio del 2017, a cinque anni dall’inizio delle violenze, l’Human Rights Watch, osservatorio sui diritti umani, ha formalmente criticato la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite per avere indagato in modo fazioso e con lassismo formale e pratico; attivisti e politici di vari Paesi hanno rivolto ancora i loro appelli al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché intervenga e abbandoni l’immobile ignavia che perdura da anni; i funzionari ONU preposti ai rifugiati hanno dichiarato la stima di mille vittime del conflitto, 64 mila profughi e dai 300 ai 500 mila dispersi: le autorità del Myanmar hanno risposto che la situazione è ora risolta e i conflitti sono cessati, la presunta insurrezione è stata dichiarata sedata, ma rimane il divieto di ingresso agli osservatori internazionali e ai volontari degli aiuti umanitari che da tempo pressano per un intervento.
Il massacro di un intero popolo che si sta perpetrando lungo la fascia del Rakhine, per quanto attutito dal silenzio che lo circonda, non deve essere visto come avulso dalla realtà occidentale che vorrebbe ignorarlo, non solo per il bieco concetto di un simile distacco, ma anche, con freddo cinismo per gli effetti che questo spostamento disperato può avere nel quotidiano riparato del primo mondo: esuli disperati, bambini traumatizzati che diventeranno adulti schiacciati dal dolore o dalla rabbia, genitori che devono trovare una via di salvezza per i propri figli si riversano entro i confini di uno Stato, il Bangladesh, già fortemente segnato da difficoltà socio politiche e da ingenti fenomeni migratori, lambiscono la principale località turistica del Paese, la lunga e bianchissima striscia di sabbia, alberghi e locali di ogni genere dove proprio gli occidentali vanno a svernare al sole e che dista appena trenta minuti di automobile e qualche attimo di coscienza da quel confine puntellato di campi e di esuli sfiniti, di polizia di frontiera che regola, limita e sbarra e di attivisti umanitari che tentano di aprirsi un varco di intervento nell’orrore di un eccidio taciuto.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Arrestato nel 2003 per incitamento all’odio (rilasciato poi nel 2010), membro di spicco del Ma BaTha, Associazione patriottica del Myanmar, un’associazioneformalmente nata nel 2014, basata sulla protezione della razza e della religione buddista Theravada, che accoglie al suo interno accademici e monaci di chiara deriva nazionalista. Ashin Wirathu è noto anche per avere più volte espresso le sue teorie circa la necessità di tenere le donne birmane in una condizione di inferiorità giuridica e sociale, scagliandosi con veemenza verbale contro il ministro Aung San SuuKyi che aveva criticato alcune leggi apertamente sessiste in vigore nel Paese.
[2] Il 30 maggio 2016, il governo del Myanmar ha istituitoil Comitato centrale d’implementazione della pace, stabilità e sviluppo dello stato di Rakhine, presieduto da Aung San SuuKyi e Il 24 agosto 2016 lei stessa ha istituito una Commissione consultiva per affrontare la questione dello stato di Rakhine, presieduta dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. A seguito dell’attacco del 9 ottobre 2016 nello Stato di Rakhine, in cui sono rimasti vittime di un attentato 9 poliziotti birmani che presidiavano il confine col Bangladesh, l’ufficio di Aung San SuuKyi ha, però, istituito “l’ufficio informazioni del consigliere di Stato”, che ha rilasciato smentite sulle violazioni dei diritti umani da parte forze di sicurezza, chiudendo il dialogo e sminuendo la portata reale dei fatti.
[3] Dei campi sorti oltre il fiume Naf, lungo il confine del Bangladesh, solo due, autorizzati dal governo ma gestiti dall’UNHCR sono realmente monitorabili dagli operatori internazionali, altri campi minori sono disseminati lungo i trentacinque chilometri di contatto tra i due stati, ma non sono stati forniti dati né permessi di monitoraggio. Il governo del Bangladesh ha inoltre recentemente paventato la possibilità di trasferire gli esuli indesiderati (65mila persone circa) sull’isola Thengar Char, alla foce del Naf, insalubre e inospitale terra di residui fluviali emersa da una decina d’anni, ma a oggi questo progetto appare più come una minaccia alla comunità internazionale, statica e inattiva, che non un fattivo programma.
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